Museo Madre

Madre. Museo d’Arte Contemporanea Donnaregina

Alessandro Castagnaro, Alberto Terminio (Dipartimento di Architettura, Università degli Studi di Napoli “Federico II”)

 

Evoluzione dell’area e dei fabbricati successivamente interessati dal progetto del Museo Madre

L’edificio che ospita il Museo d’Arte Contemporanea Donnaregina (Madre) occupa circa la metà della stretta insula su cui insiste, compresa tra due stenopoi dell’antico tracciato viario di Neapolis, le attuali vie Donnaregina e Loffredi, e, in senso est-ovest, tra via Settembrini e vico Donnaregina. Si tratta di un’area posta a oriente di via Duomo, in adiacenza all’insula doppia di Donnaregina, nel versante a nord della plateia superiore.

Le ricostruzioni degli storici Giulio Beloch e Bartolommeo Capasso, nonché quelle dell’archeologo Mario Napoli, a meno di alcune piccole differenze di tracciato, mettono in evidenza la prossimità di quest’insula singola con il confine settentrionale della città greco-romana, come testimoniano i tratti di murazione emersi. Tali rilievi sono confermati anche da recenti indagini archeologiche, grazie alle quali è possibile osservare l’andamento delle mura che, in corrispondenza di quest’area, passavano da vico Campanile ai Santi Apostoli giungendo a via Loffredi, dove proseguivano per un piccolo tratto verso nord per poi risvoltare su via Settembrini e proseguire in direzione ovest.

Tuttavia, le molteplici e complesse trasformazioni che l’area ha subito nel corso dei secoli rendono difficile la ricostruzione di tutte le stratificazioni presenti. La testimonianza più antica relativamente a quest’insula risale agli inizi del IX secolo, un periodo particolarmente significativo per la storia della città, contraddistinto dalla crescente autonomia da Bisanzio. In particolare, il riferimento è alla costruzione di un monastero dedicato ai Santi Cyrici e Juliecte che il duca di Napoli Antimo, appartenente alla famiglia di Teofilatto, fece erigere nell’811. Tale testimonianza è segnalata dallo storico napoletano Capasso nella Pianta di Napoli del Secolo XI pubblicata nel 1892, nella quale la città ducale, evidenziata in rosa, appare sovrapposta a quella ottocentesca. Sul versante opposto dell’insula, un’altra testimonianza di origini medievali è la chiesa di Santa Maria Ancillarum, che chiude la testata sud prospiciente il Largo di Donnaregina.

Venendo all’edificio che ospita il Madre, attraverso dei raffronti cartografici è possibile comprendere una parte delle sue trasformazioni nell’arco di circa cinque secoli. Nella veduta di Napoli incisa da Étienne Dupérac e stampata a Roma nel 1566 da Antoine Lafréry si nota la configurazione a corte dell’edificio in corrispondenza dell’area di nostro interesse, ovvero la testata nord dell’insula – quella prospiciente la strada dell’Orticello (oggi via Settembrini). Tale configurazione è maggiormente visibile nella veduta di Alessandro Baratta del 1629, nella quale, com’è stato notato, l’edificio di dimensioni significative nasconde il giardino – probabilmente appartenuto alla famiglia Brancia – che si nota chiaramente nelle successive cartografie della città, almeno fino alla metà del XIX secolo. Infatti, nella Mappa Topografica Della Città Di Napoli E De’ Suoi Contorni di Giovanni Carafa duca di Noja – realizzata in 35 fogli e completata nel 1775, dopo la sua morte – la disposizione a verde della stessa porzione nord occupa circa un quarto dell’intera insula e mostra delle piccole costruzioni al contorno, mentre verso sud è rappresentato un edificio che descrive una corte aperta verso il giardino. La stessa situazione permane nella Pianta della città di Napoli di Luigi Marchese del 1804 e nelle piante incise nel Reale Officio Topografico della guerra nel corso della prima metà dell’Ottocento, fino al 1853.

Soltanto a partire dalla seconda metà dell’Ottocento emerge una configurazione approssimabile a quella odierna, come si evince dalla pianta del Reale Officio Topografico del 1861 e dalla Pianta Schiavoni, realizzata in 24 fogli tra il 1872 e il 1880. Qui, infatti, si legge chiaramente il grande edificio del Monte di Pietà del Banco di Napoli caratterizzato da una corte centrale allungata e da un doppio accesso: l’uno su via Settembrini, l’altro su un cortile che si apre sul lato opposto dell’edificio in adiacenza a vico Donnaregina, all’altezza della chiesa trecentesca. Si determina in questo modo quella forma trapezoidale che ancora oggi contraddistingue il palazzo, dettata dall’andamento degli assi viari. Pertanto, sulla base delle osservazioni cartografiche sin qui esposte, è possibile dedurre che la realizzazione di questo edificio si colloca tra il 1853 e il 1861, quando venne ampliato e dotato dell’ingresso principale su via Settembrini – che comportò probabilmente la sistemazione della facciata. Nella stessa occasione furono realizzati l’androne a pianta ottagonale e i due corpi scala laterali, presenti ancora oggi. In particolare, è possibile interpretare l’androne come quell’elemento che consente di risolvere la particolare conformazione geometrica dell’edificio cui si è già fatto riferimento, agendo da perno tra l’asse d’ingresso da via Settembrini e quello della corte.

La travagliata storia del palazzo prosegue tra modifiche e alterazioni, specie nel secondo dopoguerra e successivamente al terremoto del 1980, quando si resero necessari interventi di rinforzo strutturale.

L’ultimo atto di questa vicenda riguarda un’alluvione che si abbatté sulla città nel 2001, investendo alcuni edifici di via Settembrini, tra cui il palazzo del Madre. In seguito a questo evento, l’immobile venne abbandonato. Ma sarà proprio a partire da quello stato di abbandono che si generò la spinta per una nuova vita dell’edificio.

Progetto di restauro e rifunzionalizzazione in polo museale

Dopo anni di abbandono, l’edificio fu acquistato dalla Regione Campania – al tempo sotto la guida della giunta Bassolino – che decise la sua riconversione in museo d’arte contemporanea, per poi cederlo al Banco S. Paolo Imi S.p.A. che commissionerà i lavori.

La configurazione attuale dell’edificio è il risultato di un progetto di restauro e rifunzionalizzazione elaborato dal 2003 al 2005 dall’architetto portoghese Álvaro Siza Vieira in collaborazione con lo Studio DAZ-Dumontet Antonini Zaske architetti associati di Napoli. I lavori furono portati a compimento nel 2006.

Quella del museo Madre rappresenta la prima esperienza progettuale concreta realizzata a Napoli dall’architetto portoghese, cui seguirà l’affidamento del progetto per la fermata di piazza Municipio della Metro linea 1. Ciò nonostante, il suo legame con la città partenopea ha delle radici più profonde, coltivate nell’arco di almeno due decenni addietro, quando fu chiamato nel 1986 a elaborare un progetto per il quartiere Pendino, con interventi rivolti principalmente all’area del porto marittimo, e, nello stesso anno, uno studio urbanistico per Monteruscello e i Campi Flegrei. Questa serie di esperienze, unitamente alle molteplici visite, gettarono le premesse per uno stretto legame di Siza con Napoli, coronato dal conferimento della laurea honoris causa presso l’ateneo federiciano nel 2004. Queste le parole di apertura in occasione dell’evento: «Due città in Italia mi emozionano in modo particolare, ogni volta che le visito, anche dopo molte visite: Venezia e Napoli. Certo ne esistono altre di enorme bellezza, ma è in queste che tutto quello che vedo e sento raggiunge la nitidezza dorata di ciò che si vede nei sogni; qua e là provo la sensazione insolita di stare in un sogno». In quel momento, la fama di Siza a livello mondiale è unanimemente riconosciuta, come attestano i diversi premi di livello internazionale, tra cui il Pritzker Prize nel 1992 e la Royal Gold Medal conferitagli dal Royal Institute of British Architects nel 2009.

Tra i più autorevoli eredi della tradizione moderna europea – secondo una definizione di Leonardo Benevolo –, sin dai suoi primi studi sull’architettura popolare portoghese condotti al fianco del maestro Fernando Tàvora, Siza cominciò a maturare quella particolare sensibilità per i caratteri specifici dei luoghi che rappresenterà una costante nell’arco di tutta la sua lunga carriera professionale. E sarà proprio questa propensione verso l’ascolto dei valori materiali e immateriali dei territori che gli consentirà di operare, come nel caso napoletano, in contesti stratificati mediando tra il rispetto delle preesistenze e della memoria storica e una spinta innovativa perseguita attraverso l’utilizzo di un vocabolario formale originale. Come afferma Benevolo, sarà proprio la «nuova e stimolante combinazione di fedeltà al patrimonio locale e alla disciplina intellettuale moderna» a determinare la sua fortuna all’estero.

Ritornando al palazzo in esame, quando Siza fu chiamato a Napoli presentava ancora la sua impostazione ottocentesca, riscontrabile sia nella composizione di facciata, sia nell’organizzazione volumetrica e spaziale, la cui chiarezza era determinata dalla presenza della corte rettangolare, dai rapporti verticali, dalla successione delle sale interne, nonché dalla distribuzione simmetrica della pianta rispetto all’asse longitudinale a partire dall’androne. Quanto al primo aspetto, quello esteriore, lo stesso trattamento era riservato non soltanto ai quattro fronti esterni, ma anche a quelli interni, prospicienti il grande invaso rettangolare. Un carattere di maggiore monumentalità era conferito al prospetto principale, quello su via Settembrini, dove ancora oggi è posto l’ingresso al museo. L’edificio si eleva su tre piani. La facciata principale consta di cinque campate e si articola in una tipica composizione tripartita composta da una fascia basamentale, da un corpo centrale che include due piani e da una fascia di coronamento corrispondente all’ultimo piano, sulla quale si attesta una terrazza praticabile. La fascia basamentale è contraddistinta da un trattamento in finto bugnato e da un portale riquadrato tra due lesene e il balcone del piano nobile. Per risolvere il dislivello tra i due punti estremi della facciata, il trattamento a bugne non parte da terra, ma si attesta su un paramento in piperno che termina sul piano d’imposta delle due lesene, inglobandone i rispettivi piedistalli. Il corpo intermedio è scandito da lesene a doppia altezza e da due ordini di aperture, che in corrispondenza del piano nobile assumono una forma centinata. Al di sopra del cornicione del corpo intermedio, un ultimo ordine di finestre rettangolari scandisce l’ultimo piano.  

Pertanto, il progetto elaborato da Siza e dallo studio DAZ si è incentrato soprattutto sulla strategia di rifunzionalizzazione e sul ripristino della chiarezza spaziale del palazzo, intervenendo attraverso delle demolizioni in presenza di alcune aggiunte che ne alteravano l’impianto di base, come il volume che si ergeva all’interno della corte. Quanto al programma funzionale, oltre alle più consuete funzioni collocate in ambienti museali, sono stati integrati servizi che conferiscono al progetto un respiro internazionale, fondato anche sulla vasta esperienza professionale che l’architetto portoghese poteva   vantare alle soglie del Duemila: si pensi al museo galiziano di arte moderna realizzato a Santiago de Compostela, al progetto per la fondazione Serralves a Oporto, a quello del museo di Helsinki, al progetto per il museo J. Paul Getty “Esquisse” a Malibu e alla fondazione Cargaleiro di Lisbona. Si tratta, in quasi tutti i casi, di intervento nei quali il rapporto con le preesistenze rientra tra i principali dati di progetto. Tornando al programma del Madre, esso prevedeva, al primo piano, la collezione permanente, le aule didattiche, il ristorante e la biblioteca; al secondo, la collezione storica e la libreria; al terzo, le esposizioni temporanee e l’amministrazione. Infine, sia la corte rettangolare che il terrazzo di copertura rientrano negli spazi espositivi del museo, l’una essendo destinata ad accogliere istallazioni temporanee, l’altro calcato dalla scultura del cavallo stilizzato realizzata in blocchi di tufo da Mimmo Paladino.

Nonostante l’organizzazione planimetrica ottocentesca abbia reso impossibile la creazione di grandi sale espositive, l’architetto ha interpretato questa caratteristica come un’apparente assenza di flessibilità, costituendo invece un vincolo positivo per l’artista che si cimenta nell’elaborazione dell’allestimento. Il trattamento delle superfici interne segue la semplicità e la chiarezza dell’intero intervento, essendo completamente intonacate di bianco. La scelta, quasi obbligata negli ambienti espositivi destinati ad ospitare installazioni libere – che spesso utilizzano i muri a mo’ di tela, come negli spazi affidati a Francesco Clemente e Mimmo Paladino –, è comunque in linea con la cifra stilistica di Siza, che vede il bianco come colore ricorrente anche per il trattamento delle superfici esterne.

Quanto al rapporto con le preesistenze, oltre a quanto già osservato in merito al rispetto per l’impianto di base dell’edificio e per alcuni elementi architettonici emersi durante i lavori, come il portale in piperno – di probabile datazione seicentesca – mantenuto nella facciata posteriore del palazzo, ciò che è interessante notare è la ricerca di relazioni di natura percettiva rispetto al contesto circostante, che sostanziano quella particolare attenzione per i valori immateriali cui abbiamo fatto riferimento in precedenza. Come afferma l’architetto portoghese: «La città è uno spazio di relazioni che devono essere trasferite anche all’interno dell’edificio». In tal senso agiscono le aperture ricavate nel muro perimetrale della corte posteriore del palazzo, che favoriscono la visibilità della trecentesca chiesa di Donnaregina e una maggiore permeabilità con il tessuto urbano adiacente, così come la più ampia panoramicità di cui si può godere dal terrazzo, capaci di offrire sia un’inconsueta vista sul centro antico della città, sia un più scenografico affaccio verso il Vesuvio. 

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Foto di Mario Ferrara