Pio Monte della Misericordia

Il Pio Monte della Misericordia di Napoli

Di Emanuele Taranto

Il Monte di Misericordia, nato in seno a uno dei massimi valori che espresse la città di Napoli vide la luce agli albori del Seicento, allorquando in una società tormentata da epidemie e miserie sette giovani aristocratici, prefiggendosi il compimento delle opere di misericordia, dedicarono la propria esistenza all’aiuto dei bisognosi, e oggi a distanza di quattrocento anni il Pio Monte è ancora lì a esercitare e sostenere iniziative filantropiche e solidali.

Nell’alveo dunque della realtà assistenziale, imperante nella capitale del viceregno spagnolo, affonda le sue radici la storia del sacro Monte delle Sette Opere di Misericordia. È nel perseguire quel massimo sentimento di pietas che altrettanti «sette Gentil’uomini Napolitani»[1] vollero costituire all’alba del 1601 un monte. I primi episodi legati alla sua istituzione ebbero invero il loro principio nell’Ospedale degli Incurabili (fondato da Maria Longo nel 1521), la «scuola delle umane miserie»[2] dove ogni venerdì Cesare Sersale, Giovan Andrea Gambacorta, Girolami Lagni, Astorgio Agnese, Giovan Battista D’Alessandro, Giovan Vincenzo Piscicello e Giovan Battista Manzo andavano a servire gli infermi. Nomi che tutt’oggi ritroviamo incisi a suggellarne la memoria sulla lapide nel maestoso vestibolo d’ingresso. Di qui nel solco di questo simbolico atto e mossi da spirito caritativo, i sette vollero dar seguito a un’opera «per tirare altri alla via di Dio»[3], sicché uno di essi sarebbe andato ogni mese per le strade di Napoli a elemosinare aiuto in nome del sostegno ai malati.

L’aneddoto storico fondativo del Pio Monte rimane inscindibilmente legato ai trentatré carlini, primo e degno capitale, «uguale nel numero agli anni del Redentore»[4], che furono raccolti dalla cassetta di Cesare Sersale, primo mensario del sodalizio, nonché colui che inaugurò tale pratica il terzo venerdì dell’agosto 1601. Quanto più crebbe «di merito l’opera, tanto più colle sue trombe la fama ne pubblicava le glorie»[5] e di lì a pochi mesi tale risonanza ne moltiplicò il numero dei membri e grazie alle cui offerte, il 19 aprile del 1602 fu finalmente possibile instituire un Monte che potesse esercitare non soltanto una, ma tutte e sette le opere di Misericordia (Matteo XXV, 25,34). L’esercizio delle stesse fu poi solennemente sancito con missiva datata 10 luglio 1604, dal viceré Alfonso Pimentel di Errera conte di Benavente e a sua volta dal Regio Assenso del re Filippo III, sotto forma dell’esclusivo Privilegium[6]. Seguì infine il placet del 15 novembre del 1605 da parte del pontefice Paolo V, il quale plaudendo la nuova pia istituzione la assoggettò alla giurisdizione della Santa Sede Apostolica[7], e non a quella ordinaria per effetto del Concilio Tridentino[8]. L’approvazione avvenne per mezzo del sigillo papale emesso dalla Cancelleria Pontificia, un atto del tutto inusuale per una confraternita laicale.

Ciascuno dei sette giovani nobili, secondo un criterio di anzianità era assegnatario del governo di un’opera. Al più giovane veniva demandata la visita agli infermi, e in successione d’età: seppellire i morti, visitare i carcerati, riscattare i cattivi, il quinto andava in soccorso dei ‘vergognosi’ ovverosia curava quelle azioni «di dare da mangiare agli affamati, bere agl’assetati, e vestire l’ignudi»[9], il sesto offriva ospitalità ai pellegrini, e in ultimo il più anziano era custode e amministratore del patrimonio economico. Essi conservavano la carica di governatore tre anni e mezzo, superati i quali non potevano essere rieletti se non per esplicito volere della Giunta, dopo altri tre anni; in ogni caso potevano talora dopo sei mesi passare alla gestione di un’altra opera. Le donne infine potevano essere aggregate al sodalizio in qualità di benefattrici del Monte, previa richiesta all’adunanza dei sette che si teneva due volte a settimana.

In principio gli ‘uffici’ del Monte ebbero la loro temporanea sistemazione presso alcune stanze dell’Ospedale degli Incurabili, per essere quindi dislocati nel 1606 nell’odierna sede dall’eminente ubicazione. Siamo su via dei Tribunali, il maggiore dei tre plateiai che conformavano l’antico nucleo greco della città, a pochi passi dal foro romano, già agorà greca, e dal suo Macellum, nell’attuale complesso di San Lorenzo Maggiore. A impreziosire notevolmente la facciata del Pio Monte, si erge inoltre antistante la pregevole e più antica guglia cittadina dedicata a San Gennaro, progettata da Cosimo Fanzago (1636-60). Siamo infatti nelle immediate adiacenze della massima chiesa napoletana, il cui ingresso laterale segna piazza Riario Sforza, lo slargo prospiciente proprio il portico della Misericordia.

Il «copioso e ordinatissimo archivio» ancora oggi diligentemente custodito nei suoi locali, oltre che darci contezza nei secoli sullo stato dell’arte interno alla fabbrica, ricalca le vicissitudini storiche susseguitesi dalla sua fondazione ai successivi ampliamenti. Si arguisce dai Libri di fabrica come sia stato l’architetto Francesco Antonio Picchiatti il principale artefice dell’odierna facies dell’edificio, ma prima di questi fu Giovan Giacomo di Conforto, in qualità di ingegnere ordinario del Monte, il primo interprete della composizione tipologico-insulare fra il 1605 e 1608. Il Conforto in un totale riassetto e riadeguamento funzionale delle precedenti residenze, detterà pertanto la primitiva disposizione spaziale dei suoi volumi, affiancando in tal caso una chiesa alla corte interna, baricentro su cui condenserà la vita congregativa e in cui trovano affaccio le stanze di associazione. Il primo edificio fu infatti innalzato dall’architetto in luogo delle case della famiglia Tomacelli e del Marchese della Gioiosa (dall’antico toponimo del Pallonetto di Santa Chiara) comprese fra vicolo Zuroli e quello dei Carboni (poi Carbonari), acquistate entrambe nel 1604 al prezzo di 6.530 ducati. Ricavata dal Conforto la chiesa, poi intitolata a ‘Nostra Signora della Misericordia, i governatori commissionarono appositamente per il suo altare maggiore la celeberrima tela a Michelangelo Merisi da Caravaggio, e la cui fede di credito datata 9 gennaio 1607, con cui sarà pagato di 400 ducati dal Monte, è tuttora conservata presso i registri del limitrofo archivio storico del Banco di Napoli, già Palazzo Ricca.

Tra le figure più interessanti e legata all’amministrazione ordinaria della Casa emerge il cosiddetto Segretario, o anche il «Maestro di casa»[10]. Subordinato ai governatori, sarà questi ad assistere tutte le attività minori del Monte, come pure sarà suo obbligo in relazione ai vari stabili della confraternita, ottemperare a tutte «le accomodazioni, riparazioni, e ogni altra cosa bisognevole»[11]. Delegato sia per Napoli che per le ulteriori sedi distaccate della congregazione, era colui con il quale infatti si interfacciavano gli architetti e le maestranze per i motivi più vari, dalla ricerca dei materiali da adoperare, fino alla rendicontazione delle semplici attività manutentive.

Da distinguersi rispetto al Maestro di Casa è invece la persona dell’Ingegnere ordinario del Monte, incarico regolamentato dallo statuto del 1777. Rivestiranno fra gli altri tale ruolo sia il Conforto che il Picchiatti, una guida necessaria per una «Casa così ricca, di edifizj, e di stabili» e preposta alla realizzazione di «tutti gli accessi, disegni, misure, piante, relazioni, ed apprezzi, che occorreranno in tutti gli stabili del Monte, [e parimenti al Maestro di Casa] così dentro come fuori di Napoli»[12], con particolare attenzione alle attività portate avanti nell’Ospedale degli Incurabili e alla causa ischitana. Tra le tante ramificazioni dell’Opera annoveriamo difatti l’edificazione dell’istituto termale a Casamicciola di Ischia per curare i sofferenti grazie alle acque vulcanico-terapeutiche affioranti in loco[13], un ospedale e un oratorio presso il carcere della Vicaria così da poter pregare insieme ai reclusi, e a seguire nel tempo avremo anche sotto la gerenza del Monte un asilo infantile a Bacoli, una casa di riposo per anziani e un seminario per i nobili guidato dai Padri Gesuiti. Proprio a questi ultimi il pio sodalizio donò in origine un terreno sul quale venne poi edificato la Chiesa di San Carminiello al Mercato.

Ebbene la fama del Monte in pochi decenni crebbe a tal punto che le ridotte dimensioni del progetto confortiano per la Casa Madre napoletana risultarono presto inadeguate, talché i governatori in nome dell’allora Segretario Michele Blanch, marchese di San Giovanni, decretarono l’ampliamento del complesso e investirono dell’incarico Francesco Antonio Picchiatti, ingegnere ordinario del Monte, nonché di lì a poco in carica come massimo ingegnere del Regno (1656, succedendo a Onorio Antonio Gisolfo). Mutate dunque le esigenze congregative, le intenzioni dei congregati era ambiziose, saranno indi acquistate il 16 ottobre 1651 ulteriori due case tra vico Zuroli e vico Carbonari, e ancora una terza dal Principe di Ruoti. In quest’ultimo caso unitamente alla contigua cappella degli Agozzini della Vicaria, il cui ottenimento non comportò però alcuna spesa dacché fu fatta riedificare nel vicino vicolo di Santa Maria ad Agnone. Tutto questo «al fine di creare tutta una insula dedicata al Monte, Casa, cortile e Chiesa con atrio». Il Picchiatti, scrive il De Dominici, conosciuto dal volgo anche con l’appellativo di Ciccio Picchiatti, o più frequentemente Picchetti, indugiò tuttavia fino al 9 novembre 1658 per l’ultimazione del disegno progettuale e la successiva posa della prima pietra, ma in ogni caso si profilerà come uno degli edifici più monumentali del Seicento napoletano.

L’architetto impose per la fabbrica uno sviluppo in alzato su tre livelli, contrassegnando il pianterreno di un grande loggiato d’ingresso rivestito da piperno a scandire con le sue arcate, l’euritmia delle cinque campate configuranti il prospetto ed è unitariamente conformato a uno stile sobrio e classicheggiante, in linea con il linguaggio stilistico dell’autore. Il portico rappresenta oltre che un’espediente circostanziale dell’Ingegnere Regio, fungendo da diaframma tra il caos del decumano maior e gli ambienti comunitari, anche il tema compositivo che ribadisce il carattere laico dell’edificio. Viene ad essere infatti totalmente celata in facciata e nei prospetti laterali, la presenza della retrostante chiesa, come altresì non viene denunciato all’interno della loggia l’accesso alla stessa, che si confonde a guisa dell’entrata al cortile interno, come a voler rimarcare il modello di un palazzo gentilizio, plausibilmente per volontà dei governatori stessi. I sette archi del portico (cinque sul fronte strada, e uno su ciascuno dei due prospetti laterali) presentano pilastri ornati di capitelli ionici ridisegnati secondo la nota invenzione del Buonarroti, ossia con il festone di drappo pendente al centro e appeso alle volute. L’epigrafe del fregio marmoreo reca il motto dell’Opera, tratto dal versetto d’Isaia (2,2): Fluent ad eum omnes gentes (“concorrono ad esso tutte le genti”, chiaro rinvio alla natura assistenziale del Monte). Entrando nel porticato vediamo oggi come allora, arricchire la parete due rilevanti nicchie colmate da peculiari statue all’estremità destra e sinistra, centralmente invece ammiriamo un’edicola mariana dalla raffinata composizione barocca. Le arcate intermedie assolvo ambedue una funzione di ingresso, quella di sinistra conduce al cortile interno, mentre a destra abbiamo la porta di accesso alla chiesa.

Si delinea in facciata una soluzione compositiva su tre registri, con sovrapposizione degli ordini. Di qui, correlate allo ionico suaccennato del piano terra, registriamo le lesene corinzie e composite rispettivamente al piano nobile e al secondo, modellate su di un rarissimo fondo in stucco non liscio ma striato. Ornamento accentuato nel movimentato addobbo a contornare le aperture dei balconi, una plasticità che al primo piano si aggiunge al ricercato disegno della cornice in piperno architravata. I due piani superiori mostrano inoltre al primo livello, una lunga unica balconata e corrispondente alle sale della Quadreria, mentre al secondo in cinque settori di lesene sono ritmati da altrettanti balconi.

Grazie alla conservazione dei Libri di fabrica siamo in aggiunta a conoscenza delle maestranze che lavorarono alla facciata. Figurano tra gli autori: Michelangelo Rapi intagliatore dei capitelli ionici basamentali; Salomone Rapi e Pietro Pelliccia furono coloro che realizzarono e apposero le ventidue lettere in marmo a coronare il fregio del portico; sempre il Pelliccia sarà protagonista dell’esecuzione dei capitelli corinzi e compositi ai registri superiori, come pure lavorò, insieme al lapicida Pietro Valentino, nel plasmare quell’accentuazione dinamica della cornice in piperno anzidetta che distingue i sette balconi del piano nobile; infine fra gli attori principi troviamo lo scultore Andrea Falcone che modellò l’apparato ornamentale barocco in cui sono inscritte le porte del cortile, insieme all'imponente scalinata ma nettamente più sobria, quello della chiesa con le sue statue e globalmente del loggiato[14].

La resa dei capitelli lapidei di Michelangelo Rapi sarà tuttavia parzialmente disapprovata nei secoli avvenire, poiché dalla consistenza materiale troppo esile e non destinata a resistere. Già nel 1763 i due architetti Mario Gioffredo e Luca Vecchione che rimaneggiarono il complesso, riposero in opera quattro capitelli ionici frantumatisi, e nuovamente nell’intervento restaurativo del 1879 affidato all’architetto e archeologo Michele Ruggiero. Tutt’oggi constatiamo il degrado dei capitelli dell’ordine basamentale, lacunosi in più parti.

Facendo ritorno al loggiato su via Tribunali, tema discusso è la paternità delle statue collocate nelle due nicchie delle ultime campate. Ambiziose erano in tal caso le iniziali mire del sodalizio, volendo commissionare l’opera scultorea all’ormai troppo celebre Gian Lorenzo Bernini, come attesta la missiva del 1660 che il Principe di Cellammare indirizzò da Roma al Vescovo di Bisaccia e Sant’Angelo, riferendo qui l’indisponibilità del maestro ormai oberato da molti e più grandi incarichi. La scelta virò sull’emergente Ercole Ferrata, già allievo del maestro Algardi fra i massimi scultori della scuola romana, il quale godeva di grande rinomanza alla stregua del Bernini. Ciononostante, non è ben chiaro come a distanza di sei anni sarà deputato della realizzazione delle statue l’anonimo Andrea Falcone, nipote di Agnello Falcone che già servì il monte in diversi dipinti. Probabilmente proprio a causa della sua scarsa reputazione gli fu imposto dai governatori l’esatto disegno delle opere, questo inoltre prefigurato per mano del Picchiatti. Successivamente doveva sopraintendere i lavori di scolpitura Cosimo Fanzago che, come si legge da rogito datato 1666, intervenne per fare «disegni, pensieri e modelli»[15] e per cui furono prefissati 200 ducati da pagarsi, a fronte dei 1.200 spettanti al Falcone suo reale esecutore. Al bergamasco saranno ad ogni modo corrisposti soltanto 40 ducati, non avendo in effetti per nulla affiancato lo scultore durante la lavorazione delle statue. La restituzione finale rimaneva per Falcone nondimeno ardua, avendo dovuto il Picchiatti concentrare in sole due soluzioni marmoree, l’interpretazione allegorica delle sette opere di misericordia di cui il Monte è espressione.

Proseguendo dal portico alla corte interna, rappresentativo come per ogni compagine il fulcro ‘formale’ e della vita comunitaria, qui il Regio Ingegnere sarà l’ideatore altresì della grande scala a servire gli ‘uffici’ del Monte fino al secondo piano, in cui traspare un disegno dall’impaginato decisamente equilibrato. Ben più ricercato ed elegante è lo studio compositivo del preminente compito che impegnò il Picchiatti all’interno della fabbrica, ossia la ricostruzione della nuova chiesa che sostituisce la precedente di dimensioni minori del Conforto. Domina la sua conformazione architettonica un’impostazione planimetrica centrale ottagonale, in cui per di più gli otto angoli sono nascosti da altrettante ampie lesene di ordine composito, singolarissime queste, giacché si mostrano senza piedistallo e sospese su di una mensola floreale. La loro larghezza non fa altro che pronunciare fortemente la circolarità dell’invaso, sia in pianta che in alzato; le stesse lesene infatti si prolungano fino all’intradosso della cupola, tramutandosi negli otto costoloni a sesto acuto che culminano nella piccola lanterna. Il simbolico bagliore dell’oculo sommitale viene ad essere notevolmente intensificato, da uno dei due ordini di finestre che forano la calotta della cupola, mentre quello inferiore, che appare cieco, denota un ristretto tamburo.

Degli otto lati poi ne evidenziano quattro maggiori a formare una croce greca, in corrispondenza dell’asse di accesso, e in cui sono presenti tre cappelloni (il quarto lato è l’entrata) che raggiungono la cornice della tribuna; di converso, seguono quattro lati minori in subordine, dalle cappelle più esigue e sovrastate da balconate balaustrate raggiungibili da scalette ricavate alle loro spalle. Ascriviamo ad Andrea Falcone e congiuntamente al marmoraro Andrea Pelliccia, la realizzazione del lessico decorativo interno alla chiesa, e particolarmente in un singolo motivo che si ripete minuzioso nei balaustri del primo registro, specificatamente nei ricchi paliotti degli altari, e nel secondo con le balconate. Lo stemma ai piedi dell’altare maggiore è quello rappresentativo dei sette monti su cui campeggia la croce.

L’intera configurazione interna si contraddistingue di una tenue bicromia, effetto dei marmi bianchi accostati al grigio degli articolati ornamenti parietali, estesi uniformemente fino alla cupola. Esemplare la dissonanza policroma di marmi commessi che è lasciata agli altari e alla straordinaria composizione pavimentale a raggiera (in marmo e cotto), dal cui simbolico centro si dipartono otto fasci di una sorgente luminosa ideale a irradiare emblematicamente l’ottagono. Una codificazione di geometrie centrali che richiama gli altari radialmente disposti, in un astratto ricongiungimento degli estremi con il loro baricentro compositivo e da cui, infine, ci si eleva all’acme luminescente della cupola, coronata dall’apicale lanterna. Un luogo dove mirabilmente coesistono e si confrontano la formazione classicista del Picchiatti e il successivo estro barocco.

Sarà su precisa indicazione dei governatori che nella chiesa, oltre quello maggiore, furono innalzati gli altri sei altari adornati dalla sistemazione di altrettanti grandiosi dipinti, espressivi questi delle opere di Misericordia, e possiamo apprezzare da sinistra: la Liberazione di San Pietro di Battistello Caracciolo (1615); la Deposizione della Croce di Luca Giordano (1671); San Pietro che resuscita tibitha di Fabrizio Santafede (1611); Il Buon Samaritano di Giovan Vincenzo Forlì (1607); Cristo ospitato in casa di Marta e Maria ancora di Fabrizio Santafede (1612); San Paolino che libera lo schiavo di Giovan Bernardo Azzolino (1626 ca.); conclude in controfacciata Cristo e l’adultera di Luca Giordano (1660 ca.), e ancora un organo barocco di pregevole fattura di legno intarsiato e dipinto d’oro nel soprastante coretto, che permette così di presenziare alle funzioni anche dal piano nobile. Ai lati invece del capolavoro del Merisi troviamo infine la Vergine della Purità a opera di Andrea Malinconico (1670 ca.) e Sant’Anna di Giacomo De Castro (1665 ca.). Nota di rilievo in relazione agli ultimi quadri è l’approssimativo ‘restauro’ patito tra il 1848 e il 1850 e a opera da Agnello D’Aloisio, del quale francamente poi si dirà: «non altro aveva di pittore che il nome e i pennelli»[16]. Le tele più antiche dovettero verosimilmente decorare la precedente chiesa del Conforto per essere quindi riposizionate nella nuova.

La fabbrica fu sotto la direzione del Picchiatti per ben un ventennio. La prima attestazione è quella del 9 novembre 1658, data in cui l’architetto ultimò il disegno di progetto e di qui prontamente pagato di 80 ducati annui, beninteso esclusa la manutenzione di cui era responsabile in qualità di ingegnere ordinario del Monte. L’ultima corresponsione documentata è quella datata 23 febbraio 1678 (vivrà ancora 16 anni), e da qui non ci è dato sapere la motivazione per cui gli amministratori conferirono i lavori di prosecuzione del cantiere, nel novembre dello stesso anno, a Bonaventura Presti. Questi cionondimeno non completò la sistemazione del cortile, rimasto oggi parzialmente inconcluso.

Per arrivare ai successivi interventi restaurativi succitati, quello settecentesco di Mario Gioffredo e Luca Vecchione e il seguente ottocentesco assegnato a Michele Ruggiero. L’ultimo restauro però in ordine di tempo ci rinvia ai primissimi anni del nuovo millennio, è stato infatti completato in occasione del quarto centenario della fondazione dell’ente. Momento in cui veniva insieme riaperta la Pinacoteca del Monte (31 maggio del 2003) chiusa all’indomani del terremoto del 1980, che comportò seri danni al complesso, segnatamente alla facciata di via dei Tribunali e alla cupola della chiesa. Un’intensa e complessa compagna conservativa volta al consolidamento strutturale e a rendere antisismico l’edificio, insieme a interventi secondari come l’eliminazione delle superfetazioni addossatesi al terzo piano durante il XX secolo. Spiccano inoltre le azioni a protezione dei prospetti del cortile interno, come pure della facciata che presenta l’accennato intonaco rigato voluto dal Picchiatti, lì dove le incisioni parallele verticali giocano con la luce, in un effetto dall’esito animato e cangiante a seconda delle ore diurne.

Per la prima volta veniva quindi aperta al pubblico la Quadreria che è custodita al piano nobile, anch’essa ugualmente oggetto di intervento, nella fattispecie in un’invasiva sostituzione del pavimento. La preziosa raccolta non è che il risultato di donazioni e lasciti testamentari, che sin dal 1622 hanno contribuito alla ricchezza oltre che finanziaria, anche artistica della Misericordia. Sennonché nel più dei casi la loro donazione era in realtà condizionata a una futura vendita, al fine di foraggiare le innumerevoli opere caritatevoli prefisse dal Monte. Esclusi tuttavia i 78 dipinti venduti fra il 1845-1846, il patrimonio pittorico della Pinacoteca è rimasto sostanzialmente indenne nei secoli. Fortunatamente, infatti, i governatori hanno sin da subito colto il valore testimoniale e il portato intellettuale di questo grande capitale sociale, mostrandosi restii alla loro vendita per meri fini di lucro e oggi, dunque, possiamo ammirare quanto si è prodotto a Napoli in quattrocento anni di storia.

Un corpus pittorico che al suo interno si suddivide di tre grandi collezioni: la prima direttamente commissionata dal Monte per la chiesa agli stessi artisti; le opere ereditate dal pittore Francesco De Mura; e la più numerosa che trae origine dalla donazione di Maria Sofia Capece Galeota. Quella di De Mura con le sue 41 tele, conservate presso la Quadreria, rappresenta una preziosa conoscenza dell’evoluzione di un’artista che sarà presente oltre che in numerose chiese napoletane, anche presso le corti reali di Napoli, Torino e Madrid. Su tutti, capeggiano gli studi per l’Abbazia di Montecassino unica testimonianza dopo la perdita degli affreschi del 1944. L’ultimo nucleo è invece frutto di un lascito del 1933 per mano del barone Giuseppe Carelli, che lasciò alla Misericordia tutte le sue sostanze, che includevano inoltre 31 dipinti. Nel novero rientrano eccezionali tele, capolavori indiscussi del Cinque e Seicento. Menzioniamo al riguardo l’Autoritratto di Luca Giordano, La Sacra famiglia con Santa Lucia di Fabrizio Santafede, la Pietà di Andrea Vaccaro; chiudono due rari esempi di grandi ritratti ufficiali equestri di Carlo e Leonardo di Toco, personaggi in di rilievo presso la corte vicereale.

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[1] Istruzioni per lo governo del Monte della Misericordia, cavate dalli primi Statuti ... da D. Gaetano Ape, Napoli, Stamperie di F. Mosca 1705, Introduzione.

[2] Ibidem.

[3] Ibidem.

[4] Ibidem.

[5] Ibidem.

[6] Vidimato all’interno delle Capitolazioni del Monte dal notaio Aniello Auricola nel 1603.

[7] Istruzioni per lo governo del Monte della Misericordia, dipendenti da primitivi statuti relativi alla fondazione del Monte istesso ... dal Rev. D. Antonio Venuto, Napoli, Stampatore G. Migliaccio 1777, p. 3.

[8] Istruzioni ... da D. Gaetano Ape, 1705, op. cit., Istruzioni. Per lo Governo del Monte e delle sette opere della Misericordia, Parte Prima.

[9] Ivi, Parte quarta.

[10] Ivi, Del Governo del Patrimonio del Monte, Parte Seconda.

[11] Ivi, Capitolo III, Maestro di Casa, e suoi pesi.

[12] Istruzioni ... dal Rev. D. Antonio Venuto, 1777, op. cit., p. 218.

[13] Delle proprietà benefiche delle acque vulcaniche ischitane ci dà conto già nel 1588 medico di corte Giulio Jasolino nella sua opera De Rimedi Naturali che Sono nell'Isola di Pithecusa, Hoggi Detta Ischia

[14] M. Ruggiero, II Monte della misericordia: l’edifizio, in «Napoli nobilissima», vol.  XI 1902 (Pubblicazione postuma e proveniente dagli Atti della Real Accademia di archeologia, lettere e belle arti), pp. 7-10.

[15] Ivi, p. 9.

[16] Ivi, p. 10.