Il theatrum della Carità

Napoli e il theatrum della Carità in età moderna

Salvatore Di Liello

Dai primi decenni del Cinquecento, la forma urbana di Napoli inizia a mutare profondamente allontanandosi dall’immagine di città armonica e proporzionata magnificata nella Tavola Strozzi (c. 1472).  Con l’inizio del vicereame spagnolo, sullo sfondo dell’urbanesimo di età moderna, la capitale vicereale si espande caoticamente in un’agglomerazione edilizia inarrestabile e frenetica mai più riequilibrata e destinata a modificare consolidate gerarchie visive e funzioni degli antichi baricentri pubblici.  Colmati gli spazi residui all’interno delle mura, ai margini delle grandi fabbriche conventuali e delle dimore gentilizie, l’edilizia cresce in verticale fin quasi a raggiungere le altissime chiese angioine, un tempo svettanti nel paesaggio urbano. L’incessante incremento demografico alterò la forma degli abitati che, all’interno o immediatamente fuori le mura toledane, divennero dagli inizi del Seicento quartieri e borghi presto asfittici e malsani, occupati da grandi folle provenienti dalle campagne del viceregno immiserite dalla crisi agricola e da una diffusa arretratezza sostanzialmente ignorata dal governo spagnolo. In questo sfondo reso cupo da una perdurante miseria, dalle frequenti epidemie e gravato dalle vessazioni fiscali imposte dal potere, ampi margini trova l’intervento della Chiesa impegnata a rinsaldare, anche con le opere caritatevoli, quella fede minacciata dal luteranesimo la cui larga diffusione a Napoli fu contrastata dai nuovi ordini religiosi della Controriforma che,  inurbati nelle aree più centrali del nucleo storico, trasformarono la città in una attivissima officina della Controriforma.

La centralità della fede nelle drammatiche vicende della città affiora anche nella produzione vedutistica dove i modelli fiamminghi delle ariose  vedute a volo d’uccello dei paesaggi urbani appaiono declinati nell’iconografia tridentina dei santi che proteggono la città così diffusa  nel paesaggismo urbano napoletano tra Sei e Settecento, un cospicuo corpus figurativo nel quale confluiscono il celebre ritratto dal mare  di Alessandro Baratta, il San Gennaro che allontana le fiamme dell’eruzione del Vesuvio del 1631  di Micco Spadaro, il  San Gennaro protegge Napoli di  Onofrio Palumbo e Didier Barra (fig.1) (c. 1651), o ancora la  Madonna di città di Domenico Fiasella (c. 1640) (fig. 2) ,  solo alcuni tra i molti esempi possibili di quelle vedute «con l’horizonte così alto com’usano i fiammenghi» richiamate da  Giulio Mancini intorno al 1620. 

Nondimeno, ancor prima di essere ufficialmente raggiunta dai precetti tridentini, la città viveva profondi cambiamenti sociali destinati a fermentare nella cultura artistica e nella religiosità dell’intero viceregno con più palpabili ricadute nella sua capitale. In questa temperie, fin dagli anni Trenta del XVI secolo, confluisce l’azione di nuove istituzioni religiose impegnate in una riforma della religiosità e in particolare della vita conventuale contro gli eccessi profani documentati in molti importanti antichi complessi conventuali della città.

Indagini e resoconti sui monasteri napoletani durante il Cinquecento, puntualmente inviati a Roma, confermavano il dilagare della corruzione e dell’immoralità della vita conventuale, segnalando importanti complessi come quelli di Santa Chiara, Santa Maria Donnaromita, San Gregorio Armeno, Santa Patrizia, Santa Maria Donnaregina dove vescovi e cardinali da tempo non riuscivano a contrastare l’ingerenza della nobiltà cittadina all’interno dei chiostri. Reagendo a queste consolidate consuetudini, stigmatizzate dalle gerarchie ecclesiastiche come una preoccupante deriva morale, grande adesione trovarono in città e nel viceregno i precetti di rigore e povertà a cui si ispirarono gli ordini dei Cappuccini (1520 ca.), dei Teatini (1524), della Compagnia di Gesù (1534) che, seguiti più tardi dagli Oratoriani (1575), promuoveranno severissime regole che troveranno proprio a Napoli un’importante affermazione. In questo nascente clima di riforma morale confluiscono molte iniziative come quella intrapresa da Maria Lorenza Longo che fin dal 1519, forte dell’appoggio della Chiesa romana, diede inizio alla costruzione, nel cuore dell’antica Napoli, del complesso di Santa Maria del Popolo con un ospedale per la cura dei poveri, un’iniziativa  cui seguì, nel 1535, la fondazione da parte della stessa nobildonna dell’ordine delle Clarisse Cappuccine ispirato al rigore della Regola di Santa Chiara, con sede nel complesso di Santa Maria di Gerusalemme. Negli stessi anni un’azione simile fu intrapresa dalla sua discepola Maria d’Ayerbe che nel 1538 aprì il monastero delle Convertite per la rieducazione delle prostitute sottoposte all’osservanza di una rigidissima clausura e di una vita di rinunce e privazioni.

Preludio di quella retorica della Povertà e della Carità che da lì a pochi decenni eromperà  nella città e nel vasto viceregno, queste  azioni riassumono  efficacemente il rinnovamento religioso in atto a Napoli già nella prima metà del secolo, in anticipo con l’austerità più tardi ufficialmente sancita dalla riforma cattolica, nel cui specchio prenderà definitivamente forma l’urgenza di una pratica artistica lontana da ogni sontuosità formale e capace di tradurre in architettura la rinuncia al fasto e agli eccessi. In qualità di committenti nelle costruzioni delle nuove fabbriche napoletane per accogliere le numerose comunità, votate alla povertà e alla clausura, questi ordini religiosi impongono rigore e sobrietà artistica agli architetti chiamati a dirigere i grandi cantieri delle fabbriche conventuali da rendere quanto più conformi alla Regola. Su queste fondanti premesse, nel clima di fervore assistenziale della riforma cattolica degli ultimi decenni del Cinquecento, nascevano numerose istituzioni pie collegate alla formazione di congregazioni, ospedali e scuole.  A Napoli, il fenomeno incise presto sulla dimensione urbana in quanto gli enti assistenziali, protetti dagli ordini religiosi e dai privilegi fiscali concessi dal governo spagnolo, riuscirono ad acquisire fabbriche e spazi sempre più centrali della città. Ben noto del resto è l’ardente attività della Chiesa post-tridentina impegnata in un serrato e capillare indottrinamento che aveva nella cura degli infermi e nelle iniziative caritatevoli a sostegno dei poveri e derelitti uno dei principali campi d’azione. Negli stessi anni in cui nascevano enti assistenziali e banchi pubblici, si costituivano congregazioni religiose allo scopo di avvicinare  il laicato al rinnovato spirito di catechesi promosso dalla Controriforma, coinvolgendo i laici nell’osservanza di rigidi comportamenti spirituali e nella diffusione della fede cristiana, alimentando una particolare devozione per il culto mariano e la Passione di Cristo, in linea con quanto accadeva a Roma fin dal 1501. È in quell’anno che nella città papale fu fondato il sodalizio del Santissimo Sacramento e Cinque Piaghe per portare il Viatico agli infermi gravemente malati, poi eretto in confraternita dal papa Giulio II, con bolla del 12 settembre 1508, presso la chiesa romana di San Lorenzo in Damaso da dove si irradiò in molte parrocchie anche del vicereame spagnolo.

Dalla metà del Cinquecento nella stessa direzione muoveranno i banchi pubblici napoletani, così centrali nell’attività assistenziale e caritatevole della capitale del viceregno, come quello di Santa Maria del Popolo, originariamente sistemato in alcuni locali dell’ospedale degli Incurabili a Caponapoli aperto da Maria Longo nel 1521, ma in seguito  trasferito nella più centrale  piazza San Lorenzo dove nel 1597 si diede inizio alla fabbrica di una nuova prestigiosa sede su progetto di Giovan Battista Cavagna.

Icastica espressione della climax religiosa e sociale della capitale vicereale, così connaturata all’immagine della città in età moderna come in pochissime altre realtà urbane d’Europa, appare la storia di tre monti assistenziali che nelle vicende  evolutive delle singole istituzioni, come nella crescente monumentalità registrata nelle trasformazioni delle sedi originarie, compendiano mirabilmente lo straordinario  rilievo delle attività caritatevoli in soccorso dei poveri e degli abbandonati assunto nella società napoletana negli anni della riforma cattolica e a seguire tra XVII e XVIII secolo. In particolare, i monti della Pietà, dei Poveri e della Misericordia, condivisero programmi e attività inizialmente rispondenti a rigorosi principi di austerità, ma presto   superati a favore di una grandiosità, allusiva messa in scena della compassione, immagine trionfante della Carità e degli enti che la praticavano nello specchio del Theatrum mundi barocco. Ma il fenomeno fu graduale. La ricchezza e il prestigio di questi enti maturò infatti in un lento processo che muoveva da premesse di professata umiltà e benevolenza per i più bisognosi: una realtà annunciata da iniziative come quelle intraprese dai nobili napoletani Aurelio Paparo e Ignazio Di Nardo che, fin dal 1539, iniziarono a riscattare a proprie spese ingenti quantità di beni sottratti a molti napoletani gravati da debiti sistemando tutti i pegni in un edificio di loro proprietà nei pressi della Giudecca. Qui istituirono un Sacro Monte di Pietà in soccorso dei cittadini vessati degli usurai, opera «non mai a bastanza lodata» come ricordava Bernardo De’ Dominici nel Settecento. Attività simili a quelle avviate fin dal 1563 da alcuni avvocati impietositi dalle condizioni dei carcerati al punto da istituire in loro favore una pignorazione senza interessi,  destinando a tali iniziative un locale nei  tribunali di Castel Capuano, la prima sede di quella che sarà la Congregazione del SS. Nome di Dio e Sacro Monte dei Poveri, poi trasferita in un oratorio presso la Casa dei Santissimi Apostoli e poi ancora nella chiesa di San Giorgio Maggiore, prima di essere sistemata  definitivamente nell’antico palazzo Ricca su via Tribunali,  acquistato dall’ente nel 1616.  Nobili e gentiluomini come quelli ancora che, nel 1601, cominciarono a raccogliere personalmente elemosine lungo le strade della città per assistere gli infermi nell’ospedale degli Incurabili, portando loro cibo e assistenza spirituale. In breve tempo, aumentato il numero dei benefattori, il pio sodalizio riuscì a incrementare le azioni assistenziali giungendo, nel 1602 alla decisione di costituire un monte per l’esercizio delle opere di misericordia corporale, il cui statuto nel 1604 veniva approvato da Filippo III di Spagna e dal papa Pio nel 1605. Tra il 1605 e il 1608 lungo via Tribunali, sul largo prospiciente l’ingresso laterale del Duomo, Giovan Giacomo di Conforto progettava l’edificio e la cappella del monte napoletano impreziosita dal celebre dipinto Le sette opere di misericordia corporale  di Michelangelo Merisi da Caravaggio (1606-1607), solenne celebrazione delle finalità assistenziali della congregazione di laici, estese negli stessi anni  all’esterno della capitale vicereale  con l’apertura di un complesso termale a Casamicciola per curare gli infermi con le acque termali dell’isola d’Ischia, descritte dal medico di corte Giulio Jasolino nel volume De Rimedi Naturali che Sono nell'Isola di Pithecusa, Hoggi Detta Ischia del 1588.  

Il rilevante aumento di donazioni portò presto alla formazione di ingenti capitali che orientarono l’originario spirito assistenziale verso più strutturate attività   imprenditoriali con la formazione, per i monti di Pietà e dei Poveri di banchi pubblici.  E il credito non era l’unica funzione di questi enti come ricordava il Celano per il Monte di Pietà nel 1692: «Qui s’attende non solo all’opera de’ pegni, che è il suo principale instituto, ma anco à riscattar Christiani, che stanno in mano d’infedeli, ad escarcerare molti poverelli prigioni per debiti, à dar le doti à molte donzelle povere, & altre opere di Pietà».

Nel corso di brevi decenni i sodalizi caritatevoli crebbero al punto da destinare congrua parte dei proventi alla costruzione di monumentali edifici che, innalzati nei luoghi più baricentrici di una città sempre più congestionata, rimarcavano la centralità dei monti assistenziali nella società del tempo. Come accadde per il Monte di Pietà che per circa un ventennio operò inizialmente ai margini del nucleo antico, spostandosi dalla Giudecca ad alcune sale nel cortile della Santa Casa dell’Annunziata. Più tardi, grazie all’apertura di un banco pubblico riconosciuto dal viceré Pedro Gìron conte d’Ossuna nel 1584, dopo un breve ulteriore trasferimento dell’opera pia nel palazzo dei Duchi d’Andria, nel largo San Marcellino, fu definitivamente sistemato nella platea seu sedilis Nidi, la centralissima strada di San Biagio dei Librai, tra le principali arterie della città storica. Qui i governatori del Monte nel 1597 acquistavano l’antica residenza di Girolamo Carafa e tutti i fabbricati adiacenti nell’insula interamente occupata dalla nuova fabbrica che immaginarono grandiosa e monumentale come affiora già dall’intitolazione del conto aperto nel 1597 per la «Fabbrica del Palazzo grande sito nella strada maestra di seggio di Nido che si fa per l’habitatione dell’opra pia del n.ro Monte» (Archivio Storico del Banco di Napoli, ASBN, Pietà, Libro Patrimoniale, matr. 8, f° 284). L’impresa vide la partecipazione fin dal 1598 di Giovan Giacomo di Conforto, impegnato pochi anni dopo nel Monte di Misericordia, e Giovan Cola di Franco indicati nei documenti come collaboratori di Giovan Battista Cavagna, autore del monumentale palazzo. Un progetto che introduceva per la prima volta a Napoli soluzioni compositive e lessicali romane nella locale architettura rinascimentale, ancora a quel tempo improntata al classicismo toscano delle opere dei due Mormando Giovanni Donadio e Giovan Francesco di Palma estranee a ogni sperimentazione e a ogni deroga dal codice introdotto dagli aragonesi dalla metà del Quattrocento. Di formazione romana, il Cavagna ideò una fabbrica  dove solennità e magnificenza venivano a fondersi in un severo classicismo, legato ai modelli della coeva architettura nella città papale e delle prescrizioni della prima stagione della riforma cattolica improntata alla semplicità e alla chiarezza del messaggio: su un isolato rettangolare, delimitato dal tracciato di fondazione greca e con il lato breve allineato lungo via San Biagio dei Librai, nella regione del Seggio di Nido, il palazzo occupò l’intera superficie dell’insula articolandosi su un ampio cortile centrale delimitato sul fondale opposto alla strada dalla facciata della cappella. L’elegante sintassi mormandea del vicino palazzo di Capua poi Marigliano, piena adesione dell’architettura napoletana alla lezione del Quattrocento toscano, non trova seguito nell’edificio del Monte dove l’autore rinuncia agli ordini in facciata e fissa un modello per dimensioni, soluzioni prospettiche e lessico, non ancora sperimentato a Napoli. Elemento principale è la scattante successione visiva portale-vestibolo-cortile-cappella(fig. 3): delineando una composizione monumentale inedita nella capitale sul volgere del Cinquecento, egli riprende la sua soluzione del vestibolo a tre campate su pilastri quadrati già sperimentata nell’atrio della chiesa di San Gregorio Armeno, aumentandone le dimensioni e riscrivendone la funzione che, se nella chiesa è cesura, separazione dall’esterno imposta dalla clausura, qui diventa fluida spazialità e scenica prospettiva verso la facciata della cappella, visibile dalla strada nella successione del portale e dell’arcata centrale del vestibolo, più alta delle altre. Ai lati del grandioso atrio (fig. 4), due scaloni simmetrici raggiungono gli ambienti superiori con una rampa unica che dal ripiano si biforca per raggiungere un primo livello ammezzato e più su le sale degli ambienti del piano nobile. Questo è posto al secondo livello e non al primo, come accade in molti palazzi napoletani del nucleo antico dove le ridotte dimensioni stradali e la conseguente scarsa illuminazione dei livelli inferiori suggerisce la collocazione dell’appartamento principale al secondo piano. Anche in facciata le scelte vanno tutte nella direzione della simmetria e della severità delle linee architettoniche, semplificando e razionalizzando i modelli romani bramanteschi e raffaelleschi, in quella linea dell’essenzialità fissata proprio a Roma da Antonio da Sangallo il Giovane. L’austera monumentalità dell’architettura del Monte allude alla missione spirituale dell’istituzione assistenziale rivolta alla Carità e alla Pietà in favore dei poveri e dei bisognosi. Da qui la rarefazione formale dell’impaginato in facciata dove un calibrato uso del lessico controlla la composizione della superficie. Questa, priva di ordini, è scandita da cinque campate e viene interrotta soltanto da un’unica cornice marcapiano e da due coppie di vigorose fasce bugnate in pietra lavica, ciascuna inserita nelle rispettive estremità laterali, dove il grigio delle bugne dentellate si staglia sul rosso dell’intonaco dell’intera superficie. Particolare rilievo monumentale hanno i cinque balconi del piano nobile sormontati da possenti timpani, alternati tondi e triangolari che, spezzati al centro per inserire l’insegna scolpita del Monte, sono gli unici motivi aggettanti dalla superficie occupata, negli altri registri – i primi due e il quarto – da finestre nettamente subordinate ai balconi del piano nobile per dimensione e soluzione formale. Analoga è l’attenuazione plastica del basamento rivestito da lisce lastre di piperno segnato superiormente da un fregio a corridietro e interrotto da un portale dal bugnato, simile a quello adottato nel primo registro della facciata di San Gregorio Armeno.

Anche per il sodalizio della Misericordia l’aumento dei capitali rese possibile la costruzione di una sede più monumentale per mostrare il prestigio raggiunto dal Monte. Ottenuti nuovi spazi in seguito all’acquisto di edifici adiacenti all’originaria fabbrica del di Conforto, per il nuovo edificio fu conferito l’incarico a Francesco Antonio Picchiatti che nel 1658 forniva il progetto di una delle architetture più monumentali del Seicento napoletano. La composizione architettonica rispecchia il modello della dimora gentilizia, come a voler marcare la natura laica dell’ente assistenziale probabilmente per volontà degli stessi governatori: un’elegante facciata su tre registri con un austero porticato a piano terra su cinque arcate scandite da lesene (fig. 5) con capitelli ionici dai chiari tratti michelangioleschi, sormontate da un fregio recante il motto del Monte Fluent ad eum omnes gentes. Alle pregevoli sculture nel loggiato sulla strada, tra cui La Madonna della Misericordia e due figure allegoriche che sunteggiano le sette opere assistenziali del Monte   furono realizzate da Andrea Falcone tra il 1666 e il 1671, su disegno di Cosimo Fanzago e accomunate da un sobrio canone classicheggiante, in linea con le scelte stilistiche del Picchiatti che ne aveva indicato i soggetti e disegnato il registro decorativo.  I due piani superiori, anch’essi ritmati in cinque settori da lesene, mostrano una lunga balconata nel primo livello, occupato dalle sale della celebre quadreria del Monte, e cinque balconi nel secondo piano ornati da volute in stucco e cornici scolpite in piperno con maggiore accentuazione plastica nei balconi della quadreria.  Simile il lessico architettonico adottato dal Picchiatti nell’architettura della chiesa che, con volta a sesto acuto, sei cappelle laterali e l’altare maggiore dove campeggia il dipinto del Caravaggio, mostra superfici scandite dal marmo bianco e grigio con pavimenti delle cappelle, balaustre, pilastri e molti altri particolari, tutti su disegno del Picchiatti autore di una composizione dove mirabilmente coesistono motivi classicisti e magnificenza barocca.   

Simili le vicende del Monte dei Poveri che vide anch’esso aumentare i proventi grazie agli introiti garantiti dall’omonimo banco pubblico istituzionalmente riconosciuto da Regio Assenso nel 1632, ma in realtà già attivo da molti anni. In seguito all’acquisto del palazzo di Gaspare Ricca del 1616, i governatori del sodalizio programmarono ampliamenti e ammodernamenti commissionando i necessari lavori a Giovan Giacomo di Conforto che dal 1598 aveva collaborato con il Cavagna nella fabbrica del Monte di Pietà, il cui modello non fu estraneo alle prima fase confortiana della sistemazione del Monte, come mostra l’originaria posizione della cappella, una delle citazioni  cavagnesche come quella dell’atrio di San Gregorio Armeno  riproposto dal di Conforto nel vestibolo della chiesa dei Santi Marcellino e Festo. Più tardi, in seguito all’ulteriore acquisto dell’adiacente palazzo Cuomo, furono attuati nuovi interventi tra cui la monumentale facciata, realizzata tra il 1770 e il 1773 su progetto di Gaetano Barba.

Proprio il tema delle cappelle e la dislocazione di queste in ciascuno dei palazzi dei tre monti qui tratteggiati, conferma la comune volontà da parte dei governatori di marcare il carattere laico delle istituzioni assistenziali considerando l’oratorio dell’edificio come un corpo accessorio, benché straordinariamente monumentale. Una presenza autonoma, ma tale da non interferire con il disegno della facciata allineata sulla strada come appare nelle distinte soluzioni adottate con grande cura nelle cappelle dei tre enti da Giovan Battista Cavagna, Francesco Antonio Picchiatti e Giovan Giacomo di Conforto  rispettivamente nei monti della Pietà, della Misericordia e dei Poveri e arricchite da dipinti e sculture dei principali artisti del tempo da  Bellisario Corenzio a Caravaggio e Luca Giordano: opere pregevolissime che  tuttavia non compongono in alcun caso il fronte principale dell’edificio. Una differenza che Antony Blunt (1975) rintracciava nel Monte di Pietà quando evidenziava il contrasto tra la «grandiosità rude e mascolina» della facciata del palazzo da quella «delicata e femminea» della cappella, progettata dal Cavagna sul fondale del cortile e inquadrata da un’ariosa prospettiva dalla strada nella scansione portale-arcata centrale del vestibolo. Da qui la scelta dell’ordine ionico, fra gli altri il più elegante e femmineo, traduzione nella sintassi architettonica di quanto annunciato dalla Pietà del Naccherino, al centro del frontone fiancheggiata dagli angeli, e ribadito dalle sculture berniniane della Carità e della Sicurtà – ancora figure femminili – nelle due nicchie arcuate simmetriche al portale: una trilogia quindi che, movendo dalla Pietà, madre di Cristo e della Chiesa, ma anche pietas, devozione e sentimento religioso, continua con la Carità e la Sicurezza a chiusura di un triangolo visivo con al vertice il gruppo del Naccherino. Presenza sì subordinata che tuttavia palesa gli assunti tridentini sulla chiarezza della creazione artistica e sulla comprensibilità del messaggio veicolato da un’architettura paradigma del classicismo  cinquecentesco  con rimandi locali alla sintassi mormandea della facciata di Santa Maria della Stella alle Paparelle (1519)  e a quelli vignoleschi di Santa Andrea della Valle in via Flaminia (1550-1553) e ad altre opere romane di Antonio da Sangallo il Giovane  come le facciata per Santa Maria di Loreto e Santo Spirito in Sassia. 

Ma al di là dei possibili  riferimenti è indubbio e va sostenuto che il Cavagna nella facciata della cappella del Monte traduce la severa solennità del modello napoletano e di quelli romani in una composizione elegante e delicata dove l’introduzione di pitture nel registro superiore al timpano, oggi completamente sbiadite, le statue, i marmi, le cornici e le pietre mische, citate nei documenti, denotano un’ espressività dove l’autore rinuncia a quel rigore manifestato nel fronte sulla strada: ecco che il tema classicista del prospetto sulla strada ritmato da quattro lesene rudentate e concluso da timpano viene qui rielaborato da un’aggettivazione formale tutta protesa alla celebrazione della Madonna vista qui più che come Vergine, come Madre dolente, come Pietà appunto, ispiratrice del Sacro Monte fondato per soccorrere il popolo.

Quantunque con accenti lessicali e cadenze differenti, l’allontanamento della cappella dalla facciata dell’edificio ricorre anche nel Monte della Misericordia e in quello dei Poveri. Se nel Monte di Pietà la sacralità della cappella segna il fondale di un edificio agganciato in prospettiva alla strada da un portale vignolesco e da un vestibolo di inusitate dimensioni fino ad allora a Napoli, nella monumentale sede del Pio Monte della Misericordia il Picchiatti esclude la cappella a pianta ottagonale dalla composizione della facciata che maschera la presenza dell’aula sacra con accesso  in corrispondenza di una delle arcate del porticato ornato dalle sculture disegnate dal Fanzago (fig. 6).  Per il Monte dei Poveri invece, nella pur lunga vicenda costruttiva dell’edificio, fu conservata l’idea confortiana di collocare la cappella sul fondale della scenica prospettiva inquadrata dalla strada attraverso il portale (fig. 7) , sperimentato vent’anni prima nel monte progettato dal  Cavagna destinato evidentemente a fornire un modello per il di Conforto che, fin dal 1598, collaborava insieme a Giovan Cola di Franco con il maestro romano nel cantiere del Monte di Pietà, essendo  citati nei pagamenti quali «fabbricatori (…) ne la fabrica de la nova casa del monte» (ASBN, Pietà, Libro Patrimoniale, matr. 8, f° 284).

Preceduta da un atrio contenente dal 1618 le statue marmoree di San Tommaso d’Aquino, San Gennaro, San Severo e Sant’Antonio da Padova di Gerolamo D’Auria, l’oratorio fu più tardi ampliato conservando l’originaria giacitura. Nel 1669 i governatori del Monte avevano infatti deliberato la costruzione di una nuova cappella progettata da Onofrio Tango che non mutò l’originario allontanamento assiale della cappella ripreso dal palazzo del Monte di Pietà. Pochi anni dopo, la policromia della pittura e la multiforme plastica barocca delinearono la straordinaria teatralità dell’interno: nel 1672 interveniva Luca Giordano dipingendo  l’Immacolata Concezione nella volta e l’anno dopo la Circoncisione sull’altare, ai cui lati furono aggiunte tra il 1685-1686 un’Annunciazione e una Natività di Francesco Solimena, cui seguirono il pavimento del presbiterio e la balaustra di Domenico Antonio Vaccaro e, nel 1767,  la macchina barocca dell’altare su disegno di Gaetano Barba.

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Foto di Mario Ferrara