Collezione Farnese
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Collezione Farnese
La Collezione Farnese, una delle più prestigiose raccolte d'arte del Rinascimento e del Barocco, è distribuita in diversi luoghi di Napoli e dintorni, ciascuno con tesori unici che riflettono la ricca eredità culturale della famiglia Farnese.
Museo e Real Bosco di Capodimonte, Collezione d'Avalos
La Collezione D’Avalos nacque nel corso del Cinquecento con Alfonso II, marchese di Pescara, e perdurò fino ai primi anni del XIX secolo con l'ultimo mecenate di famiglia Alfonso V d'Avalos. Gran parte della raccolta fu smembrata nel corso degli anni, dove furono venduti alcuni dei pezzi più preziosi, fino a quando, nel 1862, ciò che ne restava non confluì interamente nella Pinacoteca di Napoli.
La collezione, che comunque si componeva di opere eterogenee, includeva pitture di Tiziano, oggi sparse in diversi musei del mondo, dove sono ritratti alcuni esponenti della famiglia, opere fiamminghe dei tessitori Bernard van Orley, Jan e William Dermoyen, che eseguirono i preziosi arazzi della battaglia di Pavia, ed infine tele del Seicento napoletano, prettamente a tema mitologico, di Pacecco De Rosa, Andrea Vaccaro e Luca Giordano.
Si tratta di una delle più importanti collezioni d'arte della Napoli del Seicento, assieme a quella Vandeneynden e Roomer.
La collezione iniziò con il marchese Alfonso II intorno alla metà del Quattrocento, che con Costanza d'Avalos, duchessa di Francavilla, contessa di Acerra e governatrice di Ischia, avviarono le prime commesse private di opere pittoriche. Alfonso III d'Avalos, nipote di Alfonso II e Costanza, continuò nel XVI secolo il mecenatismo, riuscendo nel contempo a estendere lo spessore culturale della famiglia oltre i territori vicereali: celebre infatti era il suo legame con Ludovico Ariosto negli anni in cui il nobile spagnolo-napoletano divenne governatore del ducato di Milano.
Con quattro degli otto figli che ebbe Alfonso III (Francesco Ferdinando, Innico, Cesare e Carlo) la famiglia iniziò a dividersi in più rami, tra cui i principali (sotto il profilo del mecenatismo) furono quello napoletano di Montesarchio e quello abruzzese del Vasto. Venuti a mancare prematuramente i due maschi discendenti di Carlo, la moglie Sveva Gesualda cedette il titolo di principe di Montesarchio ad un figlio di Cesare, Giovanni d'Avalos.
La collezione si intensificò sotto il ramo d'Avalos di Montesarchio dapprima con Giovanni e successivamente, alla morte di questi avvenuta nel 1638, con il figlio Andrea, pluridecorato condottiero e politico impegnato nella difesa di Napoli sotto il dominio della corona spagnola. La collezione del ramo di Montesarchio era conservata nel palazzo di famiglia di Chiaia risultando particolarmente prestigiosa già all'epoca, tra le migliori del casato, tant'è che il Celano la descrisse ne le sue Notizie del 1692 come «casa nobilissima dei d'Avalos, ricca di famosi quadri».
Parallelamente al ramo napoletano di Montesarchio, sul finire del Seicento giocò un grosso ruolo di mecenate anche la figura di Cesare Michelangelo d'Avalos, marchese del Vasto e di Pescara, principe di Isernia e Francavilla, che nella propria residenza abruzzese allestì una biblioteca di ottocentotrenta volumi oltre ad una ricca collezione di opere d'arte. A causa dei debiti accumulati nella sua concitata vita, fu infatti esiliato, prima a Roma e poi a Vienna, Cesare Michelangelo morì nel 1729 con la messa in vendita della collezione.
Successivamente a questa spoliazione avviene il trasferimento definitivo delle opere superstiti dal palazzo di Vasto a quello di Napoli, ricongiungendo le collezioni d'Avalos in una sola. A partire dal 1751-1754 si costituì la pinacoteca d'Avalos del palazzo nobiliare di Napoli, con le tele "abruzzesi" invendute che si aggiunsero alla collezione napoletana, le cui stanze furono ripensate e risistemate per l'occasione dall'architetto Mario Gioffredo.
Con il nipote di Giambattista, Tommaso d'Avalos, invece, secondo alcune fonti sarebbe avvenuto il rientro nella raccolta familiare degli arazzi della battaglia di Pavia, che intanto furono venduti, per poi giungere nei possedimenti del patrizio Daniele Dolfin intorno al 1774. Dopo essere stati portati a Vienna, questi sarebbero poi tornati nuovamente in possesso della famiglia d'Avalos tra la fine del XVIII e gli inizi del XIX secolo, quando vennero riacquistati appunto da Tommaso.
Intorno all'Ottocento, gli arazzi risultano registrati nel piano nobile del palazzo d'Avalos di via dei Mille a Napoli. La collezione d'Avalos rimase nel palazzo di Chiaia a Napoli sotto la proprietà della famiglia fino al 1862, quando l'ultimo dei discendenti dei rami di Vasto, Pescara-Francavilla, Troia e Montesarchio, Alfonso V, nipote di Tommaso, la donò al neo-nato Stato italiano. Dopo diverse controversie legate ai lasciti testamentari della raccolta, in quanto gli eredi del casato ne rivendicarono successivamente la proprietà, la collezione divenne ufficialmente patrimonio dello Stato italiano solo nel 1862.
A partire dal 1957 gran parte del nucleo di opere facenti parte dell'inventario trovò collocazione nel Museo nazionale di Capodimonte. Circa 35 pezzi della collezione, in particolare quelle a carattere mitologico di Luca Giordano, furono collocati tra il 1926 e il 2012 negli edifici di rappresentanza pubblica della città (villa Rosebery, villa Floridiana ed altri) e dello Stato italiano (Camera dei deputati e Senato).
Museo Archeologico Nazionale di Napoli
Reggia di Caserta
Il Palazzo Reale di Caserta è la principale opera commissionata da Carlo di Borbone nel Regno di Napoli e fu fondamentale per affermare con magniloquenza l’immagine e il ruolo del nuovo sovrano agli occhi dell’Europa. Sulla scia della Versailles di Luigi XIV e di quelle delle altre grandi corone, anche il re di Napoli si dotava della sua magnifica reggia agli occhi dell’Europa.
Per il progetto, Carlo pensò inizialmente all’architetto napoletano Mario Gioffredo, poi a due rinomati architetti romani, Nicola Salvi, già impegnato nel compimento della Fontana di Trevi, e Luigi Vanvitelli che, libero da altri incarichi, accettò subito l’offerta. Il 20 gennaio 1752, giorno del compleanno del re, fu posata la prima pietra del complesso, sulla quale Vanvitelli ne collocò un’altra con un distico in latino che recitava: Rimanga questo palazzo, questa soglia e la progenie dei Borbone, finché questa pietra per propria forza ritorni in cielo.
Il palazzo, il cui accesso è consentito attraverso tre portoni, presenta una pianta rettangolare, articolata attorno a quattro grandi cortili, i cui lati sono esposti ai quattro punti cardinali. La facciata principale, quella che guarda verso Napoli, è caratterizzata da un avancorpo centrale, sormontato da un timpano con orologio, dove quattro delle dodici colonne che decorano l’intera superficie, racchiudono un loggiato con una grande nicchia. La facciata sul parco è simile a quella principale, ma più ricca per la lunga teoria di paraste giganti che corre sul monumentale basamento; entrambe le facciate trasmettono un effetto grandioso, oltre che per la loro imponenza, anche e soprattutto per l’armonia delle parti, per la presenza dell’ordine composito alleggerito da giochi policromi ottenuti con l’uso combinato del travertino e dei mattoni. Un ampio loggiato attraversa il piano terra della reggia collegando i portali di ingresso al vestibolo centrale, dal quale è possibile scorgere il parco e la cascata sullo sfondo.
Quando nel 1759 Carlo passò al trono di Spagna, i lavori furono interrotti per essere ripresi nel 1765; alla morte di Luigi Vanvitelli (1773), il figlio Carlo si occupò del completamento delle decorazioni interne e del parco, quando il palazzo era giunto ai cornicioni e alle balaustre terminali. Nel 1774, seppure con delle modifiche rispetto al progetto originario, l’impianto esterno era concluso. Con la fine della dinastia borbonica la reggia perse la sua aura regale, ma, nonostante questo, resta a oggi tra le migliori testimonianze di un’epoca significativa per la storia del Regno di Napoli., Nel 1750 Carlo di Borbone (1716-1788) decise di erigere la reggia quale centro ideale del nuovo regno di Napoli, ormai autonomo e svincolato dall'egida spagnola. Il progetto per l'imponente costruzione, destinata a rivaleggiare con le altre residenze reali europee, fu affidato, dopo alterne vicende, all'architetto Luigi Vanvitelli (1700-1773). La Reggia di Caserta ha una pianta rettangolare articolata su corpi di fabbrica affacciati su quattro grandi cortili interni e si estende su una superficie di circa 47.000 metri quadrati per un'altezza di 5 piani pari a 36 metri lineari. Lo scalone d'onore, invenzione dell'arte scenografica settecentesca, collega il vestibolo inferiore e quello superiore, dal quale si accede agli appartamenti reali.Archivio di Stato di Napoli
Palazzo Reale
L’avvento sul trono di Carlo di Borbone segna un momento significativo per la storia del seicentesco palazzo vicereale, che divenne finalmente reale, pur rivelandosi impreparato ad accogliere un sovrano. Già verso il 1730, dopo una serie di interventi che per oltre un secolo avevano caratterizzato l’impianto originario, i viceré austriaci, preoccupati di una nuova guerra, abbandonarono ogni iniziativa sul palazzo per concentrare le risorse economiche sui preparativi militari. Nel 1734, il Palazzo Reale versava in uno stato di abbandono, tanto che, per renderlo abitabile, fu necessario ricorrere all’affitto di arredi e suppellettili presso l’aristocrazia locale. Carlo attuò subito un rapido programma di ampliamento e rinnovamento degli spazi interni, spinto sia dalla necessità di accogliere una corte degna di una capitale e disporre di spazi da destinare alle attività amministrative, politiche e di governo, sia dalla volontà di lasciare il segno della nuova monarchia, con i migliori auspici per la corona borbonica.Gli interventi riguardarono la realizzazione del “quarto” (appartamento) per il maggiordomo maggiore (1734) e la costruzione della nuova ala residenziale (1737), il cosiddetto Braccio Nuovo – oggi sede della Biblioteca Nazionale –, nonché la decorazione pittorica e la fornitura di arredi, molti dei quali provenienti dalla ricca raccolta Farnese, che qui giunse in deposito dall’eredità dalla madre Elisabetta, la regina di Spagna. Nel 1745, su progetto dell’ingegnere Biase De Lellis, fu prolungato il Belvedere, il terrazzo panoramico sito sul lato meridionale del palazzo con il giardino pensile, che dà nome al lungo cortile e caratterizza il fronte a mare. Pochi sono gli elementi di arredo di questo periodo ancora presenti, tra cui segnaliamo una coppia di poltrone di Gennaro Arata e uno sgabello a zampa di leone (sala XX), oltre a orologi e ceramiche di Capodimonte che dovevano arricchire gli ambienti con soffitti rococò, rivestiti di foglie d’oro e articolate decorazioni in stucco. Non si riscontra altrettanto interesse per quel che restava del vecchio parco all’italiana, poi in parte occupato dal Teatro di San Carlo e dal Braccio Nuovo. Nonostante il prolungamento di oltre 70 metri del terrazzo del Belvedere e la sistemazioni di giardini pensili, i giardini del palazzo più che quelli di una reggia appariranno a lungo aree verdi frammentarie realizzate in epoche diverse, mentre Carlo indirizzerà le sue attenzioni alle architetture di parchi e giardini verso i siti reali.Nei primi anni Cinquanta, date le gravi condizioni statiche in cui versava il portico della facciata principale, si resero necessari dei lavori di consolidamento. Nel 1753, su progetto di Luigi Vanvitelli, furono rafforzate le fondazioni del portico e murate alternativamente otto delle sedici arcate. Con la partenza di Carlo per la Spagna (1759), la corte borbonica si occupò principalmente del completamento delle opere già avviate dal sovrano.
, Nel 1734, la riconquista del Regno di Napoli da parte degli spagnoli e l’avvento sul trono di Carlo di Borbone segnarono momenti significativi per la storia del seicentesco palazzo vicereale, che divenne finalmente reale, ma si rivelò ancora impreparato ad accogliere un sovrano. Già verso il 1730, dopo una serie di interventi che per oltre un secolo avevano completato e ampliato l’impianto originario, i viceré austriaci, preoccupati di un’invasione spagnola e di una nuova guerra, abbandonarono ogni iniziativa riguardante il palazzo per concentrare le risorse economiche sui preparativi militari. All’arrivo di Carlo, il Palazzo Reale versava in uno stato di totale abbandono, tanto che, per renderlo abitabile, fu necessario ricorrere all’affitto di arredi e suppellettili presso l’aristocrazia locale. Grazie al programma di interventi attuato dal sovrano, questa situazione durò soltanto pochi mesi. Fin dai primi anni di regno, Carlo attuò un programma di ampliamento e di rinnovamento degli spazi interni del palazzo, spinto sia dalla necessità di accogliere una corte degna di una capitale e di disporre di spazi da destinare alle nuove attività amministrative, politiche e di governo, sia dalla volontà di lasciare il segno della nuova monarchia, con i migliori auspici per la corona borbonica. Gli interventi riguardarono la realizzazione del “quarto” (appartamento) per il maggiordomo maggiore (1734) e la costruzione della nuova ala residenziale (1737), detta “Nuovo Braccio” – oggi sede della Biblioteca Nazionale –, nonché la decorazione pittorica e la cura per gli arredi, molti dei quali provenienti dalla ricca raccolta Farnese, ereditata dalla madre Elisabetta, che qui giunse e fu inizialmente in deposito, la regina di Spagna. Nel 1745, su progetto dell’ingegnere Biase De Lellis, fu prolungato il Belvedere, il terrazzo panoramico situato sul lato meridionale del palazzo con il suo giardino pensile, che dà nome al lungo cortile e che caratterizza il fronte a mare. Pochi sono gli elementi di arredo di questo periodo ancora presenti a palazzo, tra cui segnaliamo una coppia di poltrone di Gennaro Arata e uno sgabello a zampa di leone nella sala XX, oltre a orologi e ceramiche di Capodimonte che dovevano arricchire gli ambienti con soffitti rococò, rivestiti di foglie d’oro e articolate decorazioni in stucco. Non si riscontra altrettanto interesse per quel che restava del vecchio parco all’italiana, poi in parte occupato dal Teatro di San Carlo e dal Braccio Nuovo. Nonostante il prolungamento di oltre 70 metri del terrazzo del Belvedere e la sistemazioni di giardini pensili, i giardini del palazzo più che quelli di una reggia appariranno a lungo aree verdi frammentarie realizzate in epoche diverse, mentre Carlo indirizzerà le sue attenzioni alle architetture di parchi e giardini verso i siti reali. Nei primi anni Cinquanta, date le gravi condizioni statiche in cui versava il portico della facciata principale, si resero necessari dei lavori di consolidamento. Nel 1753, su progetto di Luigi Vanvitelli, furono rafforzate le fondazioni del portico e murate alternativamente otto delle sedici arcate. Con la partenza di Carlo per la Spagna (1759), la corte borbonica si occupò principalmente del completamento delle opere già avviate dal sovrano. , Edificato per ordine di Filippo III di Spagna nel 1600, il Palazzo Reale di Napoli fu inizialmente residenza storica dei vicerè spagnoli. Venne notevolmente ampliato e abbellito dai sovrani borbonici dopo il 1734. È ubicato in Piazza del Plebiscito a Napoli e ospita, oltre agli antichi Appartamenti Reali, il Teatro di San Carlo, il Giardino e, dagli inizi del Novecento, la Biblioteca Nazionale "Vittorio Emanuele III"., Chi, entrando nel Palazzo Reale di Napoli, carico di secoli e di dinastie, decide di voler visitare gli appartamenti legati alla storia di Gioacchino Murat e della sua famiglia, non lo faccia con il gusto di chi cerca il fasto pubblico, ma con quello, piuttosto, di chi ama la tranquillità delle dimore private. E’ nelle stanze “domestiche” del re e della moglie Carolina (la sorella del grande Napoleone!), affacciate sull’incantevole Belvedere a mare del Palazzo, che si svolgeva la vita di una famiglia borghese alla quale il valore e la sorte avevano regalato la incerta, pericolosa fortuna di diventare sovrani di Napoli.Una piccola scala segreta conduceva dalla sua sala da pranzo al nostro appartamento.
Lui solo ne aveva la chiave e veniva a vederci in ogni momento in cui era libero dalle sue occupazioni”, racconta del padre la figlia Luisa nei suoi preziosi Souvenirs, regalandoci anche, di quei giorni lontani, l’immagine di una mamma che scherza con loro adagiata su un lettino di raso rosa. Questa grazia borghese, di cui la descrizione del “nuovo gran bagno” con “un bidet di mogano, con vasca d’argento” fatto venire apposta da Parigi è un complemento tutt’altro che trascurabile, non impedisce, tuttavia, alla memoria di Murat all’interno del Palazzo Reale di conservare in pieno la forza di una breve, ma non effimera vita storica. Così deve dirsi della Sala del trono, dove “le due grandi sedie a braccio del Re e della Regina” stavano a ricordare il ruolo non secondario svolto da Carolina in quei pochi, turbinosi anni. Così nel Salone del Re, dove il ritratto di Napoleone dipinto da Gerard (ora a Capodimonte) ammoniva chi veniva ricevuto dal re di Napoli – e soprattutto il re di Napoli stesso - che la vera origine di quella sovranità non era nelle luminose stanze affacciate sul golfo, ma nelle assai più severe stanze abitate, a Parigi, dall’Imperatore.
(NMdA), Il nucleo più antico del Palazzo, in origine destinato a residenza dei Vicerè spagnoli, corrisponde a quello che prospetta su Piazza del Plebiscito e si articola intorno al cortile d'onore.
La costruzione fu avviata nel 1600 dall'architetto Domenico Fontana.
A partire dall'insediamento della dinastia borbonica (1734) il Palazzo, è stato più volte ampliato fino ad assumere l'articolata struttura odierna.
Il piano nobile costituisce il Museo dell'Appartamento Storico di Palazzo Reale, al quale si accede dal maestoso scalone, che fu costruito da Francesco Antonio Picchiatti (1651-66) e poi modificato e rivestito di preziosi marmi policromi da Gaetano Genovese (1838-58).
L'Appartamento Storico è costituito da una solenne successione di saloni di rappresentanza, ciascuno dei quali era destinato ad una precisa funzione secondo il cerimoniale di corte.
All'interno delle sale si possono ammirare sontuosi arredi e raffinati oggetti d'arte applicata e dipinti di celebri pittori, come Massimo Stanzione, Luca Giordano, Mattia Preti o Bartolomeo Schedoni.
Fra gli ambienti più belli la Sala degli Ambasciatori con la volta affrescata da Belisario Corenzio (inizio XVII sec.) e la sala piccola la cui volta fu affrescata da Battistello Caracciolo (1611 ca.) con Storie di Consalvo de Cordoba; sono questi gli unici ambienti a conservare l'originaria decorazione seicentesca.
Di grande pregio è poi il cosiddetto Studio di Murat, arredato con mobili francesi di stile impero opera dell'ebanista Weisweiler (1810).
Gli antichi saloni ospitano numerosi pregevoli arazzi di manifattura napoletana (XVIII sec.); la Cappella Palatina è decorata da una tela di Domenico Morelli (1869), mentre il prezioso altare in marmi policromi (sec. XVII) proviene dalla Chiesa di S. Teresa degli Scalzi.