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Pino Daniele

(Napoli, 19 marzo 1955 – Roma, 4 gennaio 2015)

Pino Daniele fu salutato all’esordio come un guastatore, un terrorista melodico, un contestatore zazzeruto, un pericoloso eversivo di estrema sinistra che voleva buttare in politica tutto, persino ‘na tazzulella ‘e caffè e Masaniello, che prima di allora nero ed incazzato non si era mai visto. La via moderna alla canzone napoletana era stata aperta: sin dall’esordio commovente di «Terra mia» (1977) il futuro Nero a Metà tiene insieme Murolo e Presley, Bruni e Clapton, Carosone e Bill Whiters, i mandolini e le chitarre elettriche, scandendo con inesorabile e lucida poesia da voce di dentro verità e fake news sulla sua città.

Credits immagine: Courtesy Federico Vacalebre

Il nuovo americano di Napoli è stato la voce di una città senza voce, il megafono di una generazione che voleva portare l’immaginazione (e la rivoluzione) al potere ed è riuscita al massimo a portare la poesia in hit parade. Tra i cantautori italiani engagé degli anni ‘70, tutti testo e messaggio e poca musica, lui è stato il ribelle senza pausa che ha messo in campo il sound, il groove, il ritmo, i colori del blues, del jazz, del funky, del reggae, del soul, dell’Africa. Ha riportato in auge un dialetto rinnovato: al romanticismo di Di Giacomo ha aggiunto la consapevolezza che «chi «tene ‘o mare... nun tene niente», l’antica parlesia allo slang americano rubato nei locali per i militari della Nato.

Radici ed ali, tradizione e modernità, James Brown e Gesualdo da Venosa. Napule è mille suoni, l’abbiamo capito grazie a lui. Come abbiamo capito che l'unione fa la forza (metti il supergruppo con James Senese, Rino Zurzolo, Joe Amoruso, Tullio De Piscopo e Toni Esposito) e che l'egoismo da aspiranti solisti invece no.

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