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Donnaregina trecentesca

Agli albori del Restauro italiano del Novecento. L'intervento di Gino Chierici nella chiesa trecentesca di Donnaregina a Napoli

4 Novembre 2021

Contributo per convenzione Scabec su via Duomo

Responsabile scientifico: prof. Alessandro Castagnaro

Agli albori del Restauro italiano del Novecento. L'intervento di Gino Chierici nella chiesa trecentesca di Donnaregina a Napoli

di Renata Picone

L’insula di Donnaregina occupa una vasta area a nord est di via Duomo, ai margini settentrionali del perimetro della città antica di Napoli. L’evoluzione del complesso, fatto di progressive aggiunte a partire dal XIV secolo, così come evidenziato nei saggi precedenti, subisce una rilevate battuta di arresto con l’ampliamento di via Duomo che porta alla demolizione di parte dell’antico convento e alla marginalizzazione del complesso che prima dell’ampliamento aveva un acceso diretto sul cardine “sventrato”.

Tali trasformazioni segnano profondamente la vita del monastero che già a partire nel Seicento aveva visto la parziale distruzione della chiesa trecentesca con la realizzazione della chiesa di Donnaregina “nuova” progettata da Giovanni Guarini.

La storia recente del complesso monastico inizia nel 1926 con l’intervento del soprintendente ai monumenti della Campania Gino Chierici che restaurando la chiesa trecentesca sancì la separazione tra questa e quella seicentesca. Il restauro di Chierici – un intervento paradigmatico per la storia del restauro architettonico, presentato alla Conferenza internazionale di Atene sul Restauro, nel 1931 – mirò a ripristinare la chiesa medievale nella sua configurazione originaria, persa durante secoli di abbandono e di usi inadeguati, senza eliminare le aggiunte di valore che l’edificio aveva acquisito durante la sua storia[1].

Nel maggio del 1928 Gino Chierici pone mano a quello che sarà, per sua stessa ammissione, il più importante intervento da lui progettato e diretto nel capoluogo campano. L’architetto senese era in quegli anni soprintendente all'arte medievale e moderna della Campania tra il 1924 e il 1935, si svolge in quegli anni, interessanti e fecondi per la storia della tutela, che vedono, sulla scorta di una più matura acquisizione delle teorie di Camilla Boito, il sorgere della necessità di dare oggettività agli interventi di restauro, una volta venute meno le certezze della ricostruzione stilistica di scuola francese.

La chiesa trecentesca di Donnaregina fu concepita, secondo il modello francese, ad aula unica coperta a capriate e conclusa da un'abside pentagonale con volta a crociera costolonata, preceduta da un modulo rettangolare, coperto anch'esso a crociera, i cui costoloni poggiano su mezze colonne intervallate da alte bifore: il tutto inquadrato dall'arco trionfale. L'architetto angioino, data la mancanza di spazio nell'abside o ai fianchi della navata, dispose il coro delle clarisse su un piano ammezzato che si arresta a circa un terzo dell'aula inferiore, suddivisa in tre navate e coperta con volte a crociera impostate su pilastri ottagoni in trachite di Pozzuoli. In questo modo si passa da uno spazio soppalcato, a uno a tutta altezza, dove è possibile scorgere per intero il grande arco maggiore e l'articolata scenografia dell'abside. Alla destra di quest'ultima si apre la cappella Loffredo, completamente affrescata.

Dopo soli sei anni dalla costruzione la chiesa si arricchì del sepolcro marmoreo di Maria d'Ungheria, sua fondatrice, fatto eseguire da Roberto d'Angiò al senese Tino da Camaino e al napoletano Gagliardo Primario.

Agli inizi del Cinquecento un soffitto a cassettoni riccamente intagliato fu posto al di sotto delle mensole di sostegno della capriata lignea, il che comportò la copertura di parte del ciclo superiore degli affreschi delle pareti del coro.

Con l’edificazione della nuova chiesa nel Seicento inizia il lento declino dell'antica chiesa e del monastero che, soppresso nel 1861, viene acquisito dal Comune. Quest'ultimo suddivide gli spazi del piano terra in tanti piccoli ambienti coincidenti con la scansione trasversale dei pilastri ottagoni della navata. Dal 1864 in poi la

chiesa viene utilizzata come caserma, scuola, alloggio per persone bisognose, sede della Corte d'Assise, della Commissione municipale per la conservazione dei monumenti, dell'Accademia Pontaniana e della Borsa del Lavoro: in quest'ultima occasione viene deturpato il ciclo di affreschi del coro con l'affissione di manifesti e targhe.

Il primo a denunciare tale stato di abbandono è Emile Bertaux che nel 1899 dedica una monografia alla chiesa e all'arte senese a Napoli nel XIV secolo, cui segue l'azione sensibilizzatrice della rivista «Napoli nobilissima»[2]; nonostante questi tentativi la chiesa resta in condizioni di totale degrado fino all'aprile del 1926, quando il Chierici la riceve in consegna dal Comune per poter effettuare studi e saggi preliminari.[3]

Già da una prima analisi emerge la necessità di opere oltremodo onerose e il sovrintendente, resosi conto di non poter gravare su fondi pubblici, si mette alla ricerca di un finanziamento privato, trovando nel Banco di Napoli un committente solerte e soprattutto in grado di poter sostenere eventuali variazioni della spesa.  Queste ultime sono da Chierici ritenute inevitabili in un'operazione di restauro: «come prevedere ciòche si deve fare ed il modo o la misura, quando ogni colpo di martello può rivelare una nuova necessità?»[4]. Torna qui il concetto di restauro come «progettazione aperta» che si realizza in cantiere a contatto con la fabbrica in cui sposta gli indirizzi teorici, non sono che norme generali da verificare caso per caso, facendosi guidare dal monumento sul quale si lavora: «Bisogna saperlo interrogare e se non risponde bisogna avere la forza di arrestarsi», evitando ogni completamento per analogia «che può allettare con le brillanti argomentazioni di un ragionamento pseudo scientifico».

La prima operazione condotta a Donnaregina consiste nella diagnosi dei dissesti esistenti, che rivela l'esistenza di cospicui cedimenti fondazionali derivanti dallo scivolamento del terreno di riporto su cui poggiano la parte sinistra dell'abside e quella sud-est della navata. Viene quindi condotto uno scavo armato fino alla quota di 10 metri al di sotto del piano di campagna, dove si trova un terreno più affidabile su cui impostare i nuovi pilastri di sottofondazione composti da laterizi e malta di cemento. Dopo aver ricostruito i contrafforti e lo spigolo lesionato si riaprono ed integrano nelle parti mancanti le bifore superstiti. Effettuando dei saggi nei muri trasversali del piano terreno vi si trovano incorporati una parte dei pilastri ottagoni di sostegno alle volte a crociera. Il Chierici decide allora di demolire i tramezzi costruiti dal Comune pochi anni addietro, ripristinando lo spazio della navata con i pilastri superstiti e quelli mancanti rifatti sul modello degli antichi, con la stessa trachite di Pozzuoli. Inoltre - ancora in contrasto con quanto affermato in premessa a proposito del completamento per analogia - rifà col sussidio delle tracce esistenti le finestrelle ad arco ribassato che servivano a illuminare la parte bassa della chiesa.

Ma il vero nodo concettuale e tecnico dell'intervento è la liberazione dell'abside trecentesca dal coro della contigua chiesa del Guarini: uno spazio rettangolare coperto con volta a padiglione ornato di stucchi dorati e di affreschi del Solimena. Dopo essersi a lungo interrogato, il soprintendente si convince che l'unica soluzione possibile per ripristinare la spazialità dell'abside è quella di ridurre il coro della chiesa barocca che la invadeva per un terzo della lunghezza. Per far ciò occorre trasportare altrove gli affreschi, demolire la volta a padiglione, ricostruirla, in forma ridotta, a crociera ed eliminare, su ciascun lato del coro, una delle tre finestre. Un'ulteriore difficoltà è poi rappresentata dal fatto che sulla parete di fondo dello spazio barocco, proprio quella che si incuneava nell' antica abside, vi era uno dei primi affreschi eseguiti dal Solimena il quale, giovane e inesperto, lo aveva ritoccato e ultimato con la tempera, il che rende - com'è noto - impossibile staccarlo col metodo dello strappo: non si può, quindi, ricorrere allo smontaggio e rimontaggio, ma occorre trasportare l'affresco con l'intera parete. Al di là delle notevoli difficoltà tecniche che questa soluzione presenta per l'epoca, la scelta di Chierici pone una serie di importanti perplessità di ordine teorico legate alla forte alterazione dello spazio seicentesco, che lo porta a chiedere al Consiglio superiore per le antichità e belle arti un parere sulla proposta avanzata e sui criteri da adottare. Il ministero incarica per un sopralluogo Gustavo Giovannoni, massima autorità dell'epoca nel campo del restauro. Non è noto l'esito della visita e se essa ha effettivamente avuto luogo, tuttavia, il progetto di Chierici viene integralmente approvato[5].

La parete affrescata che occorre arretrare è costituita da un tufo di pessima qualità con segni evidenti di schiacciamento e una grande lesione verticale: l'intonaco è in buona parte staccato dal paramento, le cui grandi dimensioni - circa sessanta metri quadri – rendono più difficile l'intervento. La prima operazione condotta consiste nel fissare le pitture con iniezioni adesive a base di caseina e gesso o calce; quindi si procede al fissaggio dei colori - necessario per l'applicazione di un in telaggio di tavole di legno sulla parte affrescata - e al consolidamento del muro, ridotto di spessore di oltre la metà. Viene realizzata una soletta di cemento armato aderente alla faccia posteriore del muro, resa solidale ad esso con ammorsature, e collegata al telaio in cemento che viene costruito lungo la linea periferica del quadro: in questo modo la parete risulta bloccata tra i due piani, uno di legno e l'altro di cemento. Si costruiscono sette muretti sui quali si pongono altrettante coppie di rotaie, che costituiscono i piani di scorrimento dei rulli di acciaio. Su questi si appoggiano sette travi di legno pich-pine di 14 metri di lunghezza, che vengono disposte al di sotto della parete affrescata racchiusa in un'armatura indeformabile di saettoni e croci di Sant' Andrea.

Dopo cinque mesi di lavoro preparatorio, liberato il muro dal resto dell'edificio, con due argani manovrati a mano, in quarantacinque minuti, esso viene spostato dal posto originario su un nuovo muro costruito a sei metri di distanza[6]. Quindi, demolite alcune fabbriche addossate all'esterno della chiesa, compaiono le fondazioni del tratto di abside distrutta, su cui viene impostata la ricostruzione delle pareti e dei contrafforti dell'elemento radiale. Ripristinata in tal modo l'immagine dell'abside trecentesca all'esterno, si passa all'interno, rifacendo i costoloni della volta sulla base delle sagome incise sulla faccia superiore degli abachi dei capitelli. Viene demolita quella parte di solaio costruita per prolungare il piano del coro - il che mette in luce gli archi a doppia ghiera che rappresentano la testata del coro trecentesco verso l'abside - e creata una nuova pavimentazione in coccio pesto, eseguita sulla base delle tracce rinvenute in prossimità dei pilastri e delle pareti. Il Chierici passa poi a interessarsi della cappella Loffredo: qui vengono rimessi in luce gli affreschi che ricoprivano integralmente le pareti interne, ripristinate le aperture sul chiostro e la finestra - una sorta di bifora sormontata da un occhio polilobato - che dà sulla chiesa. Circa l'esatto posizionamento del sepolcro marmoreo di Maria d'Ungheria nella chiesa, sulla base di attenti studi e misurazioni, egli arriva

- confutando la tesi del Bertaux - a fissarlo sul lato sinistro della navata, da dove sarebbe stato visibile anche dal coro superiore, e quindi decide di ricollocarlo in quel sito.

Effettuato l'intervento sulle parti architettoniche il soprintendente passa a coordinare i restauri del sepolcro stesso, del ciclo di affreschi del coro superiore e della cappella Loffredo: essi vengono materialmente eseguiti da tecnici specializzati, ma egli non rinunzia alla regia complessiva delle operazioni, entrando nel merito delle tecniche e dei criteri adottati, rivendicando giustamente a sé il fondamentale ruolo di responsabile e coordinatore dei molteplici aspetti insiti in ogni intervento. La chiesa di Donnaregina viene riaperta al culto nel novembre 1934, dopo sei anni di lavori ininterrotti, al termine dei quali il loro artefice può osservare con soddisfazione: nonostante la rigorosa cautela osservata nei ripristini e la regola scrupolosamente seguita di evitare qualsiasi aggiunta non ampiamente documentata, ed in ogni caso ristretta ad elementi che non richiedevano un'interpretazione stilistica, la chiesa dà l'impressione di una compiutezza quasi perfetta, grazie alla facilità con la quale si possono mentalmente colmare le lacune mercè l'ausilio dei molti frammenti decorativi scoperti e conservati al loro posto[7].

A partire dalla separazione, le due chiese vissero vite parallele, ma soggette a uno stesso destino in occasione della Seconda Guerra mondiale e del terremoto dell’Irpinia del 1980 che in entrambi i casi portarono numerosi danni alle strutture e richiesero importanti interventi di restauro.

A seguito della remissione dai danni bellici, la chiesa trecentesca divenne sede della Scuola di specializzazione in Beni architettonici e del paesaggio nel 1975, che ha garantito, grazie a una sostanziale continuità d’uso, la necessaria manutenzione all’intero complesso.

Bibliografia essenziale

- É. Bertaux, Gli affreschi di S. Maria di Donnaregina, in Napoli Nobilissima, Volume XV 1906, pp. 129-133.

- É. Bertaux, Santa Maria di Donna Regina e l’arte senese a Napoli nel secolo XIV, Napoli 1899.

- E. Carelli, S. Casiello, Santa Maria Donnaregina in Napoli, Napoli 1975.

- S. Casiello, Restauri a Napoli nei primi decenni del Novecento, in «Restauro», nn. 68-69, luglio-ottobre 1983, p. 32.

- S. Casiello, La cultura del restauro a Napoli tra la fine del sec. XIX e l'inizio del XX e l'influenza del pensiero di Giovannoni in Id., Restauri a Napoli nei primi decenni del Novecento, cit., pp. 7-30.

- G. Chierici, Il restauro dei monumenti, in Atti del III Congresso di Storia dell'architettura, Roma 1940, p. 331.

AA.vv., Studi in memoria di Gino Chierici, a cura della Società di Storia Patria di Terra di Lavoro, Caserta 1965.

- G. Chierici, I monumenti della Campania. Relazione sui nuovi restauri, in «Napoli. Rivista municipale», a. LVIII, nn. 1-2, gennaio-febbraio 1932, p. m.

- G. Chierici, Il restauro della Chiesa di S. Maria di Donnaregina a Napoli, Napoli 1934.

- G. Chierici, Il trasporto degli affreschi del Solimena in S. Maria Donnaregina, «Bollettino d'Arte», III, 12,

1933, pp. 560-565.

- G. De Angelis d'Ossat, Due cari scomparsi, in «Palladio», voi. XI, n.s., fase. m-N, 1961, p. 187.

- G. Fiengo, Tutela e restauro dei monumenti in Campania. 1860-1900, Napoli 1993, passim.

- L. Galli, Il restauro nell'opera di Gino Chierici, Milano 1989.

- R.A. Genovese, La chiesa trecentesca di Donnaregina, Napoli 1993.

- G. Giovannoni, La conferenza internazionale di Atene pel restauro dei monumenti, in «Bollettino d'arte del Ministero dell'E.N.», fase. 1x, 1932, pp. 408-420.

- G. Giovannoni, Il restauro dei monumenti, in La tutela delle opere d'arte in Italia, Atti del r Convegno degli Ispettori Onorari dei monumenti e scavi, Roma 22-25 ottobre 1912, ivi 1913, e poi pubblicato in «Bollettino d'arte del ministero della P.I», nn. 1-2 gennaio-febbraio 1913.

- Don Ferrante, S. Maria di Donnaregina, in Napoli Nobilissima, Volume VIII 1899, pp. 65-68.

- R. Mormone, La chiesa trecentesca di Donnaregina, Napoli 1977.

- R. Picone, Restauri a Napoli tra le due guerre: l'opera di Gino Chierici. 1924-1935. In: S. Casiello (a cura di). La cultura del restauro. Teorie e fondatori. pp. 315-338, Marsilio Venezia 2005.

- A. Venditti, La chiesa di Santa Maria Donnaregina, in Il patrimonio architettonico dell’Ateneo Fridericiano, a cura di A. Fratta, 2 voll., Napoli 2004, I, pp. 173-199.

- Santa Maria Donnaregina, rubrica «Notizie ed osservazioni», in «Napoli nobilissima», n.s., voi. 1, fase. 1, 1920.

- F. Strazzullo, Architetti e ingegneri napoletani dal ‘500 al ‘700, Napoli 1969, p. 275.

 

[1]Noi abbiamo inteso compiere opera onesta e sincera di rivalutazione storica e artistica, lontana così dalla fredda concezione dei conservatori ad oltranza, i quali non ammettono neppure il ripristino di qualche tratto di cornice distrutto o di un paramento corroso, come dai pericolosi tentativi degli estetizzanti, che attraverso deduzioni ed analogie vorrebbero veder compiuti i monumenti in ogni loro parte. G. Chierici, Il restauro della chiesa di Santa Maria Donnaregina in Napoli, Napoli 1934, p.9. Cfr R. Picone, Restauri a Napoli tra le due guerre: l'opera di Gino Chierici. 1924-1935. In: S. Casiello (a cura di). La cultura del restauro. Teorie e fondatori. pp. 315-338, Marsilio Venezia 2005.

[2] Cfr. Santa Maria Donnaregina, rubrica «Notizie ed osservazioni», in «Napoli nobilissima», n.s., voi. 1, fase. 1, 1920.

[3] In realtà le vicende legate ai lavori in Donnaregina iniziano alcuni anni prima: già dal 1921 l'allora soprintendente Venè aveva ricevuto dalla Direzione generale Antichità e Belle Arti assicurazioni circa lo sgombero degli uffici municipali dalla chiesa e tre anni più tardi il Comune aveva approvato un progetto di restauro e consolidamento da sottoporre al Ministero. Tutti questi atti sono però antecedenti alla venuta di Chierici a Napoli e al suo interessamento per la fabbrica. Cfr. L. Galli, Il restauro nell'opera di Gino Chierici, Franco Angeli ed., Milano 1989, pp. 52-53.

[5] Cfr. sulla questione Galli, Il restauro, cit., p. 54, note 10, 11, 12.

[6] L'affresco del centro della volta a padiglione che copriva il coro seicentesco viene collocato in una stanza dell'appartamento della badessa, mentre «i dipinti delle vele della volta, che per la loro superficie concava non era possibile collocare con gli stessi criteri furono messi in una delle due sale a piano terreno destinate alla raccolta degli oggetti provenienti dalla chiesa e dal monastero». Chierici, Il restauro della chiesa di Santa Maria Donnaregina, cit., p. 129.

[7] nell'introduzione al lavoro lavori in Donnaregina sta nel compiacimento dell'autore nell'aver compiuto «opera di rivalutazione storica» del monumento. Dopo essersi prudentemente misurato con la concretezza della fabbrica, Chierici non rinunzia a intervenire su di essa, alla continua ricerca di un equilibrio tra le esigenze di attuare una selezione tra le sue parti - eliminandone alcune e ricostruendone altre - e il rispetto, che pure egli ha, per le testimonianze delle varie epoche e per le lacune, cui attribuisce tra l'altro un valore didattico-esplicativo. Per raggiungere tale equilibrio è necessario avere, come egli stesso sostiene, oltre che «sicure conoscenze tecniche e lunga pratica», una «buona preparazione storica per giudicare prontamente del valore di un indizio, della necessità di una rinuncia».