Il duomo di Napoli

Il Duomo di Napoli: dalla fondazione a oggi

Roberta Ruggiero, Alberto Terminio

Il sito

La basilica che oggi il visitatore percorre risale all’epoca angioina, quando Napoli fu capitale del regno. Essa è il risultato di una complessa storia di stratificazioni, rimaneggiamenti e restauri verificatisi nel corso di sette secoli, a partire dalla sua fondazione voluta da Carlo II d’Angiò nel 1294.

Non è possibile però comprendere tali vicissitudini senza prima conoscere come si presentava il sito negli anni antecedenti la realizzazione della basilica di nostro interesse. L’area ad est di via Duomo, dove oggi troviamo la chiesa, infatti, è da sempre stata occupata dalla cosiddetta insula episcopalis, ovvero quell’area dove, sin dall’antichità, furono erette costruzioni sacre poi trasformate e, in parte, inglobate nel cantiere del nuovo duomo. L’insula, composta da quattro insule semplici e perimetrata dalle attuali via Duomo, via Donnaregina, via Santi Apostoli, vicolo Sedil Capuano e via dei Tribunali, ospitava anticamente tre chiese. La prima è la chiesa di Sant’Andrea Apostolo con il suo ospedale, già annesso all’ospedale della Santissima Annunziata dal papa Eugenio IV; quella di Santa Restituta che, risalente al IV secolo d.C., si estendeva maggiormente rispetto ad oggi fino ad occupare buona parte dell’attuale area longitudinale della basilica; il battistero di San Giovanni in Fonte ad oriente di Santa Restituta, visibile ancora oggi; infine, la chiesa comunemente conosciuta come la Stefania, fatta erigere dal vescovo di Napoli Stefano I verso l’inizio del VI secolo e, in seguito ad un incendio che la distrusse quasi totalmente, ricostruita dal vescovo Stefano II nel 768 circa.

Come riportato da Franco Strazzullo nei suoi Saggi storici sul Duomo di Napoli, alcuni storici anteriori al XVII secolo attribuivano la costruzione del nuovo duomo al sovrano Carlo I d’Angiò; documenti più recenti hanno però attestato che fu il suo successore, il figlio Carlo II, con il supporto dell’arcivescovo Filippo Minutolo, l’artefice dell’opera quando rientrò definitivamente a Napoli nella primavera del 1294. Attraverso un documento del 29 agosto 1299, un privilegio accordato dal re Carlo II in cui si legge «in subsidium espensarum fabrice maioris Neapolitane Matris Ecclesie quam in Honorem Beate Virgini Nos ipsi de novo fundavimus», è stato infatti possibile ricostruire che il sovrano aveva promosso il pagamento di un grano da parte del popolo affinché potessero essere portati avanti i lavori della nuova chiesa. Sotto il regno di Roberto d’Angiò l’opera fu conclusa e, nel 1314, la cattedrale fu consacrata da Umberto d’Ormont, arcivescovo di Napoli, e dedicata all’Assunta.

I lavori per la realizzazione della nuova cattedrale, affinché questa potesse essere inserita nell’insula episcopalis, iniziarono dalla demolizione di buona parte della Stefania sulle cui fondamenta furono costruiti il transetto e le absidi orientali del Duomo; il suo impianto era, potremmo dire, ruotato di 90 gradi rispetto alle strutture preesistenti, formando un angolo retto con le stesse. In un secondo momento, tra il 1303 e il 1305, furono poi demolite le ultime parti superstiti della Stefania per far posto alla cappella sepolcrale, l’attuale sacrestia, adiacente al braccio settentrionale del transetto. Un destino analogo doveva spettare alla chiesa di Santa Restituta che, secondo il progetto originario, doveva essere ridotta o demolita per far posto al nuovo Duomo. Quando nel 1310, però, il beato Nicolò – un eremita lombardo residente a Napoli – fu assassinato e il suo corpo sepolto in Santa Restituta, le sorti della chiesa cambiarono: il collegio dei canonici della cattedrale destinò la vecchia basilica a luogo di culto del beato e, protetta dalla sua giurisdizione, la chiesa fu inglobata nella nuova costruzione come cappella.

L’architettura della cattedrale angioina

Se, ancora oggi, la paternità della fabbrica è un argomento controverso – secondo alcuni storici sarebbe stata opera di un francese o comunque di un architetto d’oltralpe, secondo altri si tratterebbe di un maestro locale – altrettanto discusso è il suo stile. Sebbene costruito in età angioina, infatti, il Duomo di Napoli, come sostenuto dalla storica dell’arte Caroline Bruzelius, presenta tanto caratteri dell’architettura gotica quanto elementi dissonanti che afferiscono ad una tradizione costruttiva locale e quindi differente da quello che si sviluppa oltralpe; a questo va poi aggiunto che i numerosi interventi di restauro subiti negli anni ne hanno sicuramente alterato l’aspetto originario.

Orientato in direzione est-ovest, il duomo è costituito da un corpo longitudinale di otto campate con cappelle laterali che, dislocate su tutta la lunghezza di entrambi i fianchi, furono patrocinate da alcune famiglie nobili napoletane. Il transetto, invece, era originariamente costituito da tre absidi a pianta poligonale che, allineati con le tre navate di cui si compone la chiesa, ne rispettavano la larghezza.

La facciata

Quella che oggi primeggia su via Duomo non è l’originaria facciata della basilica poiché dal Trecento all’ultimo progetto ottocentesco di Errico Alvino la stessa ha subito diversi rifacimenti.

Già nel settembre del 1349, a pochi anni dall’apertura della chiesa, un terremoto danneggiò gravemente l’edificio provocando il crollo del campanile e della facciata. Nonostante sia difficile risalire al suo antico aspetto, le fonti attestano che i due leoni stilofori, le colonne in porfido che li sovrastano e il Mater Orbis del lunettone centrale, opere dello scultore senese Tino di Camaino, sono gli unici pezzi superstiti dell’originario portale. Questo fu completato dallo scultore Antonio Baboccio da Piperno che, nel 1407, realizzò una serie di sculture in onore del cardinale Enrico Minutolo come testimoniato da un’epigrafe posta ai piedi della Mater Orbis. Il gruppo scultoreo del Baboccio si compone di otto edicole di santi, che si ergono sulle colonne in porfido, la ghimberga con l’arcangelo San Michele e i pinnacoli sui quali trovano posto le statue dell’arcangelo Gabriele e dell’Annunziata. Accanto alla Madonna col bambino figurano, poi, le sculture dei santi Pietro e Gennaro e del cardinale Minutolo adorante. Sull’architrave sono scolpiti i quattro Evangelisti e gli stemmi dei Durazzo e del cardinale Minutolo mentre, lungo la ghiera dell’arco, sono disposti i dodici apostoli sormontati, nel vertice, dallo Spirito Santo adorato da due angeli. Infine, due cori angelici sono raffigurati nel timpano facendo da corteo alla figura della Madonna, incoronata regina da Gesù.

Fatta eccezione per il portale appena descritto, non è noto come si presentasse il resto della facciata del Duomo ai tempi del Baboccio, né si sa con precisione quali e che tipo di interventi di restauro la stessa subì negli anni successivi, danneggiata sicuramente da alcuni eventi sismici. Le prime notizie più certe risalgono al 1787-88 quando il cardinale Giuseppe Capece Zurlo incaricò l’architetto Tommaso Senese del rifacimento della facciata della basilica. Inglobando il portale del Baboccio, il nuovo progetto presentava uno stile non ben definito, né gotico né barocco, tale da rappresentare tanto l’antico quanto il moderno. Date le numerose polemiche sorte intorno al prospetto del Senese, e vista la difficoltà dell’opinione pubblica di accettarne il disegno, dopo circa un secolo il cardinale Sisto Riaro Sforza bandì un concorso per il rifacimento della facciata del Duomo. A vincere fu il progetto di Errico Alvino che, tuttavia, morì prima di poter presentare i disegni definitivi, il 7 giugno 1876. Seppur con qualche piccola modifica, il suo progetto fu ugualmente seguito affidandone l’esecuzione agli architetti Nicola Breglia e Giuseppe Pisanti, con la direzione di Michele Ruggiero e Giovanni Rossi. Con la morte del cardinale Sforza i lavori, totalmente finanziati dal popolo, subirono un arresto; sarà il cardinale Guglielmo Sanfelice ad incentivare nuovamente l’opera e solo il cardinale Giuseppe Prisco la vide terminata nel 1905, in occasione del XVI centenario del martirio di San Gennaro.

Dal punto di vista architettonico, il merito di Alvino consiste nell’essere riuscito ad inserire l’antico portale di ingresso del Baboccio all’interno della più moderna facciata. Ma, se è vero che il portale barocco è perfettamente inglobato nel prospetto ottocentesco, al tempo stesso è stato osservato che tale “cucitura” rappresenta un esempio di “errato concetto di restauro”. Ciò che si recrimina all’architetto è di aver voluto imitare forme gotiche non idonee ai tempi e che non mettono, così, in risalto le poche testimonianze originali del duomo angioino. Timpani cuspidali e guglie ricorrono in tutto il prospetto, riprendendo proprio quei motivi del portale quattrocentesco che sono stati per Alvino, a questo punto, dei veri e propri prototipi sui quali sviluppare il proprio progetto. Collaborarono alla decorazione, infine, i migliori scultori del tempo.

La facciata fu inaugurata dopo 28 anni di lavori ma, ciononostante, risultava ancora incompleta e, oltre a due torri a guglie, mancavano gli altorilievi che avrebbero dovuto affiancare la cuspide del Baboccio; al loro posto, quella fascia fu stuccata e, dopo il suo distacco durante la Seconda guerra mondiale, rivestita con pietra di Bellona durante il restauro del 1951.

Gli interni

La chiesa presenta un impianto a croce latina suddiviso in tre navate, corrispondenti ai tre portali in facciata. La grande navata centrale, lunga circa 100 metri e larga 35 metri, presenta una copertura a cassettoni intagliata e dorata arricchita ulteriormente da cinque tele raffiguranti l’Adorazione dei pastori di Giovanni Balducci, l’Adorazione dei Magi di Giovanni Vincenzo da Forlì, la Circoncisione di Flaminio Allegrini e l’Annunciazione e Presentazione al Tempio di Girolamo Imparato. Tale copertura, in realtà, risale al 1621, quando il cardinale Decio Carafa decise di sostituire l’originale soffitto a capriate lignee con quello odierno. Altri dipinti sono presenti sulle pareti laterali della navata, inscritti in tondi e ovali posti al di sopra di ognuno dei sedici pilastri che la incorniciano lateralmente. Tali raffigurazioni ad olio rappresentano i Santi Apostoli, i Santi dottori della Chiesa e i Santi protettori della città e, preliminarmente abbozzati dal de Dominici, sono opera del pittore Luca Giordano. Commissionati dal cardinale Innigo Caracciolo, al tempo arcivescovo di Napoli, alcune di queste opere furono danneggiate durante il terremoto del 1668 e, per ordine del cardinale Francesco Pignatelli, realizzate nuovamente dal pennello di Francesco Solimena. I sedici pilastri che incorniciano lateralmente la navata, infine, presentano altrettante edicole custodi di busti risalenti al XVII secolo e raffiguranti i primi vescovi della città di Napoli.

Le due navate laterali sono separate da quella centrale dai sopracitati sedici pilastri, otto per ogni lato, a ciascuno dei quali, verso l’interno, si addossano tre colonne in granito sormontate da capitelli gotici in marmo bianco. Tali pilastri con le rispettive tre colonne fungono, così, da imposta per gli archi ogivali, decorati a stucco e marmo, che chiudono lateralmente la navata principale e per le volte a crociera a copertura delle due navate laterali. Ad arricchire queste ultime sono, infine, dieci cappelle, cinque per ciascuna navata, tra le quali spiccano la Basilica di Santa Restituta, lungo la navata sinistra, e la celebre cappella del Tesoro di San Gennaro, esattamente di fronte.

La Basilica di Santa Restituta risale al IV secolo e fu fatta erigere dall’imperatore Costantino, probabilmente nel luogo che un tempo era occupato da un antico tempio, in onore della Santa. Prima di essere inglobata all’interno del Duomo come cappella nel XIII secolo, la Basilica doveva essere più grande e disporre di una propria facciata nonché di ingressi per ognuna delle cinque navate di cui era costituita. Di queste, le più esterne, a seguito del terremoto del 1456, furono trasformate in cappelle e i rispettivi ingressi furono murati per dare maggiore forza strutturale all’edificio. A conferirle, infine, l’attuale aspetto barocco furono gli interventi di restauro risalenti alla fine del Seicento condotti dall’architetto Arcangelo Guglielmelli.

Lungo la navata destra, invece, è la cappella del Tesoro di San Gennaro, appartenente non alla curia arcivescovile, ma alla città di Napoli che, rappresentata dalla Deputazione – un’antica istituzione civica – e dai Sedili di Napoli, ne volle la realizzazione. Infatti, nella prima metà del XVI secolo la città visse anni difficili caratterizzati da conflitti bellici, pestilenza ed eruzioni vulcaniche; per ottenere la liberazione dalle disgrazie, il popolo fece voto al santo protettore promettendogli di erigere una nuova cappella in suo onore all’interno del Duomo, in segno di devozione e riconoscimento. I lavori iniziarono l’8 giugno del 1608 sotto la direzione dell’architetto Francesco Grimaldi al quale successero, dopo la sua morte, Ceccardo Bernucci e ancora Giovan Giacomo di Conforto.

Superato il cancello monumentale in bronzo dorato, opera di Cosimo Fanzago, che ne delimita l’ingresso separandola dal Duomo, la cappella ospita, con il suo impianto a croce greca, opere d’arte di inestimabile valore. Tra queste spicca l’altare maggiore, opera di Francesco Solimena, che incornicia il paliotto d’argento raffigurante la Traslazione delle reliquie del santo da Monte Vergine a Napoli, dietro al quale sono collocate due nicchie che custodiscono le ampolle del sangue di San Gennaro; ancora dedicato al santo è il busto reliquario in oro e argento che, commissionato nel 1304 dal re Carlo II d’Angiò a tre maestri orafi, fu donato dallo stesso sovrano alla cappella e collocato davanti all’altare maggiore, sulla sinistra. Dietro l’altare, invece, primeggia il San Gennaro seduto, opera di Giuliano Finelli, allievo di Gian Lorenzo Bernini, che dal centro sembra dirigere le altre diciannove sculture bronzee che contornano la cappella.

Sullo stesso lato della cappella del Tesoro di San Gennaro, nella zona del transetto, troviamo un’altra cappella dedicata alla Madonna dell’Assunta, di particolare interesse in quanto custode di un dipinto – una pala nella fattispecie – opera di Pietro Vannucci, il Perugino, e risalente al 1508-1509. Commissionata da Oliviero Carafa, la pala dell’Assunta era originariamente collocata sull’altare maggiore della chiesa – poi spostata per lasciare spazio all’opera del Bracci, ancora oggi presente –, e raffigura l’assunzione di Maria in cielo.

Tornando nell’ambiente principale del Duomo e percorrendo la navata centrale, poco dopo l’ingresso sulla sinistra è situata una grande acquasantiera, fatta realizzare a spese del cardinale Carafa. Attraverso dei gradini in marmo si raggiunge il battistero sormontato da due statuette in bronzo rappresentanti il battesimo di Gesù. Il battistero è coperto da una piccola cupola, anch’essa in marmo, sorretta da quattro colonne in diaspro verde e capitelli corinzi in bronzo.

Continuando a percorrere la navata centrale, giunti sotto l’ultima arcata prima del transetto, ci si imbatte nelle due cantorie lignee barocche sulle quali sono disposti due dei tre corpi costituenti l’organo maggiore della chiesa. Questi furono realizzati, uno di fronte all’altro, nel 1767 come due corpi gemelli in legno dorato e intagliato proprio per ospitare l’originale organo della chiesa. Quello che vediamo oggi, però, è un nuovo organo a trasmissione elettrica risalente al 1961 e costruito dai fratelli Ruffatti che, accanto ai due elementi che occupano le antiche casse lungo la navata, aggiunsero un terzo elemento, situato nel lato destro del transetto, che completa così la complessa articolazione dell’organo maggiore. Sotto le due casse lignee, poi, sono un pulpito barocco, sul lato destro, attribuito ad Annibale Caccavello, recante nella parte alta la raffigurazione della Predicazione di Gesù, ed un baldacchino gotico, sul lato opposto, risalente agli ultimi anni del Trecento.

Ad impreziosire ancora la chiesa, in controfacciata, i sepolcri di Carlo I d’Angiò, Carlo Martello d’Angiò e di sua moglie Clemenza d’Asburgo, opera di Domenico Fontana e risalenti al 1599. Chiude, infine, la navata centrale l’abside, più volte danneggiato dal susseguirsi degli eventi sismici che negli anni hanno colpito la città e quindi rimaneggiato. Quello che vediamo oggi è il risultato di numerosi interventi, anche di restauro, che a partire dalla seconda metà del Quattrocento hanno modificato l’originale aspetto gotico dell’abside. Gli eventi che comportarono le sue più importanti modifiche furono, però, il ritrovamento delle reliquie di San Gennaro presso il Santuario di Montevergine (1480) e la successiva realizzazione di una cappella per accoglierle (1497), proprio al di sotto dell’abside; lo spostamento della pala dell’Assunta per far posto al complesso scultoreo di Pietro Bracci raffigurante l’Assunta in gloria d’angeli; gli interventi commissionati all’architetto Paolo Posi (1741) che con un progetto di rifacimento dell’abside ne cambiò definitivamente l’aspetto. Egli, infatti, estese il presbiterio fino al centro del transetto e creò un piano intermedio tra quest’ultimo e la tribuna absidale. Frontalmente al transetto il Posi accostò quattro gradini mentre, per accedere al Succorpo, ridisegnò le due rampe esistenti cambiandone l’andamento. Il coro ligneo, prima posto al centro della navata centrale, fu accostato alle pareti del vano absidale. Il cambiamento più importante, però, si ebbe nella copertura dell’abside: la volta ad ombrello in pietra preesistente fu sostituita con una finta volta incannicciata per far fronte alle ormai insostenibili spinte della volta in muratura sulle pareti perimetrali dell’abside. Nel XIX secolo, poi, il vano absidale fu ancora protagonista di interventi. In particolare, nel 1969 fu sostituita nuovamente la copertura su progetto di Roberto Di Stefano: i costoloni a sezione scatolare in lamiera saldata della nuova struttura corrispondevano ognuno ad una nervatura della volta gotica e poggiavano su un cordolo posto alla sommità dell’abside.

Al centro dell’abside, infine, è collocato l’altare moderno in marmo, consacrato nel 2012, decorato con due bassorilievi raffiguranti il Cristo risorto e la Deposizione di San Gennaro. Dietro l’altare è, infine, l’Assunta, la scultura del Bracci.

Sotto l’altare maggiore, tramite due rampe che portano ad una quota inferiore, in corrispondenza dell’abside a 2,40 metri sotto il livello della tribuna, è possibile accedere al Succorpo, la cappella realizzata nel 1497 per volere del cardinale Oliviero Carafa per accogliere le reliquie del Santo patrono già trasferite a Napoli dal Santuario di Montevergine ed inizialmente collocate sull’altare maggiore. Ricavare lo spazio ipogeo non fu impresa facile, tanto che per raggiungere l’altezza ideale dell’ambiente – non potendola ottenere dal solo scavo che avrebbe notevolmente indebolito le fondamenta della chiesa soprastante – si decise di sopraelevare di cinque piani il pavimento della tribuna del duomo. I lavori per la realizzazione del Succorpo, come accennato, furono talmente incisivi da rappresentare una delle maggiori alterazioni nell’impianto strutturale del duomo. Al tempo stesso, però, l’abilità del progettista nel coniugare aspetti strutturali e formali fu tale da lasciare ipotizzare che l’artefice dell’opera potesse essere una personalità come quella di Donato Bramante, attivo a Napoli in quello stesso anno. La tesi, avanzata per la prima volta da Roberto Pane, è stata poi ripresa da Roberto Di Stefano durante i lavori condotti tra il 1969 e il 1972.

La cripta presenta una pianta rettangolare, di dodici metri per nove, suddivisa in tre navate da dieci colonne alle quali corrispondono, lateralmente, altrettanti altari. La piccola cappella, sormontata da una altrettanto piccola cupola, accoglie le reliquie del corpo di San Gennaro e, in posizione di adorazione, davanti alla cappella nella navata centrale è posizionata la statua del cardinale Carafa. Tutto l’ambiente è rivestito in marmo compreso il soffitto. La struttura della copertura della cappella doveva contrastare il peso della tribuna soprastante ma, al tempo stesso, avere uno spessore molto contenuto. Per questi motivi, fu ideato un sistema di voltine a vela a sesto ribassato che scaricava il peso sulle colonne; tale struttura è stata poi mascherata da un soffitto suddiviso in diciotto cassettoni decorati con altorilievi rappresentanti figure di santi e quattro teste di cherubini, attribuiti allo scultore Tommaso Malvito.

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