Neomelodici

La fortuna di un’espressione al di là della “nuova melodia”

Il termine è introdotto nel 1997 da Peppe Aiello per quella parte della musica napoletana «che da ormai quasi vent’anni ha come simbolo Nino D’Angelo».

Ma la replica dell’ex caschetto d’oro precisa: «[…] Noi non facevamo altro che prendere il pop italiano e cantarlo in napoletano. Dov’è la nuova melodia?»

L’espressione fortunata rinvia all’elemento melodico, simbolo del canto napoletano, ma non identifica né sul piano stilistico né su quello musicale il fenomeno, che investe le fasce giovanili delle periferie suburbane di Napoli, legate più al cinema e alla discoteca che al teatro. Un’attività molto distante dal mondo contadino di Zappatore o dall’ultima sceneggiata di Mario Merola e Pino Mauro, e svolta in gran parte nelle feste di piazza, matrimoni, cerimonie, tele libere locali, quasi sempre “al nero” e, non di rado, appannaggio della delinquenza locale.

Anche il cinema riprende frammenti o interi brani da questo repertorio, come simboli di marginalità (Pianese Antonio di Antonio Capuano con il brano Chillo va pazzo pe’ te su testo dell’ex boss di Forcella Luigi Giuliano), o come stereotipi da parodiare, come la canzone Song ’e Napule nell’omonimo film dei Manetti Bros. Eppure, nonostante il successo e lo sdoganamento di alcuni interpreti, pesa sulle loro spalle un indelebile peccato originale non facile da cancellare associato a uno stile vocale, spesso nasalizzato, che li rende inconfondibili anche quando cantano brani del repertorio classico o in lingua. L’elenco dei protagonisti è lungo e in continuo aumento, nutrito dalla presenza di “imbucati” che si autodefiniscono neomelodici o per sfuggire a loschi affari, o per attribuirsi una improbabile identità artistica.

Insomma cos’è neomelodico: un filone della canzone, uno stile vocale, la colonna sonora di una condizione di marginalità, un brand, una sottocultura, un modo per sottrarsi alla devianza, la canzone napoletana urbana nell’era della società liquida? Un po’ tutto questo e anche il contrario di tutto. Chi sono i neomeolodici doc? Meglio non fare troppi nomi a parte quelli di sempre: da Patrizio a D’Angelo, Lai, dalla Rendano a D’Alessio, Nazionale, Ricciardi, da…a…!

Courtesy Pasquale Scialò

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Tà-kài-Tà

«Un periplo immaginario, fantastico […] intorno ai pensieri e ai sentimenti» che possono aver attraversato l’animo di Eduardo De Filippo, in vita e dopo la morte: questa, prendendo a prestito le parole dell’autore, potrebbe essere la definizione di Tà-kài-Tà, un testo frammentario, a metà tra poesia e prosa, passato e presente, teatro e metateatro

Protagonista indiscusso è Eduardo che qui si sdoppia in due personaggi E.1 e E.2, l’uno maschile e l’altro femminile, vestiti allo stesso modo, l’uno di fronte all’altro, che rievocano in prima persona alcuni momenti della vita del celebre drammaturgo e ne immaginano le riflessioni e le emozioni nate da quei momenti. Si narra di un incontro al Gambrinus con la fidanzatina della sua giovinezza, gli ultimi attimi di vita del padre che lasciano trapelare il difficile rapporto familiare, il legame con Pasolini che morì proprio mentre stava lavorando a un film con Eduardo dal titolo Tà-kài-Tà (dal greco “Questo e Quello”), la necessità di nascondere al pubblico la propria umanità: «Me songo sulo arreparato ’a faccia. E l’anima. Ed il cuore. Dallo sguardo morboso della gente». A precedere questa lunga “confessione” c’è un momento corale durante il quale, divisi in quattro tornate, si alternano le voci dei Fantasmi e dei Giovani Spiriti. Dopo il fitto dialogo/monologo tra E.1 e E.2, invece, c’è un momento intensamente lirico nel quale a prendere la parola è la Devota Attrice. Al centro della scena domina la teca che contiene il corpo di Luisella, la figlia di Eduardo morta prematuramente, suo più grande dolore. Due i temi principali del testo: il ritorno dei morti che non sono mai andati via (Eduardo, ma anche Pasolini) e la necessità di attraversare il teatro di Eduardo, ferirlo, tradirlo, capovolgerlo. «Credete forse che serbandoli, accaniti, stando alla superficie d’ ’a pagina che ho dato […] io vi risparmi dal capire, un giorno o l’altro, che siete prede inermi del facile e dell’ovvio?» dice E.1 nel chiaro solco di una poetica moscatiana che rilegge e reinterpreta costantemente se stessa e la tradizione. 

LINGUA
Italiano e napoletano.

MUSICA
La celeberrima canzoncina ad hoc per i compleanni Perché è un bravo ragazzo…;
canzone classica napoletana Lu cardillo.

NOTE
Tà-kài-Tà è stato pubblicato di recente (novembre 2020) dalla casa editrice Editoria & Spettacolo, con introduzione e note-glossario a cura di Antonia Lezza.

TESTI di Antonia Lezza

IMMAGINI Courtesy Archivio Moscato

Il Night Club

BAINAIT a Napoli

Tra il boom economico e Na voce na chitarra e ’o poco ’e luna nasce il bainait napoletano. La dolce vita notturna all’ombra del Vesuvio con drinks, wisky, coktail, champagne e musica dal vivo con musicisti che, dopo essere entrati in contatto col jazz, anche grazie ai V-Disc, sperimentano forme di fusione tra matrici locali e quelle d’oltreoceano. Nel 1949 Renato Carosone insieme alla sua band, composta da Gegè Di Giacomo e dall’olandese Peter Van Wood, inaugura sul lungomare di Napoli lo Shaker, uno spazio prestigioso dalla lunga vita; altri nait sono il Lloyd, il Miramare e successivamente La mela. Mentre nelle isole del golfo sono attivi d’estate Il Pipistrello, Il Gatto Bianco e il Number Two a Capri; ’O rangio fellone, con la direzione artistica del cantautore Ugo Calise, nell’isola d’Ischia.

L’interprete ad hoc di questi luoghi necessita di una voce ’e nait, una vocalità da crooner come quella di Bing Crosby e Frank Sinatra, confidenziale e carezzevole diffusa da un microfono collegato alla cosiddetta “camera echo”, che amplifica le minime sfumature della grana vocale, dal respiro all’emissione piena, sussurrando all’orecchio degli ascoltatori mentre ne sfiorano sensualmente i corpi.

L’andamento preferito del nait è lo slow, il lento, che consente un contatto fisico col proprio partner, mentre si balla immersi nella penombra. La partitura emozionale di questa prossemica dei corpi prevede un graduale crescendo ben descritto dagli stessi testi delle canzoni che dalla carezza («Accarézzame!...Cu sti mmane vellutate» da Accarezzame ) passa all’abbraccio  e al contatto («abbracciame, cchiù forte astrigneme» da Nun è peccato), fino al bacio («a vocca toia s’accosta cchiù vicina/e tu te strigne a mme cchiù appassionato» da Na voce na chitarra e ’o poco ’e luna).

Quest’atmosfera intima fa da contrappunto a momenti briosi a tempo di twist, beguine, boogie woogie.

Courtesy Pasquale Scialò

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Regio Conservatorio di Musica San Pietro a Majella

Nel cuore della Napoli antica, sul fregio di marmo bianco che corona uno dei tanti imponenti portali che si susseguono nella teoria di palazzi del Decumano Maggiore, spiccano le parole: “Regio Conservatorio di Musica”.

La sua storia inizia nel 1808, quando tre istituti musicali cinquecenteschi, sui quattro presenti a Napoli, furono soppressi e accorpati a quello di San Pietro a Majella, il più antico conservatorio italiano ancora in attività. In qualità di luogo di formazione musicale impostato sulla tradizione della celebre Scuola musicale napoletana, il Conservatorio è stato per secoli, una fucina di talenti artistici.

La biblioteca e l’archivio conservano i manoscritti originali della produzione musicale realizzata a Napoli e una raccolta di strumenti appartenuti a celebri artisti.

Al conservatorio, sono legate varie figure iconiche della tradizione musicale italiana: una di queste è il poeta Salvatore Di Giacomo, autore di alcuni dei testi più celebri della canzone classica napoletana (Napulitanata, Era de maggio, Luna nova, Marechiare, ‘E spingule frangese ecc.). Dal 1894 infatti Di Giacomo inizia la sua attività di bibliotecario, collaborando prima con la Biblioteca Universitaria di Napoli e poi, in appena due anni, con il Real Istituto di Belle Arti; da qui si trasferisce alla Biblioteca Nazionale, dove lavora sul fondo teatrale e musicale donato dal conte Edoardo Lucchesi Palli. Finalmente, nel 1916, approda al Conservatorio San Pietro a Majella.

Curiosità: nello stesso anno il poeta sposa Elisa Avigliano, una giovane conosciuta proprio nella sala di lettura di una biblioteca.

Courtesy Raffaele Cardone

Immergiti nel paesaggio sonoro nei pressi del Conservatorio:

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Trivial Sound

Kistch, trash, bagoni e tamarri sono il vero nutrimento del “trivial sound”.

Un filone pacchiano espresso con punte di volgarità e inadeguatezza stilistica che produce una ilarità, ora intenzionale come per Gli Squallor, ora involontaria per paradosso narrativo, come per Damme ’o cane, una surreale canzonetta cinofila sulla separazione di una coppia, interpretata da Enzo Romano. Ma mentre il collaudato genere della macchietta classica e moderna lavora allusivamente “di bisturi” (dal Blues del tamarro di Tony Tammaro a Cacao Meravigliao di Arbore), nel “trivial” si interviene “d’accetta”, con tono licenzioso da far arrossire finanche il Marchese di Caccavone, autore del poema giocoso la Culeide. Dai Coccobelli, maestri della parodia plebea (Tammurriata marjola), agli Incappucciati, estremisti della canzonetta volgare en travesti come razzisti del Klu Klux Klan americani, fino ad arrivare alle performance del gruppo transessuale delle Coccinelle professioniste del turpiloquio.

Courtesy Pasquale Scialò

 

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I Bottari e le Battuglie di Pastellessa per Sant’Antonio Abate

Tradizioni e Riti legati ai festeggiamenti in onore di Sant’Antonio Abate

La tradizione dei Bottari ovvero delle battuglie di pastellessa, così come sono chiamate a livello popolare, è legata essenzialmente ai festeggiamenti in onore di Sant’Antonio Abate, il 17 di gennaio, nella cittadina di Macerata Campania. Sui carri preparati che sfilano addobbati per la festa prendono posto le battuglie di pastellesse, delle singolari “orchestre” composte anche da 50 suonatori di botti, tini e falci, guidate da un capobattuglia che funge da “maestro”. Il termine pastellessa col quale oggi si indica la musica suonata dai bottari, è collegato al nome di un piatto tipico della tradizione maceratese: la past’ e ‘llessa (pasta con le castagne lesse). Il rito del percuotere questi attrezzi contadini in funzione musicale, le cui origini risalgono molto probabilmente a diversi secoli fa, è probabilmente connesso ai riti di fertilità, legati all’inizio del ciclo annuale. 

Le prime registrazioni sonore sul campo relative a questi repertori risalgono agli anni ’70 del secolo scorso, alle rilevazioni effettuate dall’antropologa Annabella Rossi e dall’etnomusicologo Roberto De Simone, per  lavori come Carnevale si chiamava Vincenzo e La Tradizione in Campania. Molte di queste registrazioni, ancora inedite e conservate presso l’ex Museo delle Arti e Tradizioni Popolari di Roma, sono ora state digitalizzate e rese fruibili presso l’Archivio Sonoro della Campania.

Il rituale eseguito si basa sostanzialmente su tre modelli ritmico-musicali. Il primo è detto ‘a sant’Antuono o battuglia, è quello più ricorrente e viene iniziato e concluso con un rullo detto strenta, spesso accompagnato dal grido Ohì del capobattuglia. Il secondo modello è detto a pastellessa o musica dei morti, è il più antico e si presenta cadenzato come una sorta di ritmo processionale. Il terzo, invece, chiamato a tarantella, serve normalmente per accompagnare i canti. Strettamente collegati a questa tradizione sono I Bottari di Portico, gruppo guidato da Pasquale Romano, attivo da anni in contesti legati alla world music, con collaborazioni che vanno da R. De Simone fino ad Enzo Avitabile, con il quale a partire dal cd Salvammo ‘o munno del 2004, hanno partecipato a diversi dischi e tournée.

Courtesy Raffaele Di Mauro

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Madonna dei Bagni

I riti legati al culto della Madonna dei Bagni di Scafati

Da un’antica edicola votiva risalente al XVI sec. fu tratta, agli inizi del ‘600, una cappella e poi, sempre nello stesso secolo, fu eretta la chiesa di Maria SS. Incoronata, dopo un episodio miracoloso nel quale, come narra la leggenda popolare, un lebbroso era guarito dopo essersi lavato nell’acqua del fuosso sitato nei pressi. Molti sono i riti legati al culto della Madonna dei Bagni di Scafati. La preparazione di sciure e papagne (fiori di papaveri e camomilla) che si avvolgono in fazzoletti e nel giorno della festa si  strofinano alle pareti della chiesa per poi essere conservati durante l’inverno come panacea per tutti i mali. Oppure ‘o vacile cu ‘e rrose (bacinella con petali di rose immersi nell’acqua) che viene posto sull’uscio delle case e, dopo essere stato benedetto da un angelo durante la notte dell’Ascensione, viene l’indomani mattina usato per lavarsi con un effetto di purificazione.

Due sono i momenti centrali legati al culto della Madonna dei Bagni.  Il mercoledì prima dell’Ascensione c’è la tradizionale processione dei fedeli al cosiddetto fuosso ‘e Vagne, a 500 metri dall’attuale Santuario, presso la fonte miracolosa dove si raccoglie l’acqua nelle mummarelle, tipiche anfore di creta. Già in quest’occasione diversi sono i raduni spontanei di fedeli che si esibiscono in canti devozionali e balli sul tamburo. C’è poi la Domenica dell’Ascensione, quando avviene la sfilata dei carrettone ‘e Vagne, ovvero carretti trainati da cavalli addobbati con fronde e fiori di carta crespa e carta velina, ed effigi della Madonna. È questo il giorno della festa e della “tammurriata” nel tipico stile dell’area dell’agro nocerino-sarnese,  caratterizzato in particolare da un’articolazione a due voci alterne del canto, che presuppone un “patrimonio” di testi popolari condivisi dai vari cantatori. Gli strumenti che accompagnano il canto e il ballo sono quelli tipici: tammorra, tricchebballacche e castagnette. Tra i più bravi cantatori dell’area troviamo Giovanni Del Sorbo di Scafati, conosciuto come zì Giannino, purtroppo recentemente scomparso, e il più giovane Biagio De Prisco, detto Biagino, di San Marzano sul Sarno che ne ha raccolto per certi versi l’eredità.

Courtesy Raffaele Di Mauro

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Madonna di Briano

Dal sito di probabile origine pagana al Santuario della Madonna di Briano

Il Santuario, situato al confine tra Villa di Briano (un tempo Frignano Piccolo) e Casal di Principe, sorge su un sito di probabile origine pagana, forse un altare per sacrifici. La prima testimonianza storica è del 430 d.c. quando i monaci benedettini fecero costruire un’edicola intitolata a Santa Maria. La chiesetta venne costruita probabilmente dopo l’anno Mille e nel 1549 venne fatto costruire, accanto ad essa, un monastero, usato anche come rifugio durante la peste. Il culto, testimoniato anche da diversi ex voto, è cresciuto in modo esponenziale il secolo scorso, dopo un episodio “miracoloso” accaduto nel 1924 a tal Francesco Zippo, un paralitico che, secondo il suo racconto, era guarito dopo l’incontro, proprio nei pressi del Santuario, con la Madonna di Briano apparsa nelle vesti di una contadina. Diversi erano i riti e le tradizioni legate al piccolo santuario, soprattutto in tempi passati. Ad esempio, la processione a piedi alla Madonna dell’Arco che partiva la notte di Pasqua per giungere a San’Anastasia all’alba del Lunedì in Albis. Oppure la processione alla Madonna di Casaluce in cui i fedeli portavano in testa una corona di spine, disponendosi in doppia fila e sostenendosi ad una corda,  e al ritorno, dopo aver fatto lo “strascino”, ovvero aver percorso con la lingua a terra lo spazio che va dall’uscio della Chiesa fino all’altare tra 2 ali di “battenti”, si percuotevano la schiena con la corda (“disciplina”).

Tra le tradizioni rimaste c’è la cosiddetta “prianella” ovvero la scampagnata fatta dopo Pasqua nei dintorni del Santuario accompagnati dal tradizionale “tortano” e dai classici dolciumi (torroni, arachidi  zuccherati, ecc.) venduti dalle numerose bancarelle presenti. L’appuntamento tradizionale centrale è, però, diventato la festa con relativa “tammurriata” che, secondo le testimonianze di alcuni anziani, si svolgeva un tempo il Mercoledì in Albis ora, invece, la Domenica successiva. Infatti, nell’ottava di Pasqua, molte sono le paranze dell’area giuglianese e domiziana che si recano al Santuario con i loro carri addobbati e trainati da cavalli o trattori, per esibirsi in canti e balli sul tamburo nel classico stile dell’area.

Courtesy Raffaele Di Mauro

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Le Quadriglie di Palma Campania

La tradizione dei canzonieri e delle quadriglie del carnevale di Palma Campania

Con il termine quadriglia si indica a Palma Campania un gruppo di persone (a volte anche 200) che, per il Carnevale locale, ogni anno si vestono a tema e, accompagnati da una piccola orchestra di fiati e percussioni con un “maestro” che li dirige, eseguono un canzoniere composto da brani molto spesso noti ma anche da canzoni nuove “d’occasione” . Il termine, quindi, ha quindi poco a che fare con l’omonimo ballo di società spesso associato, nelle rappresentazioni carnevalesche, alla Canzone di Zeza. I brani del canzoniere si inizino a “concertare” anche un mese prima e vengono presentati al popolo la sera prima del martedì Grasso, quando si effettua il cosiddetto “passo” ovvero una sorta di prova generale delle varie quadriglie le quali, non mascherate, eseguono i rispettivi canzonieri. I brani, anche quelli noti, sono sempre rielaborati e “quadriglizzati” in base al tema prescelto e vengono eseguiti da una banda composta generalmente da strumenti a fiato (tra cui spicca spesso il clarinetto ma in passato anche la ciaramella) e a percussione, sia tradizionali come tamburelli, scetavajasse e triccheballacche, sia, invece, altri “inventati” ad hoc. Ciascuna quadriglia con i suoi musicisti viene guidata da un “capo”, detto cumannante, che non è un vero “maestro” di musica ma che esercita anche questa funzione, tenendo spesso in mano una sorta di bacchetta.

Ogni quadriglia viene identificata col nome o soprannome del suo cumannante: “’a quatriglia ‘e Filippiello”, “a quatriglia ‘e Licchittino” e così via. In alcune registrazioni effettuate nel 1974 da Enzo Bassano, facente parte del gruppo di ricerca dell’Università di Salerno guidato dall’antropologa Annabella Rossi, fu documentata la quadriglia del cumannante Giovanni Caliendo, detto “Giannino ‘a vicchiarella”, un trentenne che lavorava come maître d’hotel a Bologna ed era tornato a Palma Campania prima del carnevale, proprio per preparare la sua quadriglia. Secondo alcune testimonianze a lui spetterebbe l’ideazione del cosiddetto “stacco” durante il canzoniere. La tradizione dei canzonieri e delle quadriglie del carnevale di Palma Campania è ancora oggi molto sentita e partecipata dalla popolazione locale.

Courtesy Raffaele Di Mauro

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Fogli Volanti e Copielle, ovvero la diffusione musicale tra mercati e vicoli

I “fogli volanti” sono rinvenibili in Europa dall’introduzione della stampa, a fine 800 arrivano le “copielle”

I "fogli volanti” sono foglietti ruvidi decorati con piccole incisioni stampati soltanto da un lato contenenti i testi verbali, e in qualche caso anche quelli musicali, di racconti e canzoni. Svolgono un ruolo determinante nella diffusione del repertorio vocale napoletano sin dal primo Ottocento e vengono prodotti da tipografie locali (De Marco, Azzolino) e diffusi soprattutto da cantastorie e “posteggiatori” nei luoghi di incontro. Costituiscono uno strumento comunicativo che rende possibile uno scambio interculturale fra ascoltatori appartenenti a classi sociali diverse su temi politici e di costume (La nocca de tra ccolure e  La moda, e lo Taittà).  
Successivamente, lo sviluppo di una specifica editoria musicale legata all’industria della canzone produce la pubblicazione sia di raccolte destinate alle Piedigrotte con brani per canto e pianoforte, sia la presenza di versioni più agili denominate “copielle”:  un supporto cartaceo stampato su entrambe le facciate con la riproduzione del testo verbale, del solo “rigo di canto” destinato agli appassionati e dilettanti che lo usano per “cominciare a canticchiare le canzoni preferite, per loro stessi o nelle serate passate con gli amici”. La “copiella” inoltre prevede spesso la presenza 
dell’immagine fotografica dell’interprete, del logo dell’editore, poi anche quello della casa discografica e, non di rado, anche la pubblicità di qualche prodotto (Serenata all’Imperatore, Sultanto ‘a sera…).
Mentre il repertorio del “foglio volante” è costituito spesso da canti strofici molto estesi, che riprendono non di rado materiali della tradizione orale (come Lo Guarracino), le “copielle” invece costituiscono una copia low cost di brani d’autore legati alla canzone classica napoletana. 

Courtesy Pasquale Scialò

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Canzone ncop’ ‘o tammurro

Tammurriata, gli stili areali

Il canto sul tamburo (canzone ‘ncopp’ ‘o tammurro), conosciuto anche come tammurriata, è una pratica musicale diffusa in alcune delimitate aree della Campania ed il suo scopo principale è quello di accompagnare il ballo all’interno di feste rituali legate ai pellegrinaggi devozionali ad alcuni santuari dedicati a diverse Madonne, definite “sorelle”. Le prime fonti sonore raccolte sul campo di questo tipo di repertorio risalgono alla campagna di ricerca condotta in Campania da Alan Lomax nel 1954-55, cui seguirono poi negli anni ’70 le importanti rilevazioni di Roberto De Simone.

Le quattro aree principali della tammurriata, caratterizzate da stili con caratteristiche alquanto diverse dal punto di vista esecutivo musicale e coreutico, sono: area vesuviana, nocerino-sarnese, giuglianese-domiziana e maiorese. Tra i diversi stili areali vi sono degli elementi comuni a partire dalla struttura testuale strofica, quasi sempre basata su distici di endecasillabi, i quali riprendono diversi temi letterari con riferimenti magici, storici, religiosi.  Un altro elemento comune è l’uso di versi stereotipi (solitamente ottonari), definiti filastrocche o barzellette, per interpolazioni testuali di argomento vario, talvolta introdotti da brevi versi non sense (e ccore, e bbà, e llena). Anche dal punto di vista musicale vi sono caratteristiche comuni ai vari stili areali: la melodia del canto ha quasi sempre un profilo essenzialmente discendente, un ambitus generalmente di 5-6 suoni con quarto grado aumentato e si muove essenzialmente per gradi congiunti. Il ritmo è prevalentemente binario ed è scandito dal tamburo.

L’esecuzione inizia quasi sempre con un canto a distesa introduttivo che può essere una fronna, un canto a figliola o una voce di questua, e il canto è generalmente sillabico con pochi melismi, fa eccezione lo stile giuglianese. Gli strumenti tradizionalmente adoperati nelle varie aree sono: il tamburo a cornice detto tammurro o tammorra, le castagnette, il putipù chiamato anche caccavella, il tricchebballacche o triccabballacche, il sisco nell’area giuglianese, il doppio flauto nell’area vesuviana e lo scacciapensieri detto anche tromba degli zingari.

Courtesy Raffaele Di Mauro

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La Zeza

Rappresentazione teatrale popolare campana, dialogata e cantata

La Canzone di Zeza è una rappresentazione teatrale popolare campana, dialogata e cantata, in genere con l’accompagnamento musicale di una piccola banda, composta spesso solo da ottoni (in passato, però, anche da cordofoni), che si effettua di solito all’aperto, durante tutto il periodo di Carnevale, dal 17 Gennaio fino al martedì grasso. I personaggi principali sono: il padre Pulcinella che rappresenta Carnevale; la madre Zeza, diminutivo di Lucrezia, la figlia che nella tradizione scritta è Tolla, invece nella tradizione orale Vicenzella, poiché figlia di Carnevale che in Campania si chiama Vincenzo, oppure Porziella in particolare nell’area avellinese; il pretendente Don Nicola Pacchesicco nell’area napoletana oppure Don Zenobio nell’avellinese e viene indicato come abate, dottore, notaio o studente. In alcune Zeze troviamo anche altri pretendenti come “il marinaio”, oppure altri personaggi che sono, però, per lo più delle comparse e non partecipano alla recitazione cantata: il giardiniere, i cacciatori o il servo del notaio. Tutti i personaggi, anche quelli femminili, sono interpretati soltanto da maschi.

La Zeza è un tipico contrasto nuziale celebrato come atto primaverile propiziatorio e di fertilità, una tipologia diffusa da secoli su quasi tutto il territorio nazionale. Nonostante i diversi nomi - Canzone di Zeza in Campania, farsi di carnelivari in Calabria, lu ditt’ in Puglia, parti o diri in Sicilia - secondo Paolo Toschi la radice sarebbe unica e deriverebbe dal bruscello nuziale o mogliazzo diffuso in Toscana. Pur risalendo probabilmente al ‘700, le prime stampe della Zeza sono dell’800: quella musicale pubblicata da G. Cottrau nel 1829 nei Passatempi Musicali come Antichissimo dialogo di Zeza che si canta in Napoli dal popolo colla maschera nel Carnevale e il libretto stampato da Avallone nel 1849 col titolo Ridiculoso contrasto de matrimonio ‘mpersona di D. Nicola Pacchesecche, e Tolla Cetrula figlia di Zeza e Polecenella. Diverse sono poi le fonti sonore raccolte sul campo nel ‘900: da quella di Alan Lomax a Mercogliano nel 1955 a quelle inedite di A. Rossi e R. De Simone negli anni ‘70 per la pubblicazione di Carnevale si chiamava Vincenzo.

Courtesy Raffaele Di Mauro

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Neapolitan power

Neapolitan power vuol dire tutto e niente, eppure richiama il black power e l’orgoglio di un popolo che si sente culturalmente ghettizzato.

Tra i primi a fare gli americani, anzi i neri, di Napoli, sia pure a metà sono gli Showmen: Mario Musella e James Senese, che scuro di pelle lo è davvero, inventano negli anni '60 il soul all’italiana, il funky all’italiana, il rhythm and blues all’italiana. Pino Daniele e Enzo Avitabile ringrazieranno, Zucchero, forte delle dimensioni del suo successo, no, eppure senza quella voce roca e scartavetrante, senza «Un’ora sola ti vorrei», senza l’incontro tra Di Giacomo, Zawinul e «Papa’s got a brand new bag» la strada italiana alla black music non sarebbe stata avvistata da nessuno.

La meteora Showmen segna l’inizio di un fenomeno destinato a durare, a farsi movimento, a dettare legge artisticamente e commercialmente: il neapolitan power nasce quando Senese forma i Napoli Centrale e trova uno sbocco sudista all’ipotesi del jazz rock tricolore. La sua veracità è indiscussa, il suo potere si affermerà come tale quando le classifiche si troveranno, di volta in volta, dominate da Pino Daniele, Edoardo Bennato, Teresa De Sio, Alan Sorrenti, Toni Esposito, Tullio De Piscopo, gli Alunni del Sole...

Neapolitan power vuol dire tutto e niente, come il rock del mediterraneo di casconiana memoria, eppure richiama il black power e l’orgoglio di un popolo che si sente culturalmente ghettizzato. Daniele superstar inventa una nuova lingua, anzi un lingo, gioca con le melodie assimilate in piazza Santa Maria La Nova, i racconti di munacielli e belle ’mbriane sentiti dalle zie, la voglia di diventare Elvis Presley anzi Stevie Wonder, il vento di rivoluzione che scuote Napoli negli anni del primo sindaco comunista Maurizio Valenzi, l’impegno, il disimpegno poi detto riflusso.

Come Carosone, Daniele riflette sull’America che è in lui e nella sua musica, utilizzando la rabbia al posto dell’ironia. Con il suo supergruppo segna l’apice del neapolitan power nel concerto grosso del 19 settembre 1981 in piazza del Plebiscito, e al tempo stesso la fine, pagando pegno al sogno solista di una generazione di virtuosi e poeti dello strumento, ma non sempre con l’originalità ed il carisma del bandleader.

Courtesy Federico Vacalebre

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Carosone, l'Americano di Napoli

«Orgoglioso delle mie radici, creavo quelli che oggi, con maggiore coscienza e quindi minore naturalezza, si chiamano crossover sonori»

«Facendo l’americano aprivo la strada ai vari Peppino Di Capri, Showmen, Pino Daniele, Edoardo Bennato, Almamegretta, 99 Posse, ma, nello stesso tempo, continuavo la tradizione contaminatrice (sembra un paradosso, ma è così) della canzone partenopea», scrive Renato Carosone nella sua autobiografia, spiegando come avesse rinnovato la canzone partenopea, e quindi italiana, trovando il minino comun denominatore tra il pianoforte di Fats Waller e i mandolini dell’orchestra Anepeta.

«Orgoglioso delle mie radici, creavo quelli che oggi, con maggiore coscienza e quindi minore naturalezza, si chiamano crossover sonori», continuava l’uomo di «Tu vuo’ fa’ l’americano»: «Ero un contaminatore che non sapeva niente di villaggio globale o di McLuhan, ma sapeva di dover fare i conti con i codici del consumo di massa, anche su scala internazionale. I miei cocktail, i miei minestroni musicali, quando trovavano terreni di confine da frequentare, pagavano in termini sia artistici sia commerciali, creavano incroci e non sterili ibridi, valorizzavano la specificità napoletana, abilitandola appunto anche al mercato internazionale.

Courtesy Federico Vacalebre

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Musica americana e canzone napoletana

Dal primo incontro tra canzone napoletana e i ritmi afro-americani al reciproco rispetto.

Il primo incontro tra canzone napoletana e ritmi afro-americani risale all’inizio del Novecento. La causa fu il flusso migratorio che portò tanti italiani negli Stati Uniti e la nascita di una piccola Italia in grembo all’America favorì lo scambio. Il legame stretto tra produzione napoletana e americana è sottolineato dalla grande fortuna delle case editrici musicali partenopee, che spesso avevano una seconda sede a New York. Nella maggior parte dei casi, in questi anni, l’apertura ai ritmi americani fu solo un modo per svecchiare un repertorio ancora legato alla romanza di fine Ottocento. Ritmi di fox-trot, one-step, charleston, cha-cha-cha, utilizzati nell’incipit iniziale, venivano poi contraddetti, nel corso nella composizione, da ritmi di tarantella e marcia.

Durante gli anni della Seconda Guerra Mondiale Napoli si ammutolì. Una città colpita da quasi cento terribili bombardamenti non aveva più lo spirito per cantare. Solo con l’arrivo degli alleati l’incubo cessò. Come già accaduto in passato, il genere prescelto per il ritorno alla musica fu il canto popolare, che in quell’occasione si legò ai nuovi ritmi che gli alleati portavano con sé. La canzone preferita dai militari americani negli improvvisati night club cittadini era Pistol Packin Mama di Al Dexter, “tradotta” dai napoletani in Ollero e Pistudda con i versi napoletani che trattavano del commercio illegale di sigarette o dei più dolorosi traffici di segnorine.

La canzone napoletana trasse nuova linfa dai nuovi ritmi d’oltreoceano, ma non si lasciò sopraffare (o colonizzare), piuttosto li rielaborò liberamente. Con il secondo dopoguerra tradizione napoletana e americana cominciarono a camminare con pari dignità, fino a che negli anni Sessanta la prima si arrese definitivamente al rock and roll, che ebbe in Peppino Di Capri il suo primo rappresentante partenopeo.

Soprattutto negli anni Cinquanta i ritmi afro-americani agiranno con una maggiore proficua influenza sulla musica napoletana, inaugurando un filone nuovo, i cui principali interpreti saranno Renato Carosone e Ugo Calise.

Courtesy Diego Librando

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Le Arciconfraternite

Dalle opere di carità alle pratiche devozionali in musica

Sono associazioni laiche nate nell’alto medioevo al fine di realizzare opere di carità e pietà destinate a persone povere e indifese. Il termine Confraternita deriva dal latino frater-fratello prima inteso in senso stretto, poi esteso anche ai fratelli di fede, ossia a tutti i fedeli. Con il Concilio di Trento (1545-63) la loro attività si diffonde capillarmente anche in piccoli centri rurali sotto il diretto controllo delle congregazioni centrali di Roma. In tal modo la Chiesa garantiva contemporaneamente un sostegno alla povertà e un controllo sulla vita religiosa italiana. Tra le diverse attività svolte vi era quella musicale con la presenza di cori destinati ai diversi momenti della vita delle comunità. Particolarmente feconda risulta la loro attività nel meridione e nelle isole anche se solo di recente è iniziata a essere stata documentata e studiata. Molto interessante sul piano musicale risultano le pratiche devozionali, specie quelle penitenziali della Settimana Santa, presenti nell’area del “Cilento antico” e a Minori, nella costiera amalfitana.

Courtesy Pasquale Scialò

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Il Festival della Canzone Napoletana dal 1952 al 1971 e 1981

Il Festival della Canzone Napoletana, simbolo della melodia partenopea nella seconda metà del Novecento.

Il Festival della Canzone Napoletana fa innescare il noto processo di commercializzazione della canzone partenopea dopo la grave crisi avvenuta negli anni ’40. Capace di interessare l’intera industria discografica della Penisola, nonché i maggiori cantanti dello Star System dell’epoca che vedono nella manifestazione napoletana un importante trampolino di lancio per la carriera. Ed ecco che durante le 18 edizioni sfilano i nomi di Modugno, Vanoni, Gaber, Dorelli, Villa, Pizzi, Tajoli, Dallara, Bongusto, Zanicchi, Rascel, Arigliano e altri. Molte canzoni diventano internazionali quali Sciummo, Guaglione, Lazzarella, Vurria o Desiderio ’e sole. Ma il brano che simboleggia il festival è senza dubbio Tu sì ’na cosa grande, ancora oggi importante colonna della storia della musica napoletana.

Courtesy Domenico Matania

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Arena Olimpia

Arena Olimpia è un progetto di messinscena costituito da due testi: "La musica dei ciechi" di Viviani e "Mirabilia Circus" di Enzo Moscato. L’operazione svolta da Moscato è ricorrente nella sua drammaturgia: confrontarsi con la Tradizione attraverso il filtro della propria originalissima poetica. Mirabilia Circus Prologo/Intermezzo/Epilogo per “Arena Olimpia” è un esempio di tradinvenzione, secondo la definizione dello stesso Moscato.

Nel Prologo è presente un gruppo di ciechi i quali, bendati e sotto la guida di Maria ’O Trapezio, coadiuvata dalla Zantragliosa e dal piccolo Pochillo, si esibiscono dinanzi al pubblico nel gioco della Cicatella, che consiste nel «colpire con delle aste, a casaccio, i melloni» posizionati a terra, dimostrando di saper centrare il frutto meglio di coloro che possiedono la vista. L’Intermezzo, in forma poetica, mette a fuoco uno dei temi principali del testo: il rapporto tra cecità e veggenza («Che cosa leggeno int’o scuro tutte sti cecate, st’induvine?»). L’Epilogo celebra il mondo circense attraverso una galleria di personaggi che eseguono ciascuno il proprio numero: Ginger e Rogers, Giocagiò, Malandro, Pagliaccio che parla americano, Pigiama-Cafè, Zezo, Moirra Orfiei, Sciantosa, Fakiryo. Il risultato è una rappresentazione del teatro e della vita come «Paradosso. Pròpeto. Accusì! E lo puoi mandare fuori solo col teatro – spasso ’e tutt’e spasse, senza finalità, né calcolo, né scopo. Danza sul vacante, eloquio del silenzio, niente ca se fa tutto e viceversa». In tale spettacolo grottesco i personaggi interagiscono ripetendo le medesime battute in una babele di equivoci e disvelamenti che racchiude l’essenza del testo, lo collega ai ciechi del Prologo e da lì alla grande lezione di teatro di Moscato: «A cecità fa parte d’ ’a raggione, dopotutto. È l’ordinario. È una comune cosa che, comm’a tutt’e ccose, allude a una mancanza, a nu difetto. La veggenza, invece, la veggenza no, essa non è un senso, uno dei cinque, che puoi avere o non, che può mancare o meno, la veggenza è insenso, è divinità, follia, gioco di prestiggio coll’assurdo!» dice Ginger mentre, insieme a Rogers, continua a ballare sulle note di un’esotica beguine e mentre il bambino, che è in disparte, silenzioso, durante la performance dei circensi, prende un revolver e spara a Pigiama-Cafè che ha appena terminato di ripetere la battuta del suo numero: «Adda passà, adda passà ’a nuttata! Eh si! Adda annuttà, adda annuttà il passato, o no?».

LINGUA
Italiano, napoletano, inglese (lingua con cui il Pagliaccio che parla americano commenta lo spettacolo a cui assiste), una sorta di lingua magica ed esoterica pronunciata da Maria ’O Trapezio, ad apertura del Prologo e prima dell’inizio del gioco della Cicatella, e da Fakiryo, a mo’ di preghiera rassegnata o al contrario di minaccioso avvertimento.

MUSICA
Esotica beguine sulle cui note ballano Ginger e Rogers;
canzone napoletana Desiderio;
canzone di Teresa De Sio Aumm Aumm;
filastrocca Iésce iésce corna.

NOTE
1.    La battuta finale pronunciata da Pigiama-Caffè è una citazione dal celebre testo di Eduardo Napoli milionaria che chiude anche Signurì, Signurì.
2.    Mirabilia Circus, inedito, è in corso di pubblicazione (Cfr. Maxence Lureau (textes réunis par), Mondes narratifs et normatifs entre la parole et l’imagine. Mèlanges offerts à Gius Gargiulo, Sous Presse).
3.    La musica dei ciechi è pubblicata nel volume Raffaele Viviani, Teatro, a cura di Antonia Lezza e Pasquale Scialò, vol. V, pp. 171-193, Napoli, Guida editore, 1991.

TESTI di Antonia Lezza

IMMAGINI Courtesy Archivio Moscato

Tartufo o l’impostore

Il testo è una libera traduzione dal Tartufo di Molière, che ha in comune con la commedia francese la divisione in cinque atti, la trama, i personaggi e il contenuto dei dialoghi. La differenza sta principalmente nella lingua che, in Moscato, appare più moderna, vivace, ricca di parole composte («spostato-empio», «novelliera-sguattera», «pulce-dolce-d’acqua») e di modi di dire che si rifanno a un universo campano, o, per meglio dire partenopeo («papale-papale», «Gesù, Giuseppe, Sant’Anna e Maria», «state facendo l’arte dei pazzi», «‘scioscia’ ‒ tanto per sciosciare»). La satira di Molière, sebbene sempre attuale, risulta qui rinnovata e influenzata dalle conseguenze di quella riforma teatrale che era cominciato grazie alle opere del drammaturgo francese e che si realizzerà circa un secolo dopo con Goldoni.

Nella prima scena del primo atto Madama Pernella rimprovera i presenti di avere comportamenti sconvenienti, di invitare amici a casa e di lasciare che i vicini parlino male di loro. I rimproveri sono rivolti a sua nuora Elmira, moglie di suo figlio Orgone, ai suoi nipoti Damide e Marianna, a Cleante, cognato di Orgone, a Dorina, governante di Marianna e a Felipa, sua cameriera personale. Orgone, tornato a casa dopo due giorni di assenza, chiede notizie a Dorina sulla sua famiglia. Tuttavia non risulta interessato al malessere della moglie, ma si preoccupa solo di Tartufo, un povero e devotissimo mendicante, che Orgone ha accolto in casa insieme al discepolo Lorenzo. Orgone racconta l’incontro con Tartufo a Cleante in un dialogo serrato nel quale Cleante cerca, invano, di fargli comprendere che Tartufo, dietro le mentite spoglie di un umile prete, nasconde un animo subdolo e infedele. Tartufo, dunque, è la storia di un disvelamento, di uno smascheramento. Orgone è così condizionato da Tartufo da decidere di dargli in moglie sua figlia Marianna, già promessa in sposa a Valerio. Marianna, sebbene innamorata di Valerio, non riesce a contrapporsi alla decisione del padre. Dorina tiene testa al padrone e suggerisce ai due innamorati di non abbandonarsi alla volontà altrui ma di prendere tempo e rimandare con ogni stratagemma il matrimonio. Anche Damide vuole smascherare Tartufo e, con la complicità di Dorina, assiste senza essere visto alle avances che l’impostore rivolge a Elmira. Indignato, rivela tutto al padre ma ottiene l’effetto contrario. Tartufo risponde alle accuse di Damide inginocchiandosi e chiedendo perdono. Di fronte a questa scena Orgone non solo accorda piena fiducia al prete e caccia via di casa suo figlio, ma lo nomina unico erede di tutti i suoi beni. Appresa questa decisione, Cleante affronta Tartufo in una conversazione concitata; entrambi con rigore logico sostengono la correttezza del proprio punto di vista. Cleante incalza Tartufo dicendogli che un buon cristiano non può permettere che un padre allontani il figlio e dovrebbe mettere pace, l’altro risponde che non serba alcun rancore ma che la pace e l’armonia di Dio non sempre coincidono con quelle degli uomini. A questo punto Marianna supplica il padre a cambiare idea sostenuta dalla madre che decide di tendere un tranello a Tartufo e chiede al marito di nascondersi sotto al tavolo e di restare attento, in ascolto. Quando arriva Tartufo, Elmira finge di ricambiare il suo sentimento e il prete si lascia andare a dichiarazioni d’amore per lei e di beffa per Orgone. Costui esce allo scoperto e fuori di sé caccia via Tartufo, il quale è ormai diventato padrone legittimo della casa e sarà lui a cacciare Orgone. Nell’ultimo atto si scopre che Orgone ha affidato a Tartufo una misteriosa cassetta, contenente documenti compromettenti di Arganatte, suo caro amico. Cleante e Damide, che è ritornato a casa, vogliono aiutare Orgone a modo loro: Cleante col ragionamento e Damide con la violenza. Intanto arriva Leale, un ufficiale giudiziario, a presentare un’ordinanza di sfratto. Valerio, che ha saputo che Tartufo si è rivolto al re in persona, suggerisce a Orgone di nascondersi in un luogo sicuro. Ormai un messo reale è già giunto insieme a Tartufo e sembra sul punto di arrestare Orgone, quando, a sorpresa, arresta Tartufo. Il re lo ha smascherato ritenendolo un impostore, un noto malandrino sotto falsa identità. Il finale è un elogio e un ringraziamento sentito a Sua Maestà.

LINGUA
Italiano, latino corretto e con storpiature, dialetto nordico non precisato presente in un’unica battuta. pronunciata da Dorina («Rob de màtt! Tutt’art de robb de màtt, quel che fan ll’innamorati!»).

MUSICA
Manca.

NOTE
1.    Non c’è la locandina dei personaggi, ma sono indicati i nomi dei personaggi. È una vera traduzione dell’originale. Poche didascalie di commento.
2.    Si tratta di un testo inedito, dattiloscritto, di 74 fogli non numerati.

TESTI di Antonia Lezza

IMMAGINI Courtesy Archivio Moscato

Teatri del mare

Teatri del mare è un testo inedito. Si presenta in forma dattiloscritta con numerose glosse e annotazioni a penna che riportano nomi di attori, indicazioni sulle musiche, didascalie, inserimenti di parole e numeri, a testimonianza del lavoro prezioso, e, per così dire, artigianale svolto sul testo. Pertanto il dattiloscritto si configura come un testo-laboratorio, con parti complete e parti abbozzate, ibrido perché al tempo stesso monologico e corale.

Il testo si apre con un breve monologo pronunciato da un personaggio senza nome che fa riferimento a un evento, probabilmente il suo suicidio, avvenuto in mare, non tanto a causa della guerra o della miseria, ma piuttosto dell’apatia e di un senso di vuoto. Seguono due parti: Flusso/Riflusso I. Andate e ritorni dell’onda-corpo e Flusso/Riflusso II. Andate e ritorni dell’onda-corpo, entrambe caratterizzate dalla costante presenza della musica e dalla polifonia. I personaggi non dialogano tra loro ma descrivono ciascuno la propria porzione di mare e nell’alternarsi delle loro battute, nel loro fluire e rifluire, sembrano imitare il suono e il movimento delle onde. Ne deriva una serie di scene, pennellate poetiche, suggestioni polifoniche. 
Il mare descritto è quello del golfo di Napoli coi suoi luoghi (Palazzo Donn’Anna, Trentaremi, Procida, Capo Posillipo, Marechiaro) e i suoi miti (le Sirene e i Ciclopi). Nella notte di San Giovanni è illuminato dai fuochi e ovunque c’è un clima di festa, anche quando è in arrivo una tempesta che porterà a galla le alici. Sugli scogli, poi, si vedono spesso ragazzi che prendono il sole esibendo giovinezza e nudità. Domina un’atmosfera caotica, disordinata, sregolata.
Tuttavia se il mare genera nuove vite, prolifica, quasi per un processo di angiospermia, dall’altra accoglie immondizia e rifiuti di ogni tipo. Se si costeggia il litorale in barca, la sensazione è quella di essere altrove, a Bangkok o a Shangay ad esempio. La barca deve farsi spazio tra le navi più grandi e seguire le correnti che la portano fino a Miseno. Intanto, seduta al tavolo di uno chalet, una donna molto vecchia e stanca scrive continuamente su tovaglioli e pezzi di carta e fissa il mare con occhi spiritati. Si annulla sul finale la distanza tra terra e mare, che, in fondo, scrive l’autore, sono la stessa cosa così come la morte che è «ssulo fest’ammare».

LINGUA
Italiano, napoletano, grammelot in greco, latino, spagnolo, tedesco, francese.

MUSICA
Ogni battuta è contrassegnata dalla musica, sia cantata sia strumentale.

NOTE
Il testo è un dattiloscritto, del luglio 1997, di 24 pagine numerate, con alcune correzioni e aggiunte manoscritte.

TESTI di Antonia Lezza

IMMAGINI Courtesy Archivio Moscato