San Severo al Pendino

Chiesa di San Severo al Pendino

Di Massimo Visone

La chiesa di San Severo al Pendino è collocata sul versante meridionale di via Duomo ed è stata oggetto di diverse trasformazioni, sia di carattere architettonico che urbanistico. La conformazione attuale è frutto di un progetto di Giovan Giacomo di Conforto – uno degli esponenti di spicco dell’architettura della Controriforma – e dell’intervento postunitario di allargamento della sezione stradale prima e di risanamento dei quartieri bassi poi. In questa sede cercheremo di ricostruire la storia di questo edificio: dall’antica chiesa di Santa Maria a Selice a quella moderna dedicata a uno dei santi patroni di Napoli, dalla soppressione degli ordini nel 1809 alla destinazione museale del sito nella città contemporanea.

Premessa

A Napoli, l’intensa urbanizzazione, l’alterazione dell’assetto territoriale, una diversa mobilità e la variazione dei riferimenti culturali hanno mutato la comune percezione dello spazio urbano, ma, soprattutto, hanno tradito una confidenza fisica con la sua orografia, le cui tracce spesso sopravvivono solo in alcuni segni che hanno resistito al corso naturale della storia, quali la toponomastica, o singolari elementi materiali, che solo un approccio di tipo archeologico ci consente di comprendere. Una puntuale decodifica della morfologia del suolo e delle architetture può aiutare la comprensione delle dinamiche insediative, delle qualità ambientali e delle amenità del sito. Ciò è vero innanzitutto per quei luoghi collocati in aree di margine della città antica, sui promontori, lungo i crinali o a ridosso delle mura, come nel nostro caso. L’evoluzione urbana ha visto questi terreni scoscesi sistemati prima ad aree agricole, poi a giardini, infine frammentati o venduti, trasformando mura, fabbriche, terrazzamenti e terrapieni in fortificazioni, palazzi, chiese, conventi, cortili, chiostri e giardini di grande impatto vedutistico.

Il rinnovato interesse verso il centro storico di Napoli, le correnti politiche che investono su alcuni sistemi culturali, i più recenti studi su Palazzo Como e sulle opere del risanamento, l’opportunità di riflettere su un bene artistico e architettonico hanno spinto la ricerca a rendere intellegibile l’odierna chiesa di San Severo al Pendino, l’immediato contesto e il territorio circostante nel suo sviluppo storico, urbano e architettonico.

Santa Maria a Selice (844-1448)

Nel 1623, Cesare d’Engenio Caracciolo informa che una prima cappella intitolata a Santa Maria a Selice con annesso ospedale per i “poveri infermi” fu edificata in questo sito nell’844 a opera di Pietro Caracciolo, abate della vicina basilica di San Giorgio maggiore, costruita tra la fine del IV e il principio del V secolo e a cui la storia della nostra chiesa sarà a lungo intrecciata.

Nel 1444, in una bolla di Eugenio IV si legge che la fabbrica è in giuspatronato agli Acciapaccia: un’antica famiglia napoletana aggregata dal 1420 al Seggio di Portanova. Nel 1445 Nicola, Renzo e Ladislao Acciapaccia ottengono dall’arcivescovo il consenso per affidare l’edificio al chierico Francesco Latro. Nel 1448 il complesso versa in stato di rovina e la famiglia concede la proprietà ai napoletani, che dedicano la chiesa a san Severo.

Nulla sappiamo sulla conformazione della prima cappella e del relativo ospedale d’età altomedievale, ma è possibile tentare di ricostruirne il contesto. Santa Maria a Selice sorgeva a mezzogiorno della città, nella contrada che le dava il nome, sita a ridosso del primo tracciato della città greco-romana, su di un pianoro caratterizzato da una linea di demarcazione naturale ben definita. I collegamenti tra la città a monte e i quartieri a valle erano possibili attraverso una serie di ‘penninate’. In tal senso, la consultazione della Pianta del Comune di Napoli (1872-1880) è un utile strumento per analizzare l’orografia del sito prima del risanamento, grazie alla puntuale indicazione delle quote stradali.

Sul fronte meridionale, questo confine naturale si dispiega da via Sedile di Porto, orientativamente dal convento di Santa Maria la Nova, fino al monastero dei Santi Severino e Sossio, qui ripiega verso l’interno a formare un’ansa fino a San Giorgio maggiore. Si configura così un profilo irregolare che partecipa alla fortificazione di Napoli.

Il tessuto conserva il tracciato compatto e irregolare della città medievale cresciuta sulle mura meridionali, al di là delle quali si apriva a valle l’espansione dell’area portuale e commerciale, presso cui era la Sellaria, una delle strade moderne più belle e oggetto di un significativo intervento di riqualificazione a opera di Alfonso I d’Aragona iniziato nel 1456. A monte si erano insediati alcuni complessi monastici, mentre tutt’intorno si era stratificata un’edilizia civile di significativo interesse, tra queste si realizzano gradonate di attraversamento scavate in lunghi cavoni, come il pendino Santa Barbara, o appoggiate alla falesia di tufo, come quella antistante il complesso dei Santi Severino e Sossio, oggi malcelati allo sguardo contemporaneo.

In questa sede piace pensare che la nostra cappella potesse aprirsi sul sagrato antistante la chiesa di San Giorgio maggiore; questa si ergeva su di un podio preceduto da un ampio portico, che dominava il terrazzamento sito proprio a ridosso del salto di quota, mentre l’ospedale annesso a Santa Maria a Selice doveva trovarsi plausibilmente a monte.

San Severo al Pendino (1448-1809)

Nel 1448, rovinata Santa Maria a Selice, la famiglia Acciapaccia cede il complesso ai napoletani. Da questo momento, la cappella, viene retta da un’estaurita della chiesa di San Giorgio, cioè un’istituzione a scopo di beneficenza dipendente da laici e, grazie alle elemosine di alcuni devoti, è riedificata e dedicata a san Severo, vescovo di Napoli (357-400), fondatore della vicina chiesa di San Giorgio maggiore e santo patrono secondario della città. A questi, secondo la leggenda devozionale, è legato il primo dei miracoli della liquefazione del sangue di san Gennaro, così come è invece vero che per un periodo le celebrazioni furono svolte presso la basilica paleocristiana. Possiamo pertanto dire che la storia del culto di San Gennaro coinvolge anche questa tratto meridionale della strada.

Nel fervore assistenziale alimentato dalle istanze della Controriforma nacquero e si moltiplicarono a Napoli numerose istituzioni pie collegate alla formazione di congregazioni, scuole e ospedali a sostegno dei poveri. In continuità con i complessi religiosi nascevano o si riutilizzavano fabbriche finanziate da un crescente flusso di donazioni e di lasciti alimentati dall’assunto della salvezza dell’anima attraverso le opere caritatevoli.

In questo contesto nascono i banchi pubblici napoletani e San Severo fu coinvolta in questo fenomeno. Il 28 maggio 1583, infatti, qui si formò la compagnia del Santissimo Nome di Dio, composta da ventinove gentiluomini sotto la guida di fra Paolino da Lucca – a cui il vicario generale aveva concesso il complesso insieme ad altri domenicani nel 1575 – e per opera di Orazio Teodoro, un’opera pia per assolvere alla carità cristiana.

La prossimità all’antica basilica, presso cui era ospitato il più noto Monte de’ poveri, portò a una prima unione nel 1588 e alla nascita della Compagnia del Nome di Dio, del Monte de’ poveri e poi alla definitiva fusione nel 1599, conservando nel titolo la memoria delle rispettive origini (Monte dei Poveri del Sacro Nome di Dio).

Grazie alle attività di carità e alle iniziative di privati, come le elemosine del marchese d’Umbriatico della famiglia Bisballo, l’architetto Giovan Giacomo Conforto fu incaricato del rifacimento della chiesa, mentre nel 1587 fu acquisito il vicino palazzo Como adibito a convento sempre sotto la direzione di Conforto. L’attività di Giovan Giacomo Conforto è documentata tra il 1599 e il 1620; nel 1604 la chiesa è stata terminata, poi proseguono i lavori nel vicino convento.

C’è chi ha ipotizzato che gli interventi di ampliamento dell’edificio preesistente avessero potuto riguardare soprattutto la zona verso l’altare maggiore, sulla quale fu impostata la nuova cupola. “Potrebbero invece risalire al periodo rinascimentale le arcate in piperno che delimitano le cappelle laterali, a sesto pieno e sormontate da un’alta trabeazione, scandita da triglifi e ornata sulla parte superiore da una piccola cornice a ovoli. Risalenti al XV-XVI secolo appaiono anche i battenti lignei del portone principale, decorati da motivi geometrici”.

Si tratta di una chiesa disegnata nel pieno rispetto delle regole della Chiesa della Controriforma. Consiste di un impianto a croce latina inscritta in un rettangolo e con cupola e coperto con volta a botte, con undici cappelle, essendo la seconda a destra della navata occupata dalla porta minore, di cui due nella crociera; di prospetto è l’altare maggiore, alle cui spalle è sistemato il coro in un’ampia scarsella. A un’attenta analisi comparativa del partito decorativo sopradescritto, possiamo facilmente accostare il motivo di San Severo a quello utilizzato sul portale del Monte di Pietà, opera coeva di Giovan Battista Cavagna, presso cui aveva lavorato anche Conforto. Seppure si tratti di pilastri fasciati in pietra misti, la presenza del triglifo in testa al capitello e sulla chiave di volta dell’arco attesta una certa ascendenza linguistica di stampo manierista tra i due architetti, entrambi impegnati con cantieri legati a opere pie. Altrettanto ricorrente è la variazione di questo tema in altre chiese che si realizzano a Napoli a cavallo tra XVI e XVII secolo.

La chiesa risulta perfettamente funzionante nel 1692, ma era stata in parte rimaneggiata dopo i danni del terremoto del 1688 e contraddistinta da una scala esterna a doppia rampa con balaustra a volute in piperno, raffigurata in una delle litografie a colori di Raffaele D’Ambra (1899).

Giuseppe Sigismondo è l’ultimo autore che nella sua guida ci descrive la chiesa prima del decreto di soppressione. “Il Cappellone dalla parte della Epistola è dedicato alla B. Vergine del Rosario con un bel quadro. I marmi che vi si veggono colle statue, colonne, e’l bassorilievo che serve innanzi Altare sono del deposito di Gio[vanni] Alfonso Bisballo Marchese di Umbriativo figlio del Conte Ferdinando, e di Diana Caracciolo, che militò sotto Carlo V, e Filippo Secondo, qual deposito era dietro il maggiore Altare del Coro; ma nel tremuoto del 1688, avendo patito di molto la Chiesa, bisognò toglierla il deposito: i marmi furono adattati per ornamento di questa Cappella, ed il tumulo colla statua giacente del Marchese fu situato nel lato della Espistola sul vano che introduce alla nave delle Cappelle.

Nella Sagrestia possono osservarsi sei opere in cera della celebre Caterina de Julianis, cioè un Cimiterio, una Madonna col Bambino in braccio, altra col Bambino in atto di dormie, un Ecce Homo a mezza figura, una S. Rosa di Lima, ed un S. Domenico che disputa cogli Eretici” [Sigismondo 1788, 105-106]. Gli oggetti d’arte che l’arredavano sono in parte presenti, in parte conservati in varie sedi e altri ancora non identificati.

Si segnala all’esterno, sul fianco destro della chiesa, al n. 13° di piazzetta Paparelle al Pendino un piccolo portale ornato da un tondo scolpito con la raffigurazione del busto del santo vescovo titolare.

La soppressione

Con la soppressione dell’ordine dei frati minori osservanti, nell’agosto del 1809, il complesso ebbe funzione di carattere civile, fino al 1845, con il ritorno dei religiosi.

Il 18 settembre 1860 Giuseppe Garibaldi firma il decreto con il quale si dà il via alla realizzazione di progetti in massima parte risalenti al periodo borbonico, come il taglio nel centro storico per l’allargamento dell’odierna via Duomo fino a via San Biagio dei Librai. Il prolungamento dell’intervento nel tratto meridionale, che consente alla nuova strada l’attraversamento di tutto il centro storico, avverrà con il più noto intervento del risanamento con la legge speciale per Napoli del 1885.

La chiesa fu coinvolta nella rettifica del versante occidentale della strada e venne privata delle prime due cappelle e della facciata barocca, sostituita con una in stile neorinascimentale. Dell’antico ambiente circostante sopravvivono infatti solo i due palazzi fronteggianti la chiesa.

Nel 1879, invece, furono avviati i lavori per l’apertura del tratto meridionale di via Duomo che comportarono il completo stravolgimento di questa parte della città: fu innalzata la quota stradale, soppressa la scalinata di accesso alla chiesa, amputate le chiese di San Giorgio Maggiore e di San Severo, rispettivamente della navata destra e del campanile pensile la prima e della parte anteriore la seconda; venne inoltre demolito il complesso conventuale.

Nel Novecento ha subito diversi riusi, come la trasformazione in rifugio antiaereo nella Seconda guerra mondiale.

Il ruolo museale

Nel 1999, in occasione del Maggio dei Monumenti, la chiesa di San Severo al Pendino riapre al pubblico dopo cinquant’anni di chiusura. I lavori di restauro e di consolidamento, iniziati alla fine degli anni Settanta e curati dalla Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici di Napoli e provincia, hanno restituito alla città uno spazio espositivo all’interno del percorso di via Duomo. L’edificio così recuperato ha acquistato in maniera progressiva un posto nell’asset delle attività culturali promosse dal Comune nel nucleo antico del centro storico, proprio negli anni in cui si avviava la rinascita della vocazione turistica di Napoli.

Oggi è una delle cinque sedi che il Comune di Napoli mette a servizio della città per sale espositive e spazi per meeting, insieme al Palazzo Arti Napoli (Pan), Castel dell’Ovo, la sala Gemito al secondo piano della galleria Principe di Napoli e la sala Campanella a piazza del Gesù.

Bibliografia

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Da Palazzo Como a Museo Filangieri. Storia, tutela e restauro di una residenza del Rinascimento a Napoli, a cura di A. Ghisetti Giavarina, F. Mangone, A. Pane, Grimaldi & C., Napoli 2019

Foto di Mario Ferrara

Donnaregina seicentesca e Museo Diocesano

Il restauro della chiesa seicentesca di Donnaregina a Napoli e l’istituzione del Museo diocesano

Luigi Veronese

Il restauro della chiesa trecentesca di Donnaregina, condotto a cavallo degli anni Venti e Trenta del Novecento dal soprintendente Gino Chierici, ebbe come principale conseguenza sulla chiesa seicentesca la riduzione del coro barocco, che venne alterato nella propria configurazione originaria per far posto alla ricostruzione dell’abside medievale. Prima di tale intervento le due chiese costituivano un unico aggregato architettonico che consentiva il passaggio dal coro della chiesa “nuova” a quello dell’edificio trecentesco, dal quale si raggiungeva poi l’appartamento della badessa. Il piano terra di Donnaregina “vecchia” era utilizzato come deposito del convento, separato dal livello superiore dal prolungamento del solaio del coro realizzato dopo la costruzione del nuovo edificio ecclesiastico. Nel 1861, con l’Unità d’Italia, fu decretata la soppressione degli ordini religiosi e le monache che popolavano il convento furono costrette a trasferirsi nei monasteri di Santa Chiara e di Santa Maria Donnalbina. La chiesa trecentesca iniziò così il suo lungo obliò, fatto di usi incongrui e dannosi che aggravarono il suo stato di conservazione, mentre l’edificio barocco passò al Fondo per il Culto, che ne cedette l’uso provvisorio prima all’Arciconfraternita di S. Maria della Visitazione e poi, nel 1871, al Comune di Napoli.

La chiesa, realizzata tra il 1620 e il 1649, su progetto di Giovanni Guarini, presenta una facciata sopraelevata rispetto al piano stradale del Largo Donnaregina con il quale è collegato tramite una scalinata in piperno e marmo. Il fronte è ripartito in due ordini con lesene corinzie marmoree e presenta un timpano di coronamento. Al primo ordine si apre un portale con colonne corinzie al di sopra delle quali poggia un timpano arcuato spezzato con una piccola edicola al centro; ai lati del prospetto sono ricavate due nicchie entro le quali sono collocate sculture datate 1647 che raffigurano Sant'Andrea e San Bartolomeo. Al secondo ordine, in corrispondenza delle nicchie laterali e del portale d'accesso, si aprono tre finestre inquadrate all'interno di semplici decorazioni marmoree.

L'interno è a navata unica senza transetto con sei profonde cappelle, tre per lato, ornate con marmi barocchi.

La volta a botte lunettata è decorata con stucchi dorati tipici del barocco napoletano e fu affrescata da Francesco Maria De Benedictis nel 1654. 

L'altare maggiore in breccia di Sicilia e verde antico del presbiterio è opera di Giovanni Ragozzino e Giovanni di Filippo su disegno del Solimena; ai lati si trovano due grandi dipinti di Luca Giordano, Nozze di Cana e Moltiplicazione dei pani e dei pesci, entrambi firmati e datati 1705 e considerati le ultime opere dell'artista napoletano. 

La cupola conserva resti di affreschi di Agostino Beltrano del 1654, il quale riprese scene del Paradiso al centro, figure allegoriche tra le finestre del tamburo e il Cristo e la Maddalena e i Santi Giovanni Battista ed Evangelista sui lunettoni; i pennacchi vedevano invece ritratti quattro evangelisti, poi trafugati dopo il 1950 quando furono staccati e messi in deposito per effettuare lavori di consolidamento della struttura.

Ai lati del presbiterio due porte conducono ad altri ambienti della chiesa tra cui spiccano la sacrestia e la sala del comunichino, che succedendosi tra loro ruotano alle spalle della zona absidale. Da questi corridoi è possibile giungere ad altre sale del secondo piano della chiesa dove, oltre ai cori delle monache e delle converse, è possibile visitare ulteriori ambienti.

La sala del comunichino, dietro la parete a sinistra del presbiterio, vedeva invece esposta prima dell'intervento del Chierici il monumento funebre della regina Maria d'Ungheria; la sala è decorata inoltre da affreschi nella volta sul Miracolo della manna del 1729 ancora del Cirillo e presenta alle pareti sculture e monumenti sepolcrali nell'ambito del rinascimento napoletano, tutti provenienti dalla chiesa Vecchia e solo successivamente spostati in questa nuova sede assieme al sepolcro di Maria d'Ungheria, che invece poi ritornò appunto nella sua collocazione originaria.

Entrambi i cori della chiesa sono posti al piano superiore della stessa, raggiungibili da una scala dietro la zona absidale; il coro delle converse è posto sopra la controfacciata della chiesa e conserva in maniera pressoché frammentaria affreschi di Luca Giordano del 1687 circa, mentre il coro delle monache è posto in linea d'aria al livello superiore della zona absidale. Da qui, attraverso una porta ornata da un bassorilievo marmoreo, tutt’ora esistente, si accedeva al coro della chiesa trecentesca che si presentava in continuità con l’edificio del XVII secolo; il ciclo di affreschi sulla volta del coro con la Vita di San Francesco ed i santi Andrea, Gennaro e Bartolomeo sono datati 1684 e sono firmati da un giovane Solimena, così come la grande scena frontale sopra la porta che un tempo portava al complesso vecchio che raffigura il Miracolo delle rose  e che costituisce di fatto il primo affresco di grandi dimensioni del pittore.

La presenza di tale affresco nel coro seicentesco aveva determinato una questione di rilevante interesse nel progetto di separazione delle due chiese attuato da Gino Chierici. L’affresco firmato da un giovane e inesperto Solimena era stato, infatti, ritoccato dall’autore stesso con la tempera, il che rendeva - com'è noto - impossibile staccarlo col metodo dello strappo. Tale operazione era necessaria per arretrare la parete di fondo del coro seicentesco e liberare l’abside trecentesca della chiesa adiacente. Non potendo quindi ricorrere allo smontaggio e rimontaggio dell’affresco fu progettato dal soprintendente il complesso artificio tecnico che portò alla traslazione verso sud della parete terminale della chiesa “nuova”.

L’intervento, ampiamente discusso dalla letteratura scientifica e da Chierici stesso che lo raccontò nel suo volume sulla chiesa trecentesca di Donnaregina, determinò la demolizione della volta a padiglione del coro nuovo, la sua ricostruzione in forme ridotte, a crociera, e il trasporto degli affreschi esistenti in alcune sale restaurate della chiesa vecchia. L’intervento produsse altresì l’eliminazione, su ciascun lato del coro, di una delle tre finestre esistenti.

La chiesa seicentesca di Donnaregina, in tale nuova configurazione rimase aperta al pubblico fino al 1972, quando fu chiusa al pubblico e lasciata in una lunga fase di abbandono che ne aggravò lo stato di conservazione. Importanti lavori di restauro furono effettuati in più occasioni nei decenni successivi, anche con lo scopo di destinare la chiesa a usi diversi da quelli religiosi, ma rimasero progetti irrealizzati o incompiuti fino all’intervento del 1995-97 che portò alla completa riabilitazione della chiesa e alla sua riapertura come Museo diocesano della Curia di Napoli, destinazione che tutt’oggi conserva.

Il primo intervento importante sull’edificio dopo la sua chiusura fu finanziato dalla Cassa per il Mezzogiorno ed eseguito, a partire dal 1977, dall’Ufficio del Genio civile del Comune di Napoli in collaborazione con la soprintendenza per i beni architettonici e ambientali della Campania, diretta da Mario Zampino. L’intervento prevedeva la destinazione della chiesa ad uso pubblico quale “Auditorium e centro di cultura musicale”, escludendo, in accordo con la Curia di Napoli, un riutilizzo dell’edificio per ragioni di culto. Tale destinazione d’uso risultava centrale nel progetto di restauro della chiesa, non solo per quanto riguardava la riabilitazione architettonica dell’edificio, ma anche di tutta l’area a nord-est di via Duomo che attraverso la collocazione di un istituto culturale poteva mirare a una riqualificazione urbana, anche in termini di condizione sociale.

Prima di tali lavori la chiesa si trovava in uno stato di abbandono che aveva notevolmente ampliato gli effetti del degrado, dovuti principalmente all’umidità e alle acque piovane che filtravano dalla copertura; un problema che non era stato del tutto risolto dall’intervento che a partire dal 1973 aveva rifatto le pluviali e gli intonaci su vico Donnaregina, che si presentavano fortemente compromessi.

Il primo lotto dei lavori realizzati comportò lo smontaggio completo della struttura di copertura della navata centrale, realizzata con un’orditura in legname, che si presentava fortemente compromessa dalle acque filtranti dal tetto. Le condizioni di degrado degli elementi di sostegno esistenti non permettevano, infatti, una loro conservazione e l’intervento di sostituzione totale venne ritenuto necessario anche in ragione di una prassi molto consolidata in quegli anni. Il nuovo tetto fu realizzato con una struttura metallica reticolare che reggeva una lamiera grecata con masso, rete elettrosaldata e nuova impermeabilizzazione. Tale copertura fu ancorata a un cordolo di cemento armato che chiudeva in sommità l’intero perimetro della chiesa e garantiva il ripristino del sistema scatolare. Anche le murature di sostegno dell’edificio furono consolidate tramite l’uso di cemento che venne iniettato nel paramento tufaceo originario per l’intero perimetro dell’edificio.

L’interno della chiesa vide il restauro degli stucchi che erano stati fortemente danneggiati durante gli anni di abbandono, anche per l’azione del guano degli uccelli lasciati liberi di volare all’interno. Tali elementi furono integrati e spesso interamente rifatti. Per quanto riguarda la pavimentazione, infine, l’originale rivestimento in piastrelle ceramiche aveva in parte retto agli effetti del tempo e venne smontato per garantire il ripristino del masso in gesso e segatura. Anche gli ambulacri laterali furono pesantemente alterati, con la rimozione dei pavimenti e la spicconatura degli intonaci. 

Il secondo lotto comportò anche lo smontaggio della struttura di copertura absidale con l’orditura originale in legname che reggeva la volta a incannucciata affrescata, particolarmente compromessa dalle infiltrazioni piovane. Il nuovo tetto, anche in questo caso, venne realizzato con una struttura reticolare metallica con lamiera grecata e masso armato.

Anche la cupola fu consolidata con iniezioni di cemento nella muratura tufacea e le lastre di piombo di rivestimento, che non garantivano più un’adeguata impermeabilizzazione furono sostituite con nuovi elementi dello stesso materiale.

La nuova destinazione d’uso della chiesa prevedeva la realizzazione di appositi spalti per il pubblico da collocare anche negli ambienti superiori della chiesa. Oltre alla sistemazione di poltroncine in fila nella navata principale – posti su un assito in legno che avrebbe coperto le piastrelle di maioliche ottocentesche della pavimentazione esistente – vennero progettati, infatti, pedane inclinate sui due cori, contenenti file di sedute per il pubblico degradanti verso il nuovo palco posto sotto la cupola centrale.

Oltre al restauro degli arredi fissi, infine, fu progettato, in quell’occasione anche un ascensore che avrebbe dovuto collegare facilmente il livello zero con i due cori e i deambulatori della chiesa, dove erano previsti i locali tecnici e i servizi igienici.

Tali lavori non furono mai portati a termine e nonostante raggiunsero l’obiettivo primario di consolidare la chiesa, lasciarono l’edificio senza una destinazione d’uso e con la maggior parte delle finiture ancora da realizzare. In particolare, la navata principale restava priva del pavimento e alcune opere, come i bagni e l’ascensore, furono realizzati solo parzialmente. Restavano nello stato di abbandono in cui erano, invece, le opere d’arte pittoriche mobili, intenzionalmente lasciate fuori dal progetto di consolidamento della chiesa.

Il terremoto dell’Irpinia del Novembre 1980 provocò diversi danni anche alla chiesa di Donnaregina nuova e probabilmente fu tra le cause di interruzione dei lavori che erano in corso. Negli anni successivi l’edificio subì numerosi interventi che interessarono sia le parti architettoniche che gli arredi fissi e gli affreschi. Molte perizie, conservate presso l’archivio storico della Soprintendenza, sono riferite principalmente alla messa in sicurezza delle opere d’arte e a locali interventi di consolidamento per danni dovuti al sisma, diretti dall’architetto della soprintendenza Adolfo De Pertis. In particolare, già nei primi mesi del 1981 vennero coperte da un’impalcatura in legno le due grandi tele di Luca Giordano poste ai lati dell’altare maggiore, con lo scopo di proteggerle dalle infiltrazioni di acqua e da ulteriori cadute di materiale dal soffitto.

Nuovi importanti lavori furono affidati nel 1987 a Roberto di Stefano, in quegli anni direttore della Scuola di specializzazione in beni architettonici e del Paesaggio dell’Università di Napoli, ospitata dal 1975 nella chiesa trecentesca di Donnaregina, sulla quale già dal 1982 l’ingegnere napoletano stava conducendo lavori di remissione dai danni del sisma.

L’incarico a Di Stefano era ancora finalizzato a dare alla chiesa una destinazione d’uso pubblica, per ospitare grandi riunioni, concerti, convegni ecc. L’edificio avrebbe dovuto presentare a tal fine due uscite di sicurezza per i circa 336 posti a sedere previsti: una sulla piazza del vescovato e l’altra sul vicolo Donnaregina. Si immaginava, inoltre, già in questa occasione, la destinazione di alcuni locali secondari della chiesa, come la sacrestia, la sala de comunichino e i locali del matroneo, ad esposizione di dipinti e arredi sacri provenienti da altri edifici di culto di Napoli e dalla Cattedrale.

Si trattava di intervenire principalmente sulle parti di finitura interne ed esterne lasciate incompiute dal restauro del 1977 e di consolidare i nuovi danni provocati dal terremoto del 1980. Il primo stralcio delle opere prevedeva una spesa di 470.000.000 Lire, sui fondi della legge 219/1981 per la sistemazione del sagrato della chiesa e dei locali interni.

Tali opere prevedevano il rifacimento della pavimentazione del sagrato esterno con la realizzazione dell’impermeabilizzazione del massetto e la messa in opera di piastrelle di cotto toscano; veniva previsto altresì il restauro della balaustra con integrazioni in stucco e la sistemazione della cancellata in ferro.

Per quanto riguarda l’interno della chiesa veniva previsto il rifacimento degli intonaci della navata, del transetto e dell’abside, con particolare riguardo alle zone ricostruite con muratura di mattoni tra la navata e il transetto e la ripresa delle cornici in stucco.

Nella navata era prevista, infine, la posa in opera del pavimento in marmo policromo (bianco statuario, rosso di Francia e Giallo di Siena) e il restauro degli esistenti pavimenti.

Tra le opere da eseguire vi era anche il restauro del portale di ingresso e il ripristino del portoncino di ingresso su vico Donnaregina, con la ricca balaustra in piperno che doveva fungere da uscita di sicurezza per la chiesa.

Nella perizia generale veniva incluso il restauro e la sistemazione di tutti i locali annessi all’edificio, nonché il restauro della facciata e la sistemazione dei locali ipogei.

Tali lavori che furono iniziati con l’apporto della ditta Pouchin di Roma, non furono mai portati a termine, ma videro ugualmente importanti esiti soprattutto relativi ad alcune indagini archeologiche che nell’occasione vennero effettuate al di sotto della navata centrale e che misero in luce la presenza di un edificio termale riutilizzato in epoca medievale. 

L’ultima importante campagna di lavori sulla chiesa seicentesca di Donnaregina ha avuto inizio nel 1995, sotto la supervisione della soprintendenza diretta da Giuseppe Zampino e con la redazione del progetto di restauro ad opera del funzionario architetto Tommaso Russo. Tali lavori condussero alla riapertura della chiesa nel febbraio del 1997, dopo venticinque anni di chiusura e all’inaugurazione del Museo diocesano della Curia di Napoli.

La nuova fase di lavori ha visto, in primo luogo, il completamento degli interventi di impermeabilizzazione del tetto e di irreggimentazione delle acque piovane, con il consolidamento della grande volta della navata e dei solai di copertura delle cappelle laterali. Il pavimento del presbiterio, che presentava gravi mancanze delle tarsie e notevoli fessurazioni di quelle presenti fu restaurato tramite il consolidamento del massetto e l’integrazione delle piastrelle mancanti. La facciata, interessata da notevoli fenomeni di umidità, era rimasta sostanzialmente immutata a seguito dei danni del terremoto del 1980 e venne consolidata con interventi di sarcitura delle lesioni e di irreggimentazione delle acque piovane. L’intonaco venne ripreso, con particolare attenzione al ripristino delle coloriture originali delle lesene e dei pannelli murari, rintracciate tramite analisi stratigrafiche.

Di notevole interesse, inoltre, il sistema di difesa dell’edificio dall’umidità di risalita, che venne realizzato, in collaborazione con l’impresa, tramite un sistema di canalizzazione in pvc sotto-traccia che risolse definitivamente il problema dell’allontanamento delle acque del suolo dall’edificio.

Molti degli sforzi progettuali sono stati destinati, infine, al restauro dei dipinti, con particolare riferimento alle due grandi tele accanto all’altare di Luca Giordano che erano rimaste coperte da impalcati di legno sin dal terremoto del 1980 e agli affreschi della volta, che si presentavano fortemente decoesi.

In quell’occasione venne aperto anche il vano di passaggio nella vanella creata di Chierici tra le due chiese che oggi permette di collegare il percorso museale della chiesa nuova con la chiesa trecentesca.

La chiesa seicentesca di Donnaregina venne inaugurata nel febbraio del 1997 con un nuovo allestimento museale e con i servizi al pubblico pienamente funzionanti.

Il Museo diocesano di Napoli fu inaugurato, per volontà dell'arcivescovo cardinale Crescenzio Sepe, il 23 ottobre 2007 presso la chiesa di Donnaregina Nuova con l'intento di raccogliere le opere provenienti in parte dalle stesse chiese dell’antico complesso conventuale e dai depositi del palazzo arcivescovile, dove in origine il museo aveva sede, o da altre chiese di Napoli chiuse. Il museo è gestito dall'arcidiocesi di Napoli, con la sorveglianza del Polo museale di Napoli e prevede un percorso espositivo che interessa entrambe le chiese del complesso dove sono esposti dipinti appartenenti prevalentemente alla scuola napoletana, con opere di autori quali Luca Giordano, Francesco Solimena, Massimo Stanzione, Aniello Falcone e Andrea Vaccaro.

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- Santa Maria Donnaregina, rubrica «Notizie ed osservazioni», in «Napoli nobilissima», n.s., voi. 1, fase. 1, 1920.

Foto di Mario Ferrara

Il theatrum della Carità

Napoli e il theatrum della Carità in età moderna

Salvatore Di Liello

Dai primi decenni del Cinquecento, la forma urbana di Napoli inizia a mutare profondamente allontanandosi dall’immagine di città armonica e proporzionata magnificata nella Tavola Strozzi (c. 1472).  Con l’inizio del vicereame spagnolo, sullo sfondo dell’urbanesimo di età moderna, la capitale vicereale si espande caoticamente in un’agglomerazione edilizia inarrestabile e frenetica mai più riequilibrata e destinata a modificare consolidate gerarchie visive e funzioni degli antichi baricentri pubblici.  Colmati gli spazi residui all’interno delle mura, ai margini delle grandi fabbriche conventuali e delle dimore gentilizie, l’edilizia cresce in verticale fin quasi a raggiungere le altissime chiese angioine, un tempo svettanti nel paesaggio urbano. L’incessante incremento demografico alterò la forma degli abitati che, all’interno o immediatamente fuori le mura toledane, divennero dagli inizi del Seicento quartieri e borghi presto asfittici e malsani, occupati da grandi folle provenienti dalle campagne del viceregno immiserite dalla crisi agricola e da una diffusa arretratezza sostanzialmente ignorata dal governo spagnolo. In questo sfondo reso cupo da una perdurante miseria, dalle frequenti epidemie e gravato dalle vessazioni fiscali imposte dal potere, ampi margini trova l’intervento della Chiesa impegnata a rinsaldare, anche con le opere caritatevoli, quella fede minacciata dal luteranesimo la cui larga diffusione a Napoli fu contrastata dai nuovi ordini religiosi della Controriforma che,  inurbati nelle aree più centrali del nucleo storico, trasformarono la città in una attivissima officina della Controriforma.

La centralità della fede nelle drammatiche vicende della città affiora anche nella produzione vedutistica dove i modelli fiamminghi delle ariose  vedute a volo d’uccello dei paesaggi urbani appaiono declinati nell’iconografia tridentina dei santi che proteggono la città così diffusa  nel paesaggismo urbano napoletano tra Sei e Settecento, un cospicuo corpus figurativo nel quale confluiscono il celebre ritratto dal mare  di Alessandro Baratta, il San Gennaro che allontana le fiamme dell’eruzione del Vesuvio del 1631  di Micco Spadaro, il  San Gennaro protegge Napoli di  Onofrio Palumbo e Didier Barra (fig.1) (c. 1651), o ancora la  Madonna di città di Domenico Fiasella (c. 1640) (fig. 2) ,  solo alcuni tra i molti esempi possibili di quelle vedute «con l’horizonte così alto com’usano i fiammenghi» richiamate da  Giulio Mancini intorno al 1620. 

Nondimeno, ancor prima di essere ufficialmente raggiunta dai precetti tridentini, la città viveva profondi cambiamenti sociali destinati a fermentare nella cultura artistica e nella religiosità dell’intero viceregno con più palpabili ricadute nella sua capitale. In questa temperie, fin dagli anni Trenta del XVI secolo, confluisce l’azione di nuove istituzioni religiose impegnate in una riforma della religiosità e in particolare della vita conventuale contro gli eccessi profani documentati in molti importanti antichi complessi conventuali della città.

Indagini e resoconti sui monasteri napoletani durante il Cinquecento, puntualmente inviati a Roma, confermavano il dilagare della corruzione e dell’immoralità della vita conventuale, segnalando importanti complessi come quelli di Santa Chiara, Santa Maria Donnaromita, San Gregorio Armeno, Santa Patrizia, Santa Maria Donnaregina dove vescovi e cardinali da tempo non riuscivano a contrastare l’ingerenza della nobiltà cittadina all’interno dei chiostri. Reagendo a queste consolidate consuetudini, stigmatizzate dalle gerarchie ecclesiastiche come una preoccupante deriva morale, grande adesione trovarono in città e nel viceregno i precetti di rigore e povertà a cui si ispirarono gli ordini dei Cappuccini (1520 ca.), dei Teatini (1524), della Compagnia di Gesù (1534) che, seguiti più tardi dagli Oratoriani (1575), promuoveranno severissime regole che troveranno proprio a Napoli un’importante affermazione. In questo nascente clima di riforma morale confluiscono molte iniziative come quella intrapresa da Maria Lorenza Longo che fin dal 1519, forte dell’appoggio della Chiesa romana, diede inizio alla costruzione, nel cuore dell’antica Napoli, del complesso di Santa Maria del Popolo con un ospedale per la cura dei poveri, un’iniziativa  cui seguì, nel 1535, la fondazione da parte della stessa nobildonna dell’ordine delle Clarisse Cappuccine ispirato al rigore della Regola di Santa Chiara, con sede nel complesso di Santa Maria di Gerusalemme. Negli stessi anni un’azione simile fu intrapresa dalla sua discepola Maria d’Ayerbe che nel 1538 aprì il monastero delle Convertite per la rieducazione delle prostitute sottoposte all’osservanza di una rigidissima clausura e di una vita di rinunce e privazioni.

Preludio di quella retorica della Povertà e della Carità che da lì a pochi decenni eromperà  nella città e nel vasto viceregno, queste  azioni riassumono  efficacemente il rinnovamento religioso in atto a Napoli già nella prima metà del secolo, in anticipo con l’austerità più tardi ufficialmente sancita dalla riforma cattolica, nel cui specchio prenderà definitivamente forma l’urgenza di una pratica artistica lontana da ogni sontuosità formale e capace di tradurre in architettura la rinuncia al fasto e agli eccessi. In qualità di committenti nelle costruzioni delle nuove fabbriche napoletane per accogliere le numerose comunità, votate alla povertà e alla clausura, questi ordini religiosi impongono rigore e sobrietà artistica agli architetti chiamati a dirigere i grandi cantieri delle fabbriche conventuali da rendere quanto più conformi alla Regola. Su queste fondanti premesse, nel clima di fervore assistenziale della riforma cattolica degli ultimi decenni del Cinquecento, nascevano numerose istituzioni pie collegate alla formazione di congregazioni, ospedali e scuole.  A Napoli, il fenomeno incise presto sulla dimensione urbana in quanto gli enti assistenziali, protetti dagli ordini religiosi e dai privilegi fiscali concessi dal governo spagnolo, riuscirono ad acquisire fabbriche e spazi sempre più centrali della città. Ben noto del resto è l’ardente attività della Chiesa post-tridentina impegnata in un serrato e capillare indottrinamento che aveva nella cura degli infermi e nelle iniziative caritatevoli a sostegno dei poveri e derelitti uno dei principali campi d’azione. Negli stessi anni in cui nascevano enti assistenziali e banchi pubblici, si costituivano congregazioni religiose allo scopo di avvicinare  il laicato al rinnovato spirito di catechesi promosso dalla Controriforma, coinvolgendo i laici nell’osservanza di rigidi comportamenti spirituali e nella diffusione della fede cristiana, alimentando una particolare devozione per il culto mariano e la Passione di Cristo, in linea con quanto accadeva a Roma fin dal 1501. È in quell’anno che nella città papale fu fondato il sodalizio del Santissimo Sacramento e Cinque Piaghe per portare il Viatico agli infermi gravemente malati, poi eretto in confraternita dal papa Giulio II, con bolla del 12 settembre 1508, presso la chiesa romana di San Lorenzo in Damaso da dove si irradiò in molte parrocchie anche del vicereame spagnolo.

Dalla metà del Cinquecento nella stessa direzione muoveranno i banchi pubblici napoletani, così centrali nell’attività assistenziale e caritatevole della capitale del viceregno, come quello di Santa Maria del Popolo, originariamente sistemato in alcuni locali dell’ospedale degli Incurabili a Caponapoli aperto da Maria Longo nel 1521, ma in seguito  trasferito nella più centrale  piazza San Lorenzo dove nel 1597 si diede inizio alla fabbrica di una nuova prestigiosa sede su progetto di Giovan Battista Cavagna.

Icastica espressione della climax religiosa e sociale della capitale vicereale, così connaturata all’immagine della città in età moderna come in pochissime altre realtà urbane d’Europa, appare la storia di tre monti assistenziali che nelle vicende  evolutive delle singole istituzioni, come nella crescente monumentalità registrata nelle trasformazioni delle sedi originarie, compendiano mirabilmente lo straordinario  rilievo delle attività caritatevoli in soccorso dei poveri e degli abbandonati assunto nella società napoletana negli anni della riforma cattolica e a seguire tra XVII e XVIII secolo. In particolare, i monti della Pietà, dei Poveri e della Misericordia, condivisero programmi e attività inizialmente rispondenti a rigorosi principi di austerità, ma presto   superati a favore di una grandiosità, allusiva messa in scena della compassione, immagine trionfante della Carità e degli enti che la praticavano nello specchio del Theatrum mundi barocco. Ma il fenomeno fu graduale. La ricchezza e il prestigio di questi enti maturò infatti in un lento processo che muoveva da premesse di professata umiltà e benevolenza per i più bisognosi: una realtà annunciata da iniziative come quelle intraprese dai nobili napoletani Aurelio Paparo e Ignazio Di Nardo che, fin dal 1539, iniziarono a riscattare a proprie spese ingenti quantità di beni sottratti a molti napoletani gravati da debiti sistemando tutti i pegni in un edificio di loro proprietà nei pressi della Giudecca. Qui istituirono un Sacro Monte di Pietà in soccorso dei cittadini vessati degli usurai, opera «non mai a bastanza lodata» come ricordava Bernardo De’ Dominici nel Settecento. Attività simili a quelle avviate fin dal 1563 da alcuni avvocati impietositi dalle condizioni dei carcerati al punto da istituire in loro favore una pignorazione senza interessi,  destinando a tali iniziative un locale nei  tribunali di Castel Capuano, la prima sede di quella che sarà la Congregazione del SS. Nome di Dio e Sacro Monte dei Poveri, poi trasferita in un oratorio presso la Casa dei Santissimi Apostoli e poi ancora nella chiesa di San Giorgio Maggiore, prima di essere sistemata  definitivamente nell’antico palazzo Ricca su via Tribunali,  acquistato dall’ente nel 1616.  Nobili e gentiluomini come quelli ancora che, nel 1601, cominciarono a raccogliere personalmente elemosine lungo le strade della città per assistere gli infermi nell’ospedale degli Incurabili, portando loro cibo e assistenza spirituale. In breve tempo, aumentato il numero dei benefattori, il pio sodalizio riuscì a incrementare le azioni assistenziali giungendo, nel 1602 alla decisione di costituire un monte per l’esercizio delle opere di misericordia corporale, il cui statuto nel 1604 veniva approvato da Filippo III di Spagna e dal papa Pio nel 1605. Tra il 1605 e il 1608 lungo via Tribunali, sul largo prospiciente l’ingresso laterale del Duomo, Giovan Giacomo di Conforto progettava l’edificio e la cappella del monte napoletano impreziosita dal celebre dipinto Le sette opere di misericordia corporale  di Michelangelo Merisi da Caravaggio (1606-1607), solenne celebrazione delle finalità assistenziali della congregazione di laici, estese negli stessi anni  all’esterno della capitale vicereale  con l’apertura di un complesso termale a Casamicciola per curare gli infermi con le acque termali dell’isola d’Ischia, descritte dal medico di corte Giulio Jasolino nel volume De Rimedi Naturali che Sono nell'Isola di Pithecusa, Hoggi Detta Ischia del 1588.  

Il rilevante aumento di donazioni portò presto alla formazione di ingenti capitali che orientarono l’originario spirito assistenziale verso più strutturate attività   imprenditoriali con la formazione, per i monti di Pietà e dei Poveri di banchi pubblici.  E il credito non era l’unica funzione di questi enti come ricordava il Celano per il Monte di Pietà nel 1692: «Qui s’attende non solo all’opera de’ pegni, che è il suo principale instituto, ma anco à riscattar Christiani, che stanno in mano d’infedeli, ad escarcerare molti poverelli prigioni per debiti, à dar le doti à molte donzelle povere, & altre opere di Pietà».

Nel corso di brevi decenni i sodalizi caritatevoli crebbero al punto da destinare congrua parte dei proventi alla costruzione di monumentali edifici che, innalzati nei luoghi più baricentrici di una città sempre più congestionata, rimarcavano la centralità dei monti assistenziali nella società del tempo. Come accadde per il Monte di Pietà che per circa un ventennio operò inizialmente ai margini del nucleo antico, spostandosi dalla Giudecca ad alcune sale nel cortile della Santa Casa dell’Annunziata. Più tardi, grazie all’apertura di un banco pubblico riconosciuto dal viceré Pedro Gìron conte d’Ossuna nel 1584, dopo un breve ulteriore trasferimento dell’opera pia nel palazzo dei Duchi d’Andria, nel largo San Marcellino, fu definitivamente sistemato nella platea seu sedilis Nidi, la centralissima strada di San Biagio dei Librai, tra le principali arterie della città storica. Qui i governatori del Monte nel 1597 acquistavano l’antica residenza di Girolamo Carafa e tutti i fabbricati adiacenti nell’insula interamente occupata dalla nuova fabbrica che immaginarono grandiosa e monumentale come affiora già dall’intitolazione del conto aperto nel 1597 per la «Fabbrica del Palazzo grande sito nella strada maestra di seggio di Nido che si fa per l’habitatione dell’opra pia del n.ro Monte» (Archivio Storico del Banco di Napoli, ASBN, Pietà, Libro Patrimoniale, matr. 8, f° 284). L’impresa vide la partecipazione fin dal 1598 di Giovan Giacomo di Conforto, impegnato pochi anni dopo nel Monte di Misericordia, e Giovan Cola di Franco indicati nei documenti come collaboratori di Giovan Battista Cavagna, autore del monumentale palazzo. Un progetto che introduceva per la prima volta a Napoli soluzioni compositive e lessicali romane nella locale architettura rinascimentale, ancora a quel tempo improntata al classicismo toscano delle opere dei due Mormando Giovanni Donadio e Giovan Francesco di Palma estranee a ogni sperimentazione e a ogni deroga dal codice introdotto dagli aragonesi dalla metà del Quattrocento. Di formazione romana, il Cavagna ideò una fabbrica  dove solennità e magnificenza venivano a fondersi in un severo classicismo, legato ai modelli della coeva architettura nella città papale e delle prescrizioni della prima stagione della riforma cattolica improntata alla semplicità e alla chiarezza del messaggio: su un isolato rettangolare, delimitato dal tracciato di fondazione greca e con il lato breve allineato lungo via San Biagio dei Librai, nella regione del Seggio di Nido, il palazzo occupò l’intera superficie dell’insula articolandosi su un ampio cortile centrale delimitato sul fondale opposto alla strada dalla facciata della cappella. L’elegante sintassi mormandea del vicino palazzo di Capua poi Marigliano, piena adesione dell’architettura napoletana alla lezione del Quattrocento toscano, non trova seguito nell’edificio del Monte dove l’autore rinuncia agli ordini in facciata e fissa un modello per dimensioni, soluzioni prospettiche e lessico, non ancora sperimentato a Napoli. Elemento principale è la scattante successione visiva portale-vestibolo-cortile-cappella(fig. 3): delineando una composizione monumentale inedita nella capitale sul volgere del Cinquecento, egli riprende la sua soluzione del vestibolo a tre campate su pilastri quadrati già sperimentata nell’atrio della chiesa di San Gregorio Armeno, aumentandone le dimensioni e riscrivendone la funzione che, se nella chiesa è cesura, separazione dall’esterno imposta dalla clausura, qui diventa fluida spazialità e scenica prospettiva verso la facciata della cappella, visibile dalla strada nella successione del portale e dell’arcata centrale del vestibolo, più alta delle altre. Ai lati del grandioso atrio (fig. 4), due scaloni simmetrici raggiungono gli ambienti superiori con una rampa unica che dal ripiano si biforca per raggiungere un primo livello ammezzato e più su le sale degli ambienti del piano nobile. Questo è posto al secondo livello e non al primo, come accade in molti palazzi napoletani del nucleo antico dove le ridotte dimensioni stradali e la conseguente scarsa illuminazione dei livelli inferiori suggerisce la collocazione dell’appartamento principale al secondo piano. Anche in facciata le scelte vanno tutte nella direzione della simmetria e della severità delle linee architettoniche, semplificando e razionalizzando i modelli romani bramanteschi e raffaelleschi, in quella linea dell’essenzialità fissata proprio a Roma da Antonio da Sangallo il Giovane. L’austera monumentalità dell’architettura del Monte allude alla missione spirituale dell’istituzione assistenziale rivolta alla Carità e alla Pietà in favore dei poveri e dei bisognosi. Da qui la rarefazione formale dell’impaginato in facciata dove un calibrato uso del lessico controlla la composizione della superficie. Questa, priva di ordini, è scandita da cinque campate e viene interrotta soltanto da un’unica cornice marcapiano e da due coppie di vigorose fasce bugnate in pietra lavica, ciascuna inserita nelle rispettive estremità laterali, dove il grigio delle bugne dentellate si staglia sul rosso dell’intonaco dell’intera superficie. Particolare rilievo monumentale hanno i cinque balconi del piano nobile sormontati da possenti timpani, alternati tondi e triangolari che, spezzati al centro per inserire l’insegna scolpita del Monte, sono gli unici motivi aggettanti dalla superficie occupata, negli altri registri – i primi due e il quarto – da finestre nettamente subordinate ai balconi del piano nobile per dimensione e soluzione formale. Analoga è l’attenuazione plastica del basamento rivestito da lisce lastre di piperno segnato superiormente da un fregio a corridietro e interrotto da un portale dal bugnato, simile a quello adottato nel primo registro della facciata di San Gregorio Armeno.

Anche per il sodalizio della Misericordia l’aumento dei capitali rese possibile la costruzione di una sede più monumentale per mostrare il prestigio raggiunto dal Monte. Ottenuti nuovi spazi in seguito all’acquisto di edifici adiacenti all’originaria fabbrica del di Conforto, per il nuovo edificio fu conferito l’incarico a Francesco Antonio Picchiatti che nel 1658 forniva il progetto di una delle architetture più monumentali del Seicento napoletano. La composizione architettonica rispecchia il modello della dimora gentilizia, come a voler marcare la natura laica dell’ente assistenziale probabilmente per volontà degli stessi governatori: un’elegante facciata su tre registri con un austero porticato a piano terra su cinque arcate scandite da lesene (fig. 5) con capitelli ionici dai chiari tratti michelangioleschi, sormontate da un fregio recante il motto del Monte Fluent ad eum omnes gentes. Alle pregevoli sculture nel loggiato sulla strada, tra cui La Madonna della Misericordia e due figure allegoriche che sunteggiano le sette opere assistenziali del Monte   furono realizzate da Andrea Falcone tra il 1666 e il 1671, su disegno di Cosimo Fanzago e accomunate da un sobrio canone classicheggiante, in linea con le scelte stilistiche del Picchiatti che ne aveva indicato i soggetti e disegnato il registro decorativo.  I due piani superiori, anch’essi ritmati in cinque settori da lesene, mostrano una lunga balconata nel primo livello, occupato dalle sale della celebre quadreria del Monte, e cinque balconi nel secondo piano ornati da volute in stucco e cornici scolpite in piperno con maggiore accentuazione plastica nei balconi della quadreria.  Simile il lessico architettonico adottato dal Picchiatti nell’architettura della chiesa che, con volta a sesto acuto, sei cappelle laterali e l’altare maggiore dove campeggia il dipinto del Caravaggio, mostra superfici scandite dal marmo bianco e grigio con pavimenti delle cappelle, balaustre, pilastri e molti altri particolari, tutti su disegno del Picchiatti autore di una composizione dove mirabilmente coesistono motivi classicisti e magnificenza barocca.   

Simili le vicende del Monte dei Poveri che vide anch’esso aumentare i proventi grazie agli introiti garantiti dall’omonimo banco pubblico istituzionalmente riconosciuto da Regio Assenso nel 1632, ma in realtà già attivo da molti anni. In seguito all’acquisto del palazzo di Gaspare Ricca del 1616, i governatori del sodalizio programmarono ampliamenti e ammodernamenti commissionando i necessari lavori a Giovan Giacomo di Conforto che dal 1598 aveva collaborato con il Cavagna nella fabbrica del Monte di Pietà, il cui modello non fu estraneo alle prima fase confortiana della sistemazione del Monte, come mostra l’originaria posizione della cappella, una delle citazioni  cavagnesche come quella dell’atrio di San Gregorio Armeno  riproposto dal di Conforto nel vestibolo della chiesa dei Santi Marcellino e Festo. Più tardi, in seguito all’ulteriore acquisto dell’adiacente palazzo Cuomo, furono attuati nuovi interventi tra cui la monumentale facciata, realizzata tra il 1770 e il 1773 su progetto di Gaetano Barba.

Proprio il tema delle cappelle e la dislocazione di queste in ciascuno dei palazzi dei tre monti qui tratteggiati, conferma la comune volontà da parte dei governatori di marcare il carattere laico delle istituzioni assistenziali considerando l’oratorio dell’edificio come un corpo accessorio, benché straordinariamente monumentale. Una presenza autonoma, ma tale da non interferire con il disegno della facciata allineata sulla strada come appare nelle distinte soluzioni adottate con grande cura nelle cappelle dei tre enti da Giovan Battista Cavagna, Francesco Antonio Picchiatti e Giovan Giacomo di Conforto  rispettivamente nei monti della Pietà, della Misericordia e dei Poveri e arricchite da dipinti e sculture dei principali artisti del tempo da  Bellisario Corenzio a Caravaggio e Luca Giordano: opere pregevolissime che  tuttavia non compongono in alcun caso il fronte principale dell’edificio. Una differenza che Antony Blunt (1975) rintracciava nel Monte di Pietà quando evidenziava il contrasto tra la «grandiosità rude e mascolina» della facciata del palazzo da quella «delicata e femminea» della cappella, progettata dal Cavagna sul fondale del cortile e inquadrata da un’ariosa prospettiva dalla strada nella scansione portale-arcata centrale del vestibolo. Da qui la scelta dell’ordine ionico, fra gli altri il più elegante e femmineo, traduzione nella sintassi architettonica di quanto annunciato dalla Pietà del Naccherino, al centro del frontone fiancheggiata dagli angeli, e ribadito dalle sculture berniniane della Carità e della Sicurtà – ancora figure femminili – nelle due nicchie arcuate simmetriche al portale: una trilogia quindi che, movendo dalla Pietà, madre di Cristo e della Chiesa, ma anche pietas, devozione e sentimento religioso, continua con la Carità e la Sicurezza a chiusura di un triangolo visivo con al vertice il gruppo del Naccherino. Presenza sì subordinata che tuttavia palesa gli assunti tridentini sulla chiarezza della creazione artistica e sulla comprensibilità del messaggio veicolato da un’architettura paradigma del classicismo  cinquecentesco  con rimandi locali alla sintassi mormandea della facciata di Santa Maria della Stella alle Paparelle (1519)  e a quelli vignoleschi di Santa Andrea della Valle in via Flaminia (1550-1553) e ad altre opere romane di Antonio da Sangallo il Giovane  come le facciata per Santa Maria di Loreto e Santo Spirito in Sassia. 

Ma al di là dei possibili  riferimenti è indubbio e va sostenuto che il Cavagna nella facciata della cappella del Monte traduce la severa solennità del modello napoletano e di quelli romani in una composizione elegante e delicata dove l’introduzione di pitture nel registro superiore al timpano, oggi completamente sbiadite, le statue, i marmi, le cornici e le pietre mische, citate nei documenti, denotano un’ espressività dove l’autore rinuncia a quel rigore manifestato nel fronte sulla strada: ecco che il tema classicista del prospetto sulla strada ritmato da quattro lesene rudentate e concluso da timpano viene qui rielaborato da un’aggettivazione formale tutta protesa alla celebrazione della Madonna vista qui più che come Vergine, come Madre dolente, come Pietà appunto, ispiratrice del Sacro Monte fondato per soccorrere il popolo.

Quantunque con accenti lessicali e cadenze differenti, l’allontanamento della cappella dalla facciata dell’edificio ricorre anche nel Monte della Misericordia e in quello dei Poveri. Se nel Monte di Pietà la sacralità della cappella segna il fondale di un edificio agganciato in prospettiva alla strada da un portale vignolesco e da un vestibolo di inusitate dimensioni fino ad allora a Napoli, nella monumentale sede del Pio Monte della Misericordia il Picchiatti esclude la cappella a pianta ottagonale dalla composizione della facciata che maschera la presenza dell’aula sacra con accesso  in corrispondenza di una delle arcate del porticato ornato dalle sculture disegnate dal Fanzago (fig. 6).  Per il Monte dei Poveri invece, nella pur lunga vicenda costruttiva dell’edificio, fu conservata l’idea confortiana di collocare la cappella sul fondale della scenica prospettiva inquadrata dalla strada attraverso il portale (fig. 7) , sperimentato vent’anni prima nel monte progettato dal  Cavagna destinato evidentemente a fornire un modello per il di Conforto che, fin dal 1598, collaborava insieme a Giovan Cola di Franco con il maestro romano nel cantiere del Monte di Pietà, essendo  citati nei pagamenti quali «fabbricatori (…) ne la fabrica de la nova casa del monte» (ASBN, Pietà, Libro Patrimoniale, matr. 8, f° 284).

Preceduta da un atrio contenente dal 1618 le statue marmoree di San Tommaso d’Aquino, San Gennaro, San Severo e Sant’Antonio da Padova di Gerolamo D’Auria, l’oratorio fu più tardi ampliato conservando l’originaria giacitura. Nel 1669 i governatori del Monte avevano infatti deliberato la costruzione di una nuova cappella progettata da Onofrio Tango che non mutò l’originario allontanamento assiale della cappella ripreso dal palazzo del Monte di Pietà. Pochi anni dopo, la policromia della pittura e la multiforme plastica barocca delinearono la straordinaria teatralità dell’interno: nel 1672 interveniva Luca Giordano dipingendo  l’Immacolata Concezione nella volta e l’anno dopo la Circoncisione sull’altare, ai cui lati furono aggiunte tra il 1685-1686 un’Annunciazione e una Natività di Francesco Solimena, cui seguirono il pavimento del presbiterio e la balaustra di Domenico Antonio Vaccaro e, nel 1767,  la macchina barocca dell’altare su disegno di Gaetano Barba.

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Foto di Mario Ferrara

Pio Monte della Misericordia

Il Pio Monte della Misericordia di Napoli

Di Emanuele Taranto

Il Monte di Misericordia, nato in seno a uno dei massimi valori che espresse la città di Napoli vide la luce agli albori del Seicento, allorquando in una società tormentata da epidemie e miserie sette giovani aristocratici, prefiggendosi il compimento delle opere di misericordia, dedicarono la propria esistenza all’aiuto dei bisognosi, e oggi a distanza di quattrocento anni il Pio Monte è ancora lì a esercitare e sostenere iniziative filantropiche e solidali.

Nell’alveo dunque della realtà assistenziale, imperante nella capitale del viceregno spagnolo, affonda le sue radici la storia del sacro Monte delle Sette Opere di Misericordia. È nel perseguire quel massimo sentimento di pietas che altrettanti «sette Gentil’uomini Napolitani»[1] vollero costituire all’alba del 1601 un monte. I primi episodi legati alla sua istituzione ebbero invero il loro principio nell’Ospedale degli Incurabili (fondato da Maria Longo nel 1521), la «scuola delle umane miserie»[2] dove ogni venerdì Cesare Sersale, Giovan Andrea Gambacorta, Girolami Lagni, Astorgio Agnese, Giovan Battista D’Alessandro, Giovan Vincenzo Piscicello e Giovan Battista Manzo andavano a servire gli infermi. Nomi che tutt’oggi ritroviamo incisi a suggellarne la memoria sulla lapide nel maestoso vestibolo d’ingresso. Di qui nel solco di questo simbolico atto e mossi da spirito caritativo, i sette vollero dar seguito a un’opera «per tirare altri alla via di Dio»[3], sicché uno di essi sarebbe andato ogni mese per le strade di Napoli a elemosinare aiuto in nome del sostegno ai malati.

L’aneddoto storico fondativo del Pio Monte rimane inscindibilmente legato ai trentatré carlini, primo e degno capitale, «uguale nel numero agli anni del Redentore»[4], che furono raccolti dalla cassetta di Cesare Sersale, primo mensario del sodalizio, nonché colui che inaugurò tale pratica il terzo venerdì dell’agosto 1601. Quanto più crebbe «di merito l’opera, tanto più colle sue trombe la fama ne pubblicava le glorie»[5] e di lì a pochi mesi tale risonanza ne moltiplicò il numero dei membri e grazie alle cui offerte, il 19 aprile del 1602 fu finalmente possibile instituire un Monte che potesse esercitare non soltanto una, ma tutte e sette le opere di Misericordia (Matteo XXV, 25,34). L’esercizio delle stesse fu poi solennemente sancito con missiva datata 10 luglio 1604, dal viceré Alfonso Pimentel di Errera conte di Benavente e a sua volta dal Regio Assenso del re Filippo III, sotto forma dell’esclusivo Privilegium[6]. Seguì infine il placet del 15 novembre del 1605 da parte del pontefice Paolo V, il quale plaudendo la nuova pia istituzione la assoggettò alla giurisdizione della Santa Sede Apostolica[7], e non a quella ordinaria per effetto del Concilio Tridentino[8]. L’approvazione avvenne per mezzo del sigillo papale emesso dalla Cancelleria Pontificia, un atto del tutto inusuale per una confraternita laicale.

Ciascuno dei sette giovani nobili, secondo un criterio di anzianità era assegnatario del governo di un’opera. Al più giovane veniva demandata la visita agli infermi, e in successione d’età: seppellire i morti, visitare i carcerati, riscattare i cattivi, il quinto andava in soccorso dei ‘vergognosi’ ovverosia curava quelle azioni «di dare da mangiare agli affamati, bere agl’assetati, e vestire l’ignudi»[9], il sesto offriva ospitalità ai pellegrini, e in ultimo il più anziano era custode e amministratore del patrimonio economico. Essi conservavano la carica di governatore tre anni e mezzo, superati i quali non potevano essere rieletti se non per esplicito volere della Giunta, dopo altri tre anni; in ogni caso potevano talora dopo sei mesi passare alla gestione di un’altra opera. Le donne infine potevano essere aggregate al sodalizio in qualità di benefattrici del Monte, previa richiesta all’adunanza dei sette che si teneva due volte a settimana.

In principio gli ‘uffici’ del Monte ebbero la loro temporanea sistemazione presso alcune stanze dell’Ospedale degli Incurabili, per essere quindi dislocati nel 1606 nell’odierna sede dall’eminente ubicazione. Siamo su via dei Tribunali, il maggiore dei tre plateiai che conformavano l’antico nucleo greco della città, a pochi passi dal foro romano, già agorà greca, e dal suo Macellum, nell’attuale complesso di San Lorenzo Maggiore. A impreziosire notevolmente la facciata del Pio Monte, si erge inoltre antistante la pregevole e più antica guglia cittadina dedicata a San Gennaro, progettata da Cosimo Fanzago (1636-60). Siamo infatti nelle immediate adiacenze della massima chiesa napoletana, il cui ingresso laterale segna piazza Riario Sforza, lo slargo prospiciente proprio il portico della Misericordia.

Il «copioso e ordinatissimo archivio» ancora oggi diligentemente custodito nei suoi locali, oltre che darci contezza nei secoli sullo stato dell’arte interno alla fabbrica, ricalca le vicissitudini storiche susseguitesi dalla sua fondazione ai successivi ampliamenti. Si arguisce dai Libri di fabrica come sia stato l’architetto Francesco Antonio Picchiatti il principale artefice dell’odierna facies dell’edificio, ma prima di questi fu Giovan Giacomo di Conforto, in qualità di ingegnere ordinario del Monte, il primo interprete della composizione tipologico-insulare fra il 1605 e 1608. Il Conforto in un totale riassetto e riadeguamento funzionale delle precedenti residenze, detterà pertanto la primitiva disposizione spaziale dei suoi volumi, affiancando in tal caso una chiesa alla corte interna, baricentro su cui condenserà la vita congregativa e in cui trovano affaccio le stanze di associazione. Il primo edificio fu infatti innalzato dall’architetto in luogo delle case della famiglia Tomacelli e del Marchese della Gioiosa (dall’antico toponimo del Pallonetto di Santa Chiara) comprese fra vicolo Zuroli e quello dei Carboni (poi Carbonari), acquistate entrambe nel 1604 al prezzo di 6.530 ducati. Ricavata dal Conforto la chiesa, poi intitolata a ‘Nostra Signora della Misericordia, i governatori commissionarono appositamente per il suo altare maggiore la celeberrima tela a Michelangelo Merisi da Caravaggio, e la cui fede di credito datata 9 gennaio 1607, con cui sarà pagato di 400 ducati dal Monte, è tuttora conservata presso i registri del limitrofo archivio storico del Banco di Napoli, già Palazzo Ricca.

Tra le figure più interessanti e legata all’amministrazione ordinaria della Casa emerge il cosiddetto Segretario, o anche il «Maestro di casa»[10]. Subordinato ai governatori, sarà questi ad assistere tutte le attività minori del Monte, come pure sarà suo obbligo in relazione ai vari stabili della confraternita, ottemperare a tutte «le accomodazioni, riparazioni, e ogni altra cosa bisognevole»[11]. Delegato sia per Napoli che per le ulteriori sedi distaccate della congregazione, era colui con il quale infatti si interfacciavano gli architetti e le maestranze per i motivi più vari, dalla ricerca dei materiali da adoperare, fino alla rendicontazione delle semplici attività manutentive.

Da distinguersi rispetto al Maestro di Casa è invece la persona dell’Ingegnere ordinario del Monte, incarico regolamentato dallo statuto del 1777. Rivestiranno fra gli altri tale ruolo sia il Conforto che il Picchiatti, una guida necessaria per una «Casa così ricca, di edifizj, e di stabili» e preposta alla realizzazione di «tutti gli accessi, disegni, misure, piante, relazioni, ed apprezzi, che occorreranno in tutti gli stabili del Monte, [e parimenti al Maestro di Casa] così dentro come fuori di Napoli»[12], con particolare attenzione alle attività portate avanti nell’Ospedale degli Incurabili e alla causa ischitana. Tra le tante ramificazioni dell’Opera annoveriamo difatti l’edificazione dell’istituto termale a Casamicciola di Ischia per curare i sofferenti grazie alle acque vulcanico-terapeutiche affioranti in loco[13], un ospedale e un oratorio presso il carcere della Vicaria così da poter pregare insieme ai reclusi, e a seguire nel tempo avremo anche sotto la gerenza del Monte un asilo infantile a Bacoli, una casa di riposo per anziani e un seminario per i nobili guidato dai Padri Gesuiti. Proprio a questi ultimi il pio sodalizio donò in origine un terreno sul quale venne poi edificato la Chiesa di San Carminiello al Mercato.

Ebbene la fama del Monte in pochi decenni crebbe a tal punto che le ridotte dimensioni del progetto confortiano per la Casa Madre napoletana risultarono presto inadeguate, talché i governatori in nome dell’allora Segretario Michele Blanch, marchese di San Giovanni, decretarono l’ampliamento del complesso e investirono dell’incarico Francesco Antonio Picchiatti, ingegnere ordinario del Monte, nonché di lì a poco in carica come massimo ingegnere del Regno (1656, succedendo a Onorio Antonio Gisolfo). Mutate dunque le esigenze congregative, le intenzioni dei congregati era ambiziose, saranno indi acquistate il 16 ottobre 1651 ulteriori due case tra vico Zuroli e vico Carbonari, e ancora una terza dal Principe di Ruoti. In quest’ultimo caso unitamente alla contigua cappella degli Agozzini della Vicaria, il cui ottenimento non comportò però alcuna spesa dacché fu fatta riedificare nel vicino vicolo di Santa Maria ad Agnone. Tutto questo «al fine di creare tutta una insula dedicata al Monte, Casa, cortile e Chiesa con atrio». Il Picchiatti, scrive il De Dominici, conosciuto dal volgo anche con l’appellativo di Ciccio Picchiatti, o più frequentemente Picchetti, indugiò tuttavia fino al 9 novembre 1658 per l’ultimazione del disegno progettuale e la successiva posa della prima pietra, ma in ogni caso si profilerà come uno degli edifici più monumentali del Seicento napoletano.

L’architetto impose per la fabbrica uno sviluppo in alzato su tre livelli, contrassegnando il pianterreno di un grande loggiato d’ingresso rivestito da piperno a scandire con le sue arcate, l’euritmia delle cinque campate configuranti il prospetto ed è unitariamente conformato a uno stile sobrio e classicheggiante, in linea con il linguaggio stilistico dell’autore. Il portico rappresenta oltre che un’espediente circostanziale dell’Ingegnere Regio, fungendo da diaframma tra il caos del decumano maior e gli ambienti comunitari, anche il tema compositivo che ribadisce il carattere laico dell’edificio. Viene ad essere infatti totalmente celata in facciata e nei prospetti laterali, la presenza della retrostante chiesa, come altresì non viene denunciato all’interno della loggia l’accesso alla stessa, che si confonde a guisa dell’entrata al cortile interno, come a voler rimarcare il modello di un palazzo gentilizio, plausibilmente per volontà dei governatori stessi. I sette archi del portico (cinque sul fronte strada, e uno su ciascuno dei due prospetti laterali) presentano pilastri ornati di capitelli ionici ridisegnati secondo la nota invenzione del Buonarroti, ossia con il festone di drappo pendente al centro e appeso alle volute. L’epigrafe del fregio marmoreo reca il motto dell’Opera, tratto dal versetto d’Isaia (2,2): Fluent ad eum omnes gentes (“concorrono ad esso tutte le genti”, chiaro rinvio alla natura assistenziale del Monte). Entrando nel porticato vediamo oggi come allora, arricchire la parete due rilevanti nicchie colmate da peculiari statue all’estremità destra e sinistra, centralmente invece ammiriamo un’edicola mariana dalla raffinata composizione barocca. Le arcate intermedie assolvo ambedue una funzione di ingresso, quella di sinistra conduce al cortile interno, mentre a destra abbiamo la porta di accesso alla chiesa.

Si delinea in facciata una soluzione compositiva su tre registri, con sovrapposizione degli ordini. Di qui, correlate allo ionico suaccennato del piano terra, registriamo le lesene corinzie e composite rispettivamente al piano nobile e al secondo, modellate su di un rarissimo fondo in stucco non liscio ma striato. Ornamento accentuato nel movimentato addobbo a contornare le aperture dei balconi, una plasticità che al primo piano si aggiunge al ricercato disegno della cornice in piperno architravata. I due piani superiori mostrano inoltre al primo livello, una lunga unica balconata e corrispondente alle sale della Quadreria, mentre al secondo in cinque settori di lesene sono ritmati da altrettanti balconi.

Grazie alla conservazione dei Libri di fabrica siamo in aggiunta a conoscenza delle maestranze che lavorarono alla facciata. Figurano tra gli autori: Michelangelo Rapi intagliatore dei capitelli ionici basamentali; Salomone Rapi e Pietro Pelliccia furono coloro che realizzarono e apposero le ventidue lettere in marmo a coronare il fregio del portico; sempre il Pelliccia sarà protagonista dell’esecuzione dei capitelli corinzi e compositi ai registri superiori, come pure lavorò, insieme al lapicida Pietro Valentino, nel plasmare quell’accentuazione dinamica della cornice in piperno anzidetta che distingue i sette balconi del piano nobile; infine fra gli attori principi troviamo lo scultore Andrea Falcone che modellò l’apparato ornamentale barocco in cui sono inscritte le porte del cortile, insieme all'imponente scalinata ma nettamente più sobria, quello della chiesa con le sue statue e globalmente del loggiato[14].

La resa dei capitelli lapidei di Michelangelo Rapi sarà tuttavia parzialmente disapprovata nei secoli avvenire, poiché dalla consistenza materiale troppo esile e non destinata a resistere. Già nel 1763 i due architetti Mario Gioffredo e Luca Vecchione che rimaneggiarono il complesso, riposero in opera quattro capitelli ionici frantumatisi, e nuovamente nell’intervento restaurativo del 1879 affidato all’architetto e archeologo Michele Ruggiero. Tutt’oggi constatiamo il degrado dei capitelli dell’ordine basamentale, lacunosi in più parti.

Facendo ritorno al loggiato su via Tribunali, tema discusso è la paternità delle statue collocate nelle due nicchie delle ultime campate. Ambiziose erano in tal caso le iniziali mire del sodalizio, volendo commissionare l’opera scultorea all’ormai troppo celebre Gian Lorenzo Bernini, come attesta la missiva del 1660 che il Principe di Cellammare indirizzò da Roma al Vescovo di Bisaccia e Sant’Angelo, riferendo qui l’indisponibilità del maestro ormai oberato da molti e più grandi incarichi. La scelta virò sull’emergente Ercole Ferrata, già allievo del maestro Algardi fra i massimi scultori della scuola romana, il quale godeva di grande rinomanza alla stregua del Bernini. Ciononostante, non è ben chiaro come a distanza di sei anni sarà deputato della realizzazione delle statue l’anonimo Andrea Falcone, nipote di Agnello Falcone che già servì il monte in diversi dipinti. Probabilmente proprio a causa della sua scarsa reputazione gli fu imposto dai governatori l’esatto disegno delle opere, questo inoltre prefigurato per mano del Picchiatti. Successivamente doveva sopraintendere i lavori di scolpitura Cosimo Fanzago che, come si legge da rogito datato 1666, intervenne per fare «disegni, pensieri e modelli»[15] e per cui furono prefissati 200 ducati da pagarsi, a fronte dei 1.200 spettanti al Falcone suo reale esecutore. Al bergamasco saranno ad ogni modo corrisposti soltanto 40 ducati, non avendo in effetti per nulla affiancato lo scultore durante la lavorazione delle statue. La restituzione finale rimaneva per Falcone nondimeno ardua, avendo dovuto il Picchiatti concentrare in sole due soluzioni marmoree, l’interpretazione allegorica delle sette opere di misericordia di cui il Monte è espressione.

Proseguendo dal portico alla corte interna, rappresentativo come per ogni compagine il fulcro ‘formale’ e della vita comunitaria, qui il Regio Ingegnere sarà l’ideatore altresì della grande scala a servire gli ‘uffici’ del Monte fino al secondo piano, in cui traspare un disegno dall’impaginato decisamente equilibrato. Ben più ricercato ed elegante è lo studio compositivo del preminente compito che impegnò il Picchiatti all’interno della fabbrica, ossia la ricostruzione della nuova chiesa che sostituisce la precedente di dimensioni minori del Conforto. Domina la sua conformazione architettonica un’impostazione planimetrica centrale ottagonale, in cui per di più gli otto angoli sono nascosti da altrettante ampie lesene di ordine composito, singolarissime queste, giacché si mostrano senza piedistallo e sospese su di una mensola floreale. La loro larghezza non fa altro che pronunciare fortemente la circolarità dell’invaso, sia in pianta che in alzato; le stesse lesene infatti si prolungano fino all’intradosso della cupola, tramutandosi negli otto costoloni a sesto acuto che culminano nella piccola lanterna. Il simbolico bagliore dell’oculo sommitale viene ad essere notevolmente intensificato, da uno dei due ordini di finestre che forano la calotta della cupola, mentre quello inferiore, che appare cieco, denota un ristretto tamburo.

Degli otto lati poi ne evidenziano quattro maggiori a formare una croce greca, in corrispondenza dell’asse di accesso, e in cui sono presenti tre cappelloni (il quarto lato è l’entrata) che raggiungono la cornice della tribuna; di converso, seguono quattro lati minori in subordine, dalle cappelle più esigue e sovrastate da balconate balaustrate raggiungibili da scalette ricavate alle loro spalle. Ascriviamo ad Andrea Falcone e congiuntamente al marmoraro Andrea Pelliccia, la realizzazione del lessico decorativo interno alla chiesa, e particolarmente in un singolo motivo che si ripete minuzioso nei balaustri del primo registro, specificatamente nei ricchi paliotti degli altari, e nel secondo con le balconate. Lo stemma ai piedi dell’altare maggiore è quello rappresentativo dei sette monti su cui campeggia la croce.

L’intera configurazione interna si contraddistingue di una tenue bicromia, effetto dei marmi bianchi accostati al grigio degli articolati ornamenti parietali, estesi uniformemente fino alla cupola. Esemplare la dissonanza policroma di marmi commessi che è lasciata agli altari e alla straordinaria composizione pavimentale a raggiera (in marmo e cotto), dal cui simbolico centro si dipartono otto fasci di una sorgente luminosa ideale a irradiare emblematicamente l’ottagono. Una codificazione di geometrie centrali che richiama gli altari radialmente disposti, in un astratto ricongiungimento degli estremi con il loro baricentro compositivo e da cui, infine, ci si eleva all’acme luminescente della cupola, coronata dall’apicale lanterna. Un luogo dove mirabilmente coesistono e si confrontano la formazione classicista del Picchiatti e il successivo estro barocco.

Sarà su precisa indicazione dei governatori che nella chiesa, oltre quello maggiore, furono innalzati gli altri sei altari adornati dalla sistemazione di altrettanti grandiosi dipinti, espressivi questi delle opere di Misericordia, e possiamo apprezzare da sinistra: la Liberazione di San Pietro di Battistello Caracciolo (1615); la Deposizione della Croce di Luca Giordano (1671); San Pietro che resuscita tibitha di Fabrizio Santafede (1611); Il Buon Samaritano di Giovan Vincenzo Forlì (1607); Cristo ospitato in casa di Marta e Maria ancora di Fabrizio Santafede (1612); San Paolino che libera lo schiavo di Giovan Bernardo Azzolino (1626 ca.); conclude in controfacciata Cristo e l’adultera di Luca Giordano (1660 ca.), e ancora un organo barocco di pregevole fattura di legno intarsiato e dipinto d’oro nel soprastante coretto, che permette così di presenziare alle funzioni anche dal piano nobile. Ai lati invece del capolavoro del Merisi troviamo infine la Vergine della Purità a opera di Andrea Malinconico (1670 ca.) e Sant’Anna di Giacomo De Castro (1665 ca.). Nota di rilievo in relazione agli ultimi quadri è l’approssimativo ‘restauro’ patito tra il 1848 e il 1850 e a opera da Agnello D’Aloisio, del quale francamente poi si dirà: «non altro aveva di pittore che il nome e i pennelli»[16]. Le tele più antiche dovettero verosimilmente decorare la precedente chiesa del Conforto per essere quindi riposizionate nella nuova.

La fabbrica fu sotto la direzione del Picchiatti per ben un ventennio. La prima attestazione è quella del 9 novembre 1658, data in cui l’architetto ultimò il disegno di progetto e di qui prontamente pagato di 80 ducati annui, beninteso esclusa la manutenzione di cui era responsabile in qualità di ingegnere ordinario del Monte. L’ultima corresponsione documentata è quella datata 23 febbraio 1678 (vivrà ancora 16 anni), e da qui non ci è dato sapere la motivazione per cui gli amministratori conferirono i lavori di prosecuzione del cantiere, nel novembre dello stesso anno, a Bonaventura Presti. Questi cionondimeno non completò la sistemazione del cortile, rimasto oggi parzialmente inconcluso.

Per arrivare ai successivi interventi restaurativi succitati, quello settecentesco di Mario Gioffredo e Luca Vecchione e il seguente ottocentesco assegnato a Michele Ruggiero. L’ultimo restauro però in ordine di tempo ci rinvia ai primissimi anni del nuovo millennio, è stato infatti completato in occasione del quarto centenario della fondazione dell’ente. Momento in cui veniva insieme riaperta la Pinacoteca del Monte (31 maggio del 2003) chiusa all’indomani del terremoto del 1980, che comportò seri danni al complesso, segnatamente alla facciata di via dei Tribunali e alla cupola della chiesa. Un’intensa e complessa compagna conservativa volta al consolidamento strutturale e a rendere antisismico l’edificio, insieme a interventi secondari come l’eliminazione delle superfetazioni addossatesi al terzo piano durante il XX secolo. Spiccano inoltre le azioni a protezione dei prospetti del cortile interno, come pure della facciata che presenta l’accennato intonaco rigato voluto dal Picchiatti, lì dove le incisioni parallele verticali giocano con la luce, in un effetto dall’esito animato e cangiante a seconda delle ore diurne.

Per la prima volta veniva quindi aperta al pubblico la Quadreria che è custodita al piano nobile, anch’essa ugualmente oggetto di intervento, nella fattispecie in un’invasiva sostituzione del pavimento. La preziosa raccolta non è che il risultato di donazioni e lasciti testamentari, che sin dal 1622 hanno contribuito alla ricchezza oltre che finanziaria, anche artistica della Misericordia. Sennonché nel più dei casi la loro donazione era in realtà condizionata a una futura vendita, al fine di foraggiare le innumerevoli opere caritatevoli prefisse dal Monte. Esclusi tuttavia i 78 dipinti venduti fra il 1845-1846, il patrimonio pittorico della Pinacoteca è rimasto sostanzialmente indenne nei secoli. Fortunatamente, infatti, i governatori hanno sin da subito colto il valore testimoniale e il portato intellettuale di questo grande capitale sociale, mostrandosi restii alla loro vendita per meri fini di lucro e oggi, dunque, possiamo ammirare quanto si è prodotto a Napoli in quattrocento anni di storia.

Un corpus pittorico che al suo interno si suddivide di tre grandi collezioni: la prima direttamente commissionata dal Monte per la chiesa agli stessi artisti; le opere ereditate dal pittore Francesco De Mura; e la più numerosa che trae origine dalla donazione di Maria Sofia Capece Galeota. Quella di De Mura con le sue 41 tele, conservate presso la Quadreria, rappresenta una preziosa conoscenza dell’evoluzione di un’artista che sarà presente oltre che in numerose chiese napoletane, anche presso le corti reali di Napoli, Torino e Madrid. Su tutti, capeggiano gli studi per l’Abbazia di Montecassino unica testimonianza dopo la perdita degli affreschi del 1944. L’ultimo nucleo è invece frutto di un lascito del 1933 per mano del barone Giuseppe Carelli, che lasciò alla Misericordia tutte le sue sostanze, che includevano inoltre 31 dipinti. Nel novero rientrano eccezionali tele, capolavori indiscussi del Cinque e Seicento. Menzioniamo al riguardo l’Autoritratto di Luca Giordano, La Sacra famiglia con Santa Lucia di Fabrizio Santafede, la Pietà di Andrea Vaccaro; chiudono due rari esempi di grandi ritratti ufficiali equestri di Carlo e Leonardo di Toco, personaggi in di rilievo presso la corte vicereale.

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[1] Istruzioni per lo governo del Monte della Misericordia, cavate dalli primi Statuti ... da D. Gaetano Ape, Napoli, Stamperie di F. Mosca 1705, Introduzione.

[2] Ibidem.

[3] Ibidem.

[4] Ibidem.

[5] Ibidem.

[6] Vidimato all’interno delle Capitolazioni del Monte dal notaio Aniello Auricola nel 1603.

[7] Istruzioni per lo governo del Monte della Misericordia, dipendenti da primitivi statuti relativi alla fondazione del Monte istesso ... dal Rev. D. Antonio Venuto, Napoli, Stampatore G. Migliaccio 1777, p. 3.

[8] Istruzioni ... da D. Gaetano Ape, 1705, op. cit., Istruzioni. Per lo Governo del Monte e delle sette opere della Misericordia, Parte Prima.

[9] Ivi, Parte quarta.

[10] Ivi, Del Governo del Patrimonio del Monte, Parte Seconda.

[11] Ivi, Capitolo III, Maestro di Casa, e suoi pesi.

[12] Istruzioni ... dal Rev. D. Antonio Venuto, 1777, op. cit., p. 218.

[13] Delle proprietà benefiche delle acque vulcaniche ischitane ci dà conto già nel 1588 medico di corte Giulio Jasolino nella sua opera De Rimedi Naturali che Sono nell'Isola di Pithecusa, Hoggi Detta Ischia

[14] M. Ruggiero, II Monte della misericordia: l’edifizio, in «Napoli nobilissima», vol.  XI 1902 (Pubblicazione postuma e proveniente dagli Atti della Real Accademia di archeologia, lettere e belle arti), pp. 7-10.

[15] Ivi, p. 9.

[16] Ivi, p. 10.

Il duomo di Napoli

Il Duomo di Napoli: dalla fondazione a oggi

Roberta Ruggiero, Alberto Terminio

Il sito

La basilica che oggi il visitatore percorre risale all’epoca angioina, quando Napoli fu capitale del regno. Essa è il risultato di una complessa storia di stratificazioni, rimaneggiamenti e restauri verificatisi nel corso di sette secoli, a partire dalla sua fondazione voluta da Carlo II d’Angiò nel 1294.

Non è possibile però comprendere tali vicissitudini senza prima conoscere come si presentava il sito negli anni antecedenti la realizzazione della basilica di nostro interesse. L’area ad est di via Duomo, dove oggi troviamo la chiesa, infatti, è da sempre stata occupata dalla cosiddetta insula episcopalis, ovvero quell’area dove, sin dall’antichità, furono erette costruzioni sacre poi trasformate e, in parte, inglobate nel cantiere del nuovo duomo. L’insula, composta da quattro insule semplici e perimetrata dalle attuali via Duomo, via Donnaregina, via Santi Apostoli, vicolo Sedil Capuano e via dei Tribunali, ospitava anticamente tre chiese. La prima è la chiesa di Sant’Andrea Apostolo con il suo ospedale, già annesso all’ospedale della Santissima Annunziata dal papa Eugenio IV; quella di Santa Restituta che, risalente al IV secolo d.C., si estendeva maggiormente rispetto ad oggi fino ad occupare buona parte dell’attuale area longitudinale della basilica; il battistero di San Giovanni in Fonte ad oriente di Santa Restituta, visibile ancora oggi; infine, la chiesa comunemente conosciuta come la Stefania, fatta erigere dal vescovo di Napoli Stefano I verso l’inizio del VI secolo e, in seguito ad un incendio che la distrusse quasi totalmente, ricostruita dal vescovo Stefano II nel 768 circa.

Come riportato da Franco Strazzullo nei suoi Saggi storici sul Duomo di Napoli, alcuni storici anteriori al XVII secolo attribuivano la costruzione del nuovo duomo al sovrano Carlo I d’Angiò; documenti più recenti hanno però attestato che fu il suo successore, il figlio Carlo II, con il supporto dell’arcivescovo Filippo Minutolo, l’artefice dell’opera quando rientrò definitivamente a Napoli nella primavera del 1294. Attraverso un documento del 29 agosto 1299, un privilegio accordato dal re Carlo II in cui si legge «in subsidium espensarum fabrice maioris Neapolitane Matris Ecclesie quam in Honorem Beate Virgini Nos ipsi de novo fundavimus», è stato infatti possibile ricostruire che il sovrano aveva promosso il pagamento di un grano da parte del popolo affinché potessero essere portati avanti i lavori della nuova chiesa. Sotto il regno di Roberto d’Angiò l’opera fu conclusa e, nel 1314, la cattedrale fu consacrata da Umberto d’Ormont, arcivescovo di Napoli, e dedicata all’Assunta.

I lavori per la realizzazione della nuova cattedrale, affinché questa potesse essere inserita nell’insula episcopalis, iniziarono dalla demolizione di buona parte della Stefania sulle cui fondamenta furono costruiti il transetto e le absidi orientali del Duomo; il suo impianto era, potremmo dire, ruotato di 90 gradi rispetto alle strutture preesistenti, formando un angolo retto con le stesse. In un secondo momento, tra il 1303 e il 1305, furono poi demolite le ultime parti superstiti della Stefania per far posto alla cappella sepolcrale, l’attuale sacrestia, adiacente al braccio settentrionale del transetto. Un destino analogo doveva spettare alla chiesa di Santa Restituta che, secondo il progetto originario, doveva essere ridotta o demolita per far posto al nuovo Duomo. Quando nel 1310, però, il beato Nicolò – un eremita lombardo residente a Napoli – fu assassinato e il suo corpo sepolto in Santa Restituta, le sorti della chiesa cambiarono: il collegio dei canonici della cattedrale destinò la vecchia basilica a luogo di culto del beato e, protetta dalla sua giurisdizione, la chiesa fu inglobata nella nuova costruzione come cappella.

L’architettura della cattedrale angioina

Se, ancora oggi, la paternità della fabbrica è un argomento controverso – secondo alcuni storici sarebbe stata opera di un francese o comunque di un architetto d’oltralpe, secondo altri si tratterebbe di un maestro locale – altrettanto discusso è il suo stile. Sebbene costruito in età angioina, infatti, il Duomo di Napoli, come sostenuto dalla storica dell’arte Caroline Bruzelius, presenta tanto caratteri dell’architettura gotica quanto elementi dissonanti che afferiscono ad una tradizione costruttiva locale e quindi differente da quello che si sviluppa oltralpe; a questo va poi aggiunto che i numerosi interventi di restauro subiti negli anni ne hanno sicuramente alterato l’aspetto originario.

Orientato in direzione est-ovest, il duomo è costituito da un corpo longitudinale di otto campate con cappelle laterali che, dislocate su tutta la lunghezza di entrambi i fianchi, furono patrocinate da alcune famiglie nobili napoletane. Il transetto, invece, era originariamente costituito da tre absidi a pianta poligonale che, allineati con le tre navate di cui si compone la chiesa, ne rispettavano la larghezza.

La facciata

Quella che oggi primeggia su via Duomo non è l’originaria facciata della basilica poiché dal Trecento all’ultimo progetto ottocentesco di Errico Alvino la stessa ha subito diversi rifacimenti.

Già nel settembre del 1349, a pochi anni dall’apertura della chiesa, un terremoto danneggiò gravemente l’edificio provocando il crollo del campanile e della facciata. Nonostante sia difficile risalire al suo antico aspetto, le fonti attestano che i due leoni stilofori, le colonne in porfido che li sovrastano e il Mater Orbis del lunettone centrale, opere dello scultore senese Tino di Camaino, sono gli unici pezzi superstiti dell’originario portale. Questo fu completato dallo scultore Antonio Baboccio da Piperno che, nel 1407, realizzò una serie di sculture in onore del cardinale Enrico Minutolo come testimoniato da un’epigrafe posta ai piedi della Mater Orbis. Il gruppo scultoreo del Baboccio si compone di otto edicole di santi, che si ergono sulle colonne in porfido, la ghimberga con l’arcangelo San Michele e i pinnacoli sui quali trovano posto le statue dell’arcangelo Gabriele e dell’Annunziata. Accanto alla Madonna col bambino figurano, poi, le sculture dei santi Pietro e Gennaro e del cardinale Minutolo adorante. Sull’architrave sono scolpiti i quattro Evangelisti e gli stemmi dei Durazzo e del cardinale Minutolo mentre, lungo la ghiera dell’arco, sono disposti i dodici apostoli sormontati, nel vertice, dallo Spirito Santo adorato da due angeli. Infine, due cori angelici sono raffigurati nel timpano facendo da corteo alla figura della Madonna, incoronata regina da Gesù.

Fatta eccezione per il portale appena descritto, non è noto come si presentasse il resto della facciata del Duomo ai tempi del Baboccio, né si sa con precisione quali e che tipo di interventi di restauro la stessa subì negli anni successivi, danneggiata sicuramente da alcuni eventi sismici. Le prime notizie più certe risalgono al 1787-88 quando il cardinale Giuseppe Capece Zurlo incaricò l’architetto Tommaso Senese del rifacimento della facciata della basilica. Inglobando il portale del Baboccio, il nuovo progetto presentava uno stile non ben definito, né gotico né barocco, tale da rappresentare tanto l’antico quanto il moderno. Date le numerose polemiche sorte intorno al prospetto del Senese, e vista la difficoltà dell’opinione pubblica di accettarne il disegno, dopo circa un secolo il cardinale Sisto Riaro Sforza bandì un concorso per il rifacimento della facciata del Duomo. A vincere fu il progetto di Errico Alvino che, tuttavia, morì prima di poter presentare i disegni definitivi, il 7 giugno 1876. Seppur con qualche piccola modifica, il suo progetto fu ugualmente seguito affidandone l’esecuzione agli architetti Nicola Breglia e Giuseppe Pisanti, con la direzione di Michele Ruggiero e Giovanni Rossi. Con la morte del cardinale Sforza i lavori, totalmente finanziati dal popolo, subirono un arresto; sarà il cardinale Guglielmo Sanfelice ad incentivare nuovamente l’opera e solo il cardinale Giuseppe Prisco la vide terminata nel 1905, in occasione del XVI centenario del martirio di San Gennaro.

Dal punto di vista architettonico, il merito di Alvino consiste nell’essere riuscito ad inserire l’antico portale di ingresso del Baboccio all’interno della più moderna facciata. Ma, se è vero che il portale barocco è perfettamente inglobato nel prospetto ottocentesco, al tempo stesso è stato osservato che tale “cucitura” rappresenta un esempio di “errato concetto di restauro”. Ciò che si recrimina all’architetto è di aver voluto imitare forme gotiche non idonee ai tempi e che non mettono, così, in risalto le poche testimonianze originali del duomo angioino. Timpani cuspidali e guglie ricorrono in tutto il prospetto, riprendendo proprio quei motivi del portale quattrocentesco che sono stati per Alvino, a questo punto, dei veri e propri prototipi sui quali sviluppare il proprio progetto. Collaborarono alla decorazione, infine, i migliori scultori del tempo.

La facciata fu inaugurata dopo 28 anni di lavori ma, ciononostante, risultava ancora incompleta e, oltre a due torri a guglie, mancavano gli altorilievi che avrebbero dovuto affiancare la cuspide del Baboccio; al loro posto, quella fascia fu stuccata e, dopo il suo distacco durante la Seconda guerra mondiale, rivestita con pietra di Bellona durante il restauro del 1951.

Gli interni

La chiesa presenta un impianto a croce latina suddiviso in tre navate, corrispondenti ai tre portali in facciata. La grande navata centrale, lunga circa 100 metri e larga 35 metri, presenta una copertura a cassettoni intagliata e dorata arricchita ulteriormente da cinque tele raffiguranti l’Adorazione dei pastori di Giovanni Balducci, l’Adorazione dei Magi di Giovanni Vincenzo da Forlì, la Circoncisione di Flaminio Allegrini e l’Annunciazione e Presentazione al Tempio di Girolamo Imparato. Tale copertura, in realtà, risale al 1621, quando il cardinale Decio Carafa decise di sostituire l’originale soffitto a capriate lignee con quello odierno. Altri dipinti sono presenti sulle pareti laterali della navata, inscritti in tondi e ovali posti al di sopra di ognuno dei sedici pilastri che la incorniciano lateralmente. Tali raffigurazioni ad olio rappresentano i Santi Apostoli, i Santi dottori della Chiesa e i Santi protettori della città e, preliminarmente abbozzati dal de Dominici, sono opera del pittore Luca Giordano. Commissionati dal cardinale Innigo Caracciolo, al tempo arcivescovo di Napoli, alcune di queste opere furono danneggiate durante il terremoto del 1668 e, per ordine del cardinale Francesco Pignatelli, realizzate nuovamente dal pennello di Francesco Solimena. I sedici pilastri che incorniciano lateralmente la navata, infine, presentano altrettante edicole custodi di busti risalenti al XVII secolo e raffiguranti i primi vescovi della città di Napoli.

Le due navate laterali sono separate da quella centrale dai sopracitati sedici pilastri, otto per ogni lato, a ciascuno dei quali, verso l’interno, si addossano tre colonne in granito sormontate da capitelli gotici in marmo bianco. Tali pilastri con le rispettive tre colonne fungono, così, da imposta per gli archi ogivali, decorati a stucco e marmo, che chiudono lateralmente la navata principale e per le volte a crociera a copertura delle due navate laterali. Ad arricchire queste ultime sono, infine, dieci cappelle, cinque per ciascuna navata, tra le quali spiccano la Basilica di Santa Restituta, lungo la navata sinistra, e la celebre cappella del Tesoro di San Gennaro, esattamente di fronte.

La Basilica di Santa Restituta risale al IV secolo e fu fatta erigere dall’imperatore Costantino, probabilmente nel luogo che un tempo era occupato da un antico tempio, in onore della Santa. Prima di essere inglobata all’interno del Duomo come cappella nel XIII secolo, la Basilica doveva essere più grande e disporre di una propria facciata nonché di ingressi per ognuna delle cinque navate di cui era costituita. Di queste, le più esterne, a seguito del terremoto del 1456, furono trasformate in cappelle e i rispettivi ingressi furono murati per dare maggiore forza strutturale all’edificio. A conferirle, infine, l’attuale aspetto barocco furono gli interventi di restauro risalenti alla fine del Seicento condotti dall’architetto Arcangelo Guglielmelli.

Lungo la navata destra, invece, è la cappella del Tesoro di San Gennaro, appartenente non alla curia arcivescovile, ma alla città di Napoli che, rappresentata dalla Deputazione – un’antica istituzione civica – e dai Sedili di Napoli, ne volle la realizzazione. Infatti, nella prima metà del XVI secolo la città visse anni difficili caratterizzati da conflitti bellici, pestilenza ed eruzioni vulcaniche; per ottenere la liberazione dalle disgrazie, il popolo fece voto al santo protettore promettendogli di erigere una nuova cappella in suo onore all’interno del Duomo, in segno di devozione e riconoscimento. I lavori iniziarono l’8 giugno del 1608 sotto la direzione dell’architetto Francesco Grimaldi al quale successero, dopo la sua morte, Ceccardo Bernucci e ancora Giovan Giacomo di Conforto.

Superato il cancello monumentale in bronzo dorato, opera di Cosimo Fanzago, che ne delimita l’ingresso separandola dal Duomo, la cappella ospita, con il suo impianto a croce greca, opere d’arte di inestimabile valore. Tra queste spicca l’altare maggiore, opera di Francesco Solimena, che incornicia il paliotto d’argento raffigurante la Traslazione delle reliquie del santo da Monte Vergine a Napoli, dietro al quale sono collocate due nicchie che custodiscono le ampolle del sangue di San Gennaro; ancora dedicato al santo è il busto reliquario in oro e argento che, commissionato nel 1304 dal re Carlo II d’Angiò a tre maestri orafi, fu donato dallo stesso sovrano alla cappella e collocato davanti all’altare maggiore, sulla sinistra. Dietro l’altare, invece, primeggia il San Gennaro seduto, opera di Giuliano Finelli, allievo di Gian Lorenzo Bernini, che dal centro sembra dirigere le altre diciannove sculture bronzee che contornano la cappella.

Sullo stesso lato della cappella del Tesoro di San Gennaro, nella zona del transetto, troviamo un’altra cappella dedicata alla Madonna dell’Assunta, di particolare interesse in quanto custode di un dipinto – una pala nella fattispecie – opera di Pietro Vannucci, il Perugino, e risalente al 1508-1509. Commissionata da Oliviero Carafa, la pala dell’Assunta era originariamente collocata sull’altare maggiore della chiesa – poi spostata per lasciare spazio all’opera del Bracci, ancora oggi presente –, e raffigura l’assunzione di Maria in cielo.

Tornando nell’ambiente principale del Duomo e percorrendo la navata centrale, poco dopo l’ingresso sulla sinistra è situata una grande acquasantiera, fatta realizzare a spese del cardinale Carafa. Attraverso dei gradini in marmo si raggiunge il battistero sormontato da due statuette in bronzo rappresentanti il battesimo di Gesù. Il battistero è coperto da una piccola cupola, anch’essa in marmo, sorretta da quattro colonne in diaspro verde e capitelli corinzi in bronzo.

Continuando a percorrere la navata centrale, giunti sotto l’ultima arcata prima del transetto, ci si imbatte nelle due cantorie lignee barocche sulle quali sono disposti due dei tre corpi costituenti l’organo maggiore della chiesa. Questi furono realizzati, uno di fronte all’altro, nel 1767 come due corpi gemelli in legno dorato e intagliato proprio per ospitare l’originale organo della chiesa. Quello che vediamo oggi, però, è un nuovo organo a trasmissione elettrica risalente al 1961 e costruito dai fratelli Ruffatti che, accanto ai due elementi che occupano le antiche casse lungo la navata, aggiunsero un terzo elemento, situato nel lato destro del transetto, che completa così la complessa articolazione dell’organo maggiore. Sotto le due casse lignee, poi, sono un pulpito barocco, sul lato destro, attribuito ad Annibale Caccavello, recante nella parte alta la raffigurazione della Predicazione di Gesù, ed un baldacchino gotico, sul lato opposto, risalente agli ultimi anni del Trecento.

Ad impreziosire ancora la chiesa, in controfacciata, i sepolcri di Carlo I d’Angiò, Carlo Martello d’Angiò e di sua moglie Clemenza d’Asburgo, opera di Domenico Fontana e risalenti al 1599. Chiude, infine, la navata centrale l’abside, più volte danneggiato dal susseguirsi degli eventi sismici che negli anni hanno colpito la città e quindi rimaneggiato. Quello che vediamo oggi è il risultato di numerosi interventi, anche di restauro, che a partire dalla seconda metà del Quattrocento hanno modificato l’originale aspetto gotico dell’abside. Gli eventi che comportarono le sue più importanti modifiche furono, però, il ritrovamento delle reliquie di San Gennaro presso il Santuario di Montevergine (1480) e la successiva realizzazione di una cappella per accoglierle (1497), proprio al di sotto dell’abside; lo spostamento della pala dell’Assunta per far posto al complesso scultoreo di Pietro Bracci raffigurante l’Assunta in gloria d’angeli; gli interventi commissionati all’architetto Paolo Posi (1741) che con un progetto di rifacimento dell’abside ne cambiò definitivamente l’aspetto. Egli, infatti, estese il presbiterio fino al centro del transetto e creò un piano intermedio tra quest’ultimo e la tribuna absidale. Frontalmente al transetto il Posi accostò quattro gradini mentre, per accedere al Succorpo, ridisegnò le due rampe esistenti cambiandone l’andamento. Il coro ligneo, prima posto al centro della navata centrale, fu accostato alle pareti del vano absidale. Il cambiamento più importante, però, si ebbe nella copertura dell’abside: la volta ad ombrello in pietra preesistente fu sostituita con una finta volta incannicciata per far fronte alle ormai insostenibili spinte della volta in muratura sulle pareti perimetrali dell’abside. Nel XIX secolo, poi, il vano absidale fu ancora protagonista di interventi. In particolare, nel 1969 fu sostituita nuovamente la copertura su progetto di Roberto Di Stefano: i costoloni a sezione scatolare in lamiera saldata della nuova struttura corrispondevano ognuno ad una nervatura della volta gotica e poggiavano su un cordolo posto alla sommità dell’abside.

Al centro dell’abside, infine, è collocato l’altare moderno in marmo, consacrato nel 2012, decorato con due bassorilievi raffiguranti il Cristo risorto e la Deposizione di San Gennaro. Dietro l’altare è, infine, l’Assunta, la scultura del Bracci.

Sotto l’altare maggiore, tramite due rampe che portano ad una quota inferiore, in corrispondenza dell’abside a 2,40 metri sotto il livello della tribuna, è possibile accedere al Succorpo, la cappella realizzata nel 1497 per volere del cardinale Oliviero Carafa per accogliere le reliquie del Santo patrono già trasferite a Napoli dal Santuario di Montevergine ed inizialmente collocate sull’altare maggiore. Ricavare lo spazio ipogeo non fu impresa facile, tanto che per raggiungere l’altezza ideale dell’ambiente – non potendola ottenere dal solo scavo che avrebbe notevolmente indebolito le fondamenta della chiesa soprastante – si decise di sopraelevare di cinque piani il pavimento della tribuna del duomo. I lavori per la realizzazione del Succorpo, come accennato, furono talmente incisivi da rappresentare una delle maggiori alterazioni nell’impianto strutturale del duomo. Al tempo stesso, però, l’abilità del progettista nel coniugare aspetti strutturali e formali fu tale da lasciare ipotizzare che l’artefice dell’opera potesse essere una personalità come quella di Donato Bramante, attivo a Napoli in quello stesso anno. La tesi, avanzata per la prima volta da Roberto Pane, è stata poi ripresa da Roberto Di Stefano durante i lavori condotti tra il 1969 e il 1972.

La cripta presenta una pianta rettangolare, di dodici metri per nove, suddivisa in tre navate da dieci colonne alle quali corrispondono, lateralmente, altrettanti altari. La piccola cappella, sormontata da una altrettanto piccola cupola, accoglie le reliquie del corpo di San Gennaro e, in posizione di adorazione, davanti alla cappella nella navata centrale è posizionata la statua del cardinale Carafa. Tutto l’ambiente è rivestito in marmo compreso il soffitto. La struttura della copertura della cappella doveva contrastare il peso della tribuna soprastante ma, al tempo stesso, avere uno spessore molto contenuto. Per questi motivi, fu ideato un sistema di voltine a vela a sesto ribassato che scaricava il peso sulle colonne; tale struttura è stata poi mascherata da un soffitto suddiviso in diciotto cassettoni decorati con altorilievi rappresentanti figure di santi e quattro teste di cherubini, attribuiti allo scultore Tommaso Malvito.

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La via del Duomo

La via del Duomo: origine e varianti di un progetto ottocentesco nel nucleo antico della città

 

Pasquale Rossi, Università degli Studi Suor Orsola Benincasa di Napoli

Premessa e contesto storico

L’apertura di Via Duomo, prevista sin dal 1839, è stata realizzata tra il 1853 il 1880, secondo un modello di “sventramento urbano”, tipico dell’età borghese, rappresentando il primo esempio di radicale intervento di trasformazione della città.

La strada, che rientra nella delimitazione dell’area del centro storico di Napoli, considerato dall’UNESCO come “Patrimonio dell’Umanità” (1995), rappresenta di fatto l’unica alterazione nel nucleo antico (Neapolis, V secolo a.C.), il cui impianto originario risulta contrassegnato da tre decumani (via Anticaglia-via Sapienza/ via Tribunali/ via San Biagio dei Librai fino a Forcella, nota come “Spaccanapoli”) che si intersecano con una serie di vie ortogonali (cardines), definendo le originarie insule dell’insediamento di fondazione della città. Infatti la “novella strada” ottocentesca viene tracciata in continuità lungo un asse trasversale che era costituito dalla sequenza di varie strade strette che lambivano importanti complessi ecclesiastici: la strada San Severo al Pendino, il vico San Giorgio Maggiore, la strada de’ Mannesi, la strada dell’Arcivescovado, il vico San Giuseppe dei Ruffi.

E proprio per questa particolare caratteristica si tratta di uno straordinario luogo di stratificazione urbana e architettonica, al pari di altri luoghi partenopei -contrassegnato da permanenze funzionali secolari, da continuità-discontinuità di rilievo che, per un centro storico ancora vissuto da una straordinaria dimensione popolare, ricco di fermento e contaminazione sociale-, presenta segni di unicità sia per la dimensione architettonica che per il vissuto sociale. Caratteri e aspetti che sono sottolineati anche nella motivazione del riconoscimento di ‘Patrimonio dell’Umanità’ definita dall’UNESCO (“World Heritage List of the United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization”[1]).

Nell’assetto contemporaneo, in seguito a iniziative e progetti intrapresi partire dagli inizi del XXI secolo, la via Duomo presenta una variegata serie di complessi museali di antica e nuova istituzione, collocati lungo il percorso e in aree contigue alla rettilinea strada ottocentesca.

Lungo il tratto stradale, concepito in età borbonica ma completato soltanto dopo l’Unità d’Italia, si ritrovano in sequenza, da sud a nord: il Museo Filangieri (Palazzo Como) e la chiesa di San Severo a Pendino (sede comunale di esposizioni permanenti); il complesso archeologico di Carminiello ai Mannesi, Il Pio Monte della Misericordia con la pinacoteca e la chiesa con lo straordinario dipinto delle “Sette Opere” del Caravaggio (la prima opera napoletana realizzata dal pittore nella Napoli del viceregno spagnolo); il Museo del Tesoro di San Gennaro; l’area archeologica del Duomo; il complesso dei Girolamini con la biblioteca oratoriana; il Museo Diocesano nella chiesa di Donnaregina nuova; Il Madre (Museo D’ARtE contemporanea) al limite con la struttura di fondazione angioina della chiesa di Donnaregina vecchia (sede universitaria).

Una concentrazione eccezionale di siti storici e di collezioni d’arte e archeologia, contigue e limitrofe all’asse stradale ottocentesco, che è valsa a definire il luogo come “via dei Musei”.

Un percorso che troverà altro fondamentale terminale nel progetto, in corso d’opera, della Stazione Duomo della nuova linea metropolitana cittadina; nel sito, durante i lavori della fermata ferroviaria, sono stati portati alla luce dei rinvenimenti archeologici di straordinario interesse come la presenza di un tempio, risalente all’età greca, poi trasformato in epoca romana, con il prezioso ritrovamento di una lapide marmorea, che testimonia lo svolgimento di giochi isolimpici, e di altri oggetti che dovrebbero far parte di un nuovo allestimento (Stazione Neapolis) negli ambienti di ingresso della stazione, al centro della piazza Nicola Amore, come risulta dalle indicazioni progettuali degli architetti Massimiliano e Doriana Fuksas.

L’allargamento stradale e la creazione della via del Duomo è stato concepito sin dalle origini con la costruzione di nuovi edifici residenziali a cortina continua sul versante orientale (dal lato della Cattedrale), eseguito secondo indicazioni che avevano ispirato il tema della “costruzione della città” a partire dalla metà dell’Ottocento, in tutte le grandi città europee.

La nuova strada rettilinea del Duomo risulta in modo evidente ispirata ai modelli di trasformazione intrapresi per volere di Napoleone III a Parigi par l’embellissment de la ville, diretti dal barone George Eugéne Haussmann, prefetto della Senna;. un intervento cosiddetto “igienico-sanitario” conseguente a un’epidemia di colera che viene intrapreso proprio, a partire dal 1853, stesso anno degli inizi dei lavori di via Duomo, grazie a un’incisiva legge di esproprio per “pubblica utilità” e a una struttura tecnico-amministrativa (“Consiglio Edilizio di Città”) che consentirà la realizzazione del piano urbano nell’arco dei decenni successivi. La trasmissione scientifica delle acquisizioni tecnologiche e dei modelli di intervento urbano trovano, in questo contesto storico, ampia diffusione sulla pubblicistica di settore, nei bollettini e periodici degli ordini professionali e negli atti di convegni, in seguito anche all’affermazione delle Esposizioni Internazionali che, da Londra (1851) in poi, rappresenteranno uno dei più straordinari veicoli di diffusione del progresso, in linea con le aspirazioni della classe borghese e con le dinamiche speculative gradite alla classe imprenditoriale per una possibile e auspicabile crescita edilizia.

Se questo rappresenta in termini sintetici il contesto culturale europeo entro il quale collocare l’apertura della “strada che doveva portare in modo comodo alla Cattedrale della città napoletana” bisogna però anche osservare che il progetto, sin dalle prime battute, viene presentato in modo parziale e talvolta contradditorio. Ma certamente il progetto della nuova strada del Duomo, avviato durante il regno di Ferdinando II di Borbone (1830-1859) e completato soltanto dopo l’Unità d’Italia, rappresenta per il contesto storico l’anticipazione del tema dello sventramento delle grandi città europee attraverso la creazione di assi viari rettilinei che rappresenterà la norma e il modello di intervento avviato nella seconda metà dell’Ottocento e che a Napoli sarà determinato in modo radicale dopo l’epidemia di colera del 1884 proprio con l’istituzione di una legge speciale nazionale di Risanamento (1885).

I progetti e le varianti per la via del Duomo (1839-1884)

Una prima ipotesi per la via del Duomo viene presentata nel 1839 da Federico Bausan e Luigi Giordano; il progetto prevedeva l’apertura di una strada che “dalla Marinella” sino alla chiesa di San Carlo all’Arena, per ordine di “Sua Maestà”, doveva collegare l’antico lungomare con la via Foria.

Si trattava di un percorso caratterizzato da un porticato continuo con ampie piazze, di diversa forma e dimensione, poste in corrispondenza degli incroci con i decumani dell’antico nucleo di fondazione della città di Napoli. Era la prima proposta di una strada fondamentale per il collegamento con il Duomo e l’insula dell’Arcidiocesi napoletana, le cui indicazioni risulteranno confermate, nel marzo del 1841, anche dal Consiglio Edilizio della Città: «(…) Questa novella comunicazione condurrebbe per la più bella parte della città alla prima Chiesa di essa, senza obbligare il Sovrano, come ora avviene, ed al suo corteggio, a passare strade tortuose ed anguste, simili più assai a senterucoli che a vie di una nobilissima capitale»[2].

Una proposta che, in linea con le esigenze economiche e fondiarie di epoca borghese e con la definizione del piano urbano e programmatico denominato “Appuntazioni per lo Abbellimento di Napoli” (1839), voluto da Ferdinando II di Borbone, comportava di fatto la possibile demolizione di edifici monumentali e la definitiva trasformazione di un secolare tracciato della città.

Nello stesso anno, una data simbolica per il rinnovato impulso ai lavori di trasformazione urbana che sino ad allora -per una serie di complicazioni e di cavilli burocratici, difficoltà finanziarie e indecisioni progettuali- erano stati incubati in una programmazione che aveva portato alla definizione della macchina amministrativa/burocratica con l’istituzione del Consiglio Edilizio (1839) e la definizione di una capillare sovrintendenza tecnica nei dodici quartieri della città. Una struttura che consentirà lo svolgimento dei lavori programmati e/o in corso anche dopo l’Unità d’Italia grazie alla presenza e alla continuità operativa di tanti tecnici (Errico Alvino, Luigi Catalani, Luigi Cangiano, Antonio e Pasquale Francesconi, Gaetano Genovese, Luigi Giura, Gaetano Romano, Francesco Saponieri e tanti altri) che rappresentano una generazione di artisti eclettici che si muove tra “progetti classicisti e trasformazione della città”, tra dibattito sullo stile e innovazione tecnologica/costruttiva, in linea con le istanze culturali e la produzione artistica di stampo eclettico emergente, in versione definitiva nell’ultimo quarto dell’Ottocento, in Italia e in Europa.[3]

Nei primi mesi del 1853 Antonio Francesconi e Luigi Cangiano presenteranno un progetto per la ‘Strada dell’Arcivescovado’. E gli architetti municipali risultavano già impegnati, proprio nello stesso anno, anche per il progetto di apertura della ‘Strada delle Colline’, l’attuale corso Vittorio Emanuele; una via tangenziale che seguiva l’orografia dei luoghi e doveva collegare il quartiere occidentale (aristocratico e borghese) con quello orientale (operaio e industriale) secondo le ipotesi di embellissement definite dal piano ferdinandeo.

L’evidenza tecnica e le affinità con il contesto francese si deducono anche dalla denominazione del piano urbanistico. Del resto, a conferma dell’esplicito legame operativo, ma anche di una verifica di aggiornamento e confronto dei tecnici napoletani sulle grandi opere in corso, è opportuno ricordare come lo stesso Antonio Francesconi richieda, al Municipio di Napoli e al Ministero dell’Interno, un permesso per una missione di tre mesi da svolgere tra Genova e Parigi, allo scopo di «osservare tutte le nuove grandi opere di quella Città».[4]

I ritardi per l’avvio del progetto della strada di collegamento con la Cattedrale sono amplificati dalla presentazione contestuale di un’altra ipotesi di Federico Bausan e Luigi Giordano, stavolta con una variante di collegamento dal lato di via Foria, ma sempre con la costante presenza di ampie piazze e di porticati continui, estesi per tutto il lungo percorso stradale.

Nella previsione progettuale si insiste sul tema del porticato, per un modello costruttivo che nella cultura architettonica europea assume ampia diffusione, sia pure in differenti contesti ambientali talvolta anche poco adatti alle esigenze climatiche del sito. Ma si tratta di un prototipo che si adatta alle occorrenze funzionali e rappresentative della nuova architettura borghese. Un modello che si ispira, in modo evidente, alla realizzazione della monumentale rue de Rivoli, progettata da Charles Percier e P.F. Léonard Fontaine tra la fine del Settecento e gli inizi del secolo successivo, con il lungo edificio porticato che si estende tra il Louvre e i giardini delle Tuileries. In tal senso si segnala che anche a Corfù, in Grecia, viene realizzato il Liston (1814), un edificio porticato di testata con il prospetto principale prospiciente alla Esplanade, il vuoto spazio antistante alla preesistente fortificazione di età moderna, e che rappresenta un “pezzo di Parigi” in un’isola del Mediterraneo.

Il tema del porticato, sperimentato per l’architettura residenziale aristocratica, con specifiche funzioni commerciali e/o di rappresentanza, diventa quindi un campione edilizio che avrà ampia diffusione nel XIX secolo, e che risulta riferibile pure ai progetti delle places royales di età assolutistica. Riferimenti e contaminazioni per architetture che nel corso dei secoli trovano costanti progettuali in tutta la cultura architettonica europea di età illuministica e successivamente anche in età borghese, grazie anche all’impulso e all’ampia diffusione della pubblicistica di settore (bollettini e riviste specialistiche di ingegneria e architettura).

E davanti al Duomo di Napoli, nel progetto di Antonio Francesconi e Luigi Cangiano del 1853, il porticato è ancora un leitmotiv della nuova composizione urbana.

Una piazza quadrata con edifici dal gusto neorinascimentale, il cui centro della composizione è rappresentato dalla facciata della cattedrale che doveva prospettare – dal lato del convento dei Gerolomini, con la demolizione del chiostro cinquecentesco – con l’“Arco di Trionfo di Castel Nuovo” per una proposta antistorica concepita in virtù di una presunta “bellezza e armonia”, come gli stessi tecnici descrivono: «(…) la bella architettura e scultura dell’Arco di Trionfo (…) è coeva ed armonizza con quella della porta maggiore di entrata dell’Arcivescovado.».[5]

Nel 1853 saranno avviati, in modo definitivo, i cantieri e gli appalti per la costruzione di via Duomo e dell’attuale corso Vittorio Emanuele che avranno completamento soltanto dopo il 1870. L’avvio di queste realizzazioni stradali risulterà di fatto anche una sorta di “laboratorio” per la sperimentazione di sistemazioni scultoree e quinte celebrative, e talvolta anche l’occasione per proposte che, improntate all’imprescindibile “euritmia” e alla rigorosa simmetria, da osservarsi secondo i canoni artistici/tecnici del tempo, appaiono in alcuni casi piuttosto antistoriche.

È il caso del tentativo di spostamento dell’Arco di Trionfo rinascimentale di Castel Nuovo, auspicato da Antonio Francesconi e Luigi Cangiano, destinato nelle loro intenzioni, a completare il previsto disegno della piazza quadrata e porticata al centro della nuova strada in costruzione, e da posizionare proprio di fronte alla antica facciata della Cattedrale. Di fatto però la nuova piazza sarà realizzata solo parzialmente (dal lato della Cattedrale) per la mancata alienazione del chiostro piccolo dei Girolamini, i quali, si opporranno, in sede legale, all’esproprio forzoso della loro proprietà. Ma probabilmente i tecnici oltre il tentativo di completamento della nuova piazza Duomo intendevano garantire la sopravvivenza dell’arco aragonese che, a quel tempo, appariva nascosto da troppe nel degrado di tante superfetazioni (fabbriche, abitazioni e altro) della struttura di Castelnuovo.

Infatti, come noto, il restauro stilistico avviato da Riccardo Filangieri di Candida alla fine del XIX secolo, che porterà all’“isolamento del monumento” secondo la logica e gli orientamenti del “restauro” al tempo, sarà completato solo nella prima metà del Novecento; e a questo proposito bisogna segnalare che le proposte dei tecnici comunali avranno spesso varianti progettuali proprio per i tanti lavori in corso d’opera, ma anche per le continue direttive municipali sulle cui scelte incideva sovente una cronica mancanza di fondi; un aspetto che, tra corsi e ricorsi storici, rappresenta un dato contemporaneo, dove la difficoltà di esperire progetti è dovuta alla mancata certezza di una programmazione a lungo termine.

Era comunque nello spirito del tempo, nella formazione culturale e nella pratica operativa di ingegneri e architetti una logica di tipo interventista, che sarà mano a mano attenuata dall’istituzione di una Commissione Municipale per la Conservazione dei Monumenti (1877) che avrebbe garantito una tutela sullo stato dei luoghi e delle opere architettoniche. Così come del resto avverrà, sempre nel caso di via Duomo, per la conservazione della facciata rinascimentale di Palazzo Como e di uno straordinario balcone in marmo su mensola in piperno posto ora nell’edificio di fronte (accanto al Palazzo de Bellis di Casamassima) e prima esistente nel vico San Giorgio Maggiore e illustrato da una litografia pubblicata nel volume Napoli antica (1889) di Raffaele D’Ambra.

I lavori alla nuova via del Duomo (1853), non escludevano la proposta del 1839 di Federico Bausan e Luigi Giordano che avevano proposto un ampio percorso con porticati e piazze regolari (all’incrocio con i “decumani” del nucleo antico) e che da via Foria doveva giungere sino a piazza Mercato passando alle spalle della Cattedrale. Un’ipotesi di progetto che prevedeva anche uno svincolo porticato per le due strade su via Foria, riproposto in tono minore nel 1856 ancora da Francesco de Cesare[6].

Ma mentre il progetto della via del Duomo, pur tra molte difficoltà, fu realizzato parzialmente al 1880 (fino all’incrocio con Forcella, con rimaneggiamento delle planimetrie delle chiese di San Giorgio Maggiore e San Severo al Pendino nonché di palazzo Como), e completato (sino alla via Marina) soltanto durante i lavori di risanamento dopo il 1885[7], l’idea del corso Ferdinando[8], ma la più “ampia strada cittadina”, così definita nei documenti storici, rimarrà soltanto sulla carta.

Tra queste due grandi strade in rettifilo che lambivano la sede arcivescovile con piazze e spazi pubblici (carrozzabili e pedonali, destinati alle attività commerciali), nel corso degli anni viene proposto anche un prolungamento della via Duomo sino a Capodimonte, attraverso l’area dei Miracoli e la collina di Miradois (alle spalle del borgo della Sanità). Si configurava così Una strada rettilinea lunga, un asse longitudinale che attraversava tutta la città, dalla Marina a Capodimonte[9].

Per giungere sino al “Museo Farnesiano”, uno dei primi Siti Reali del XVIII secolo, si pensava di creare un sistema di spianate, di piazze e larghi e molto probabilmente, nelle piazze porticate e nei nuovi spazi pubblici, avrebbero trovato posto altre sculture e composizioni celebrative, così come il progetto neoclassico di Antonio Niccolini al Tondo di Capodimonte (terminale del corso Napoleone, ora Amedeo di Savoia), dove con un obelisco (non realizzato) doveva segnare un fulcro visivo prospettico.

Antonio Francesconi e Luigi Cangiano nello spazio porticato della piazza Duomo, che rappresenta una chiara citazione neorinascimentale, fanno realizzare nelle patere poste nei pennacchi degli archi a tutto sesto, bassorilievi che raffigurano i principali personaggi della cultura italica e partenopea (da Giambattista Vico a Salvator Rosa)[10], rimarcando ancora una volta l’importanza dell’elemento decorativo e celebrativo.

La piazza davanti al Duomo resterà incompleta – per una controversia giuridica attivata dai padri Girolamini, contrari al previsto esproprio forzoso – e pertanto realizzata con i portici solo ai lati della Cattedrale; mentre la parte terminale della facciata del complesso oratoriano, ad angolo con la via San Giuseppe dei Ruffi, sarà sistemata intorno al 1869 dagli architetti Francesco Giura e Leopoldo Scognamiglio, così come riportato in un disegno[11], dove accanto alla facciata dell’edificio di proprietà dei religiosi, è riportata anche l’ipotesi di campata del progetto di Francesconi e Cangiano, che avevano ipotizzato una soluzione unitaria.

L’intera composizione architettonica si adeguava comunque all’antica facciata della Cattedrale e i prospetti degli edifici laterali risultavano proporzionati rispetto al disegno delle torri laterali, avanzate rispetto alla zona di ingresso. Il successivo intervento di ‘rinnovazione’ della facciata, voluto dal cardinale Guglielmo Sanfelice intorno al 1875, sull’esempio di analoghi interventi compiuti in Italia secondo una tendenza che privilegiava il gusto neo-medievalista (gotico o romanico), sarà portato a termine soltanto nel 1905, in seguito a lunghe vicissitudini[12]. Si alterneranno all’opera numerosi tecnici: Errico Alvino, autore del progetto iniziale, già impegnato per il concorso della facciata del duomo di Firenze, e dopo la sua morte (1876), Giuseppe Pisanti (1826-1913) e Nicola Breglia (1834-1912), che realizzeranno l’opera, successivamente controllata dagli architetti “commissari” Michele Ruggiero (1811-1900) e Giovanni Rossi.

Il percorso dei lavori per la via Duomo sarà piuttosto lungo sia per le difficoltà di esproprio che per la sovrapposizione di progetti diversi, tra l’altro in stretta relazione. Nel 1860 con un decreto di Francesco II di Borbone, confermato poi da una nota del dittatore pro tempore Giuseppe Garibaldi, si diede continuità operativa al progetto del Cangiano e del Francesconi, i quali furono confermati direttori dei lavori. La larghezza della via fu ribadita per la misura di 60 palmi (circa 15 metri), iniziando così pratiche di esproprio e indennizzo per tracciare il nuovo asse viario; l’appalto dei lavori fu assegnato con tratti di strada di uguale lunghezza agli imprenditori Giuseppe de Strussenfeld e a Gaetano d’Errico.

Anche l’edilizia residenziale privata presenta caratteri artistici piuttosto interessanti che testimoniano il passaggio da un’impostazione classicista a segni e decorazioni dal carattere più eclettico. Infatti il versante superiore orientale, che doveva riproporre un porticato lineare sino all’incrocio con via Foria, sarà invece completato con la costruzione di sei blocchi edilizi molto curati all’interno e nei cortili, attribuibili proprio all’opera di Antonio Francesconi (1867-70). Si tratta di nuovi edifici residenziali multipiano con cortine continue caratterizzate da regolari teorie di finestre e balconi aderenti nel disegno ai “Precetti d’Arte” indicati dal Consiglio Edilizio. Gli androni con volte a botte e decorazioni a stucchi e le scale aperte (tipiche della tradizione partenopea), con elementi classicheggianti e infissi lignei tipici dell’arte ottocentesca, conferiscono agli interni un aspetto nobile, consono al nuovo gusto borghese, e rappresentano la cifra della nuova produzione architettonica e urbana del periodo postunitario. Ai piani terra dei nuovi edifici, contrassegnati da bugnati e/o listati, si aprivano i vani delle botteghe che, nelle architravi, recavano riquadri e cornici in stucco per accogliere l’insegna del negozio.

La via del Duomo, il primo rettifilo napoletano dai caratteri eclettici, rimarrà comunque interrotta sino al palazzo Como e alla chiesa di San Severo al Pendino, restando incompleta rispetto alle idee originarie. Bisognerà attendere l’intervento compiuto dalla ‘Società pel Risanamento’ dopo il 1884, perché si determini il collegamento definitivo con la via Marina, realizzando la piazza Nicola Amore all’incrocio con il corso Umberto I.

 

 

 

 

Bibliografia (in ordine cronologico)

  • E. Lauria, A. Francesconi, P. Francesconi, Memoria per un Piano Regolatore delle opere pubbliche della Città di Napoli, Napoli (30 ottobre) 1872.
  • E. Cirillo, Il proseguimento della nuova via del Duomo ed il Palazzo Como, Napoli 1879.
  • Pedone, Il Quattrocento ed il Palazzo Como, Napoli 1879.
  • Pedone, Il Quattrocento e Palazzo Como in «Atti del Collegio degli Ingegneri ed Architetti in Napoli», 2 (1880), pp. 36-49.
  • ’abside di S. Giorgio Maggiore in Napoli, «Relazione della Commissione municipale per la conservazione dei monumenti», Napoli 1881.
  • Colombo, Commissione per la conservazione dei monumenti municipali. Lavori compiuti dal giugno 1874 a tutto l’anno 1898. Relazione del commissario incaricato cav. Antonio Colombo letta nell’adunanza ordinaria del 22 dicembre 1899, Napoli 1900.
  • Miola, La facciata del Duomo di Napoli, Napoli 1905.
  • F. Strazzullo, Saggi storici sul Duomo di Napoli, Napoli 1959.
  • G.C. Alisio, Lamont Young. Utopia e realtà urbana nell’urbanistica napoletana dell’Ottocento, Officina Edizioni, Roma 1978.
  • Buccaro, Istituzioni e trasformazioni urbane nella Napoli dell’Ottocento, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1985.
  • G.C. Alisio, Napoli nell'Ottocento, Electa Napoli, Napoli 1992.
  • Buccaro, Opere pubbliche e tipologie urbane nel Mezzogiorno preunitario, Electa Napoli, Napoli 1992.
  • P. Rossi, Sulla chiesa delle Crocelle ai Mannesi in Napoli, in «Campania Sacra», 23 (1992) pp. 313-320.
  • Civiltà del’Ottocento. Architettura e urbanistica, a cura di G.C. Alisio, catalogo mostra, Electa Napoli, Napoli 1997.
  • P. Rossi, Antonio e Pasquale Francesconi. Architetti e urbanisti nella Napoli dell’Ottocento, Electa Napoli, Napoli 1998.
  • G.C. Alisio, A. Buccaro, Napoli millenovecento. Dai catasti del XIX secolo ad oggi: la città, il suburbio, le presenze architettoniche, Electa Napoli, Napoli 2000.
  • P. Rossi, Il quartiere Museo a Napoli: una soluzione per la residenza borghese nella seconda metà dell’Ottocento. Disegni inediti e nuove acquisizioni, in «Annali dell’Università Suor Orsola Benincasa», 2010, pp. 175-208.
  • P. Rossi, Trasformazioni urbane e rappresentazioni monumentali: progetti e traslazioni, in Il Bello o il Vero. la scultura napoletana del secondo Ottocento e del primo Novecento, a cura di I. Valente, Napoli 2014, pp. 107-114.
  • Palazzo Como a Museo Filangieri. Storia, tutela e restauro di una residenza del Rinascimento a Napoli, a cura di A. Ghisetti Giavarina, F. Mangone, A. Pane, Napoli 2019.

 

[1] «Napoli è una delle più antiche città di’Europa. I suoi luoghi conservano traccia di preziose tradizioni di incomparabili fermenti artistici e di una storia millenaria. Nelle sue piazze ed edifici è nata e si è sviluppata una cultura unica al mondo che diffonde valori universali per un pacifico dialogo tra i popoli. Il suo centro storico inserito dal 1995 nella lista del Patrimonio Mondiale UNESCO appartiene all’Umanità intera.» Il testo è riportato in una lapide collocata a piazza del Gesù dal Comune di Napoli nel 1997.

[2] F. Strazzullo, Saggi storici sul Duomo di Napoli, Napoli 1959, p. 75. ASN

[3] Come riferimento per una bibliografia essenziale si veda: G.C. Alisio, Lamont Young. Utopia e realtà urbana nell’urbanistica napoletana dell’Ottocento, Officina Edizioni, Roma 1978; A. Buccaro, Istituzioni e trasformazioni urbane nella Napoli dell’Ottocento, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1985; G.C. Alisio, Napoli nell'Ottocento, Electa Napoli, Napoli 1992; A. Buccaro, Opere pubbliche e tipologie urbane nel Mezzogiorno preunitario, Electa Napoli, Napoli 1992; Civiltà dell’Ottocento. Architettura e urbanistica, a cura di G.C. Alisio, catalogo mostra, Electa Napoli, Napoli 1997; P. Rossi, Antonio e Pasquale Francesconi. Architetti e urbanisti nella Napoli dell’Ottocento, Electa Napoli, Napoli 1998; G.C. Alisio, A. Buccaro, Napoli millenovecento. Dai catasti del XIX secolo ad oggi: la città, il suburbio, le presenze architettoniche, Electa Napoli, Napoli 2000; P. Rossi, Il quartiere Museo a Napoli: una soluzione per la residenza borghese nella seconda metà dell’Ottocento. Disegni inediti e nuove acquisizioni, in «Annali dell’Università Suor Orsola Benincasa», 2010, pp. 175-208; P. Rossi, Trasformazioni urbane e rappresentazioni monumentali: progetti e traslazioni, in Il Bello o il Vero. la scultura napoletana del secondo Ottocento e del primo Novecento, a cura di I. Valente, Napoli 2014, pp. 107-114; Palazzo Como a Museo Filangieri. Storia, tutela e restauro di una residenza del Rinascimento a Napoli, a cura di A Ghisetti Giavarina, F. Mangone, A. Pane, Napoli 2019.

[4] Archivio di Stato di Napoli (d’ora innanzi ASNa), Ministero dell’Interno, III inventario, vol. 209, fasc. 273. Il documento, datato 16 giugno 1858, a firma dell'Intendente Presidente Carlo Cianciulli è indirizzata al Direttore del Ministero dell'Interno che autorizza la missione prevista, secondo questa richiesta: «Sig. Direttore, L’Architetto Commissario Onorario Antonio Francesconi domanda un permesso di tre mesi per recarsi prima a Genova col Principe di Angri, il quale deve accomodare vari interessi circa una vasta proprietà che possiede in comune col Principe Colonna, e quindi fare una corsa a Parigi per osservare tutte le nuove grandi opere di quella Città (…)».

[5] Cfr. P. Rossi, Antonio e Pasquale Francesconi. Architetti e urbanisti nella Napoli dell’Ottocento, Napoli 1998, p. 35.

[6] Archivio di Stato di Napoli (d’ora innanzi ASNa), Ministero Interno, III Inventario, vol. 377/II, fasc. 33.

[7] Cfr. P. Rossi, Antonio e Pasquale Francesconi…, cit., pp. 34-45.

[8] Cfr. ASNa, Ministero Interno, III Inventario, vol. 206, fasc. 168. Nel documento si legge: «(...) La strada che andrà ad aprirsi da Foria al mare progettata dai Signori Cangiano e Francesconi, e che ha in mira principale dare alla Cattedrale un accesso facile e nobile potrebb’esser detta Strada del Duomo. L’altra che la prelodata M[aestà].S[ua]. comandava fosse aperta similmente da Foria al mare sotto la direzione dei Signori Bausan e Giordano, e che per ampiezza, magnificenza, comodo e dirittura non avrà eguale in Napoli potrebb’esser chiamata colla denominazione di Corso Ferdinando (...).»

[9] Cfr. E. Lauria, A. Francesconi, P. Francesconi, Memoria per un Piano Regolatore delle opere pubbliche della Città di Napoli, Napoli (30 ottobre) 1872, p. 66.

[10] Nei portici ai lati della Cattedrale nei medaglioni in bassorilievo sono realizzati i profili di: Torquato Tasso, Salvator Rosa, S. Tommaso d’Aquino, Gaetano Filangieri, Giovan Battista della Porta, Antonio Solario Lo Zingaro, Giambattista Vico. Uno dei tondi sul lato destro del Duomo è vuoto.

[11] Cfr. ACSR, Ministero Pubb. Istruz. Dir. Gen. Antichità e BB. AA., I Vers., B. 494, f. 567. La vicenda dei lavori alla facciata è descritta da R. G. Colella, La tutela a Napoli dopo l’Unità d’Italia e l’opera della Commissione conservatrice provinciale, in Tutela e restauro dei monumenti in Campania 1860-1900, a cura di G. Fiengo, Napoli 1993, pp. 117-118.

[12] A. Miola, La facciata del Duomo di Napoli, Napoli 1905, p. 18. Sull’argomento cfr. anche ASDN, Pastorali e notificazioni, Card. G. Sanfelice, 9, (3/12/1878), “Per il restauro della facciata del Duomo”; Pastorali e notificazioni, Card. G. Prisco, 11 (7/12/1898), “Notificazione per la facciata del Duomo”; e ancora F. Strazzullo, La facciata del Duomo di Napoli, in «Campania Sacra», 5 (1974) pp. 156-199; Idem, Saggi storici sul Duomo..., op. cit.; R. Di Stefano, La cattedrale di Napoli. Storia, restauro, scoperte, ritrovamenti, Napoli 1974.

Foto di Mario Ferrara

 

Donnaregina Nuova

La chiesa di Santa Maria Donnaregina Nuova

Emma Maglio (Università di Napoli “Federico II”, Dipartimento di Architettura)

Il complesso di Santa Maria Donnaregina si trova nel margine nord-orientale della città antica ed è delimitato dalle odierne via Duomo, via Donnaregina, vico Donnaregina e via Settembrini. Un’insula estesa, abitata sin dall’età paleocristiana da una comunità religiosa femminile – francescana dal Duecento – e ancora oggi in parte occupata dalle due chiese del monastero: la trecentesca Santa Maria Donnaregina vecchia, che ospita la Scuola di Specializzazione in Beni Architettonici e del Paesaggio dell’Università “Federico II”, e la seicentesca Santa Maria Donnaregina nuova, sede del Museo Diocesano, della quale ci occuperemo.
Risalgono alla prima metà del XVI secolo alcuni lavori di ampliamento del monastero, con la costruzione del refettorio e il rifacimento dell’appartamento della badessa; tuttavia, le istanze controriformistiche sancite dal Concilio di Trento (1545-63), poi codificate dalle Instructiones fabricae di S. Carlo Borromeo in materia di liturgia e architettura (1577), avrebbero imposto agli spazi sacri più decise trasformazioni. A Napoli si innescò una fase di sperimentazione architettonica e artistica che contribuì alla maturazione del gusto barocco grazie a un fecondo intreccio tra committenti e autori e alla compresenza di molteplici progettisti e botteghe: tra gli architetti più noti in questo periodo si ricordano Giovanni Dosio, Francesco Grimaldi, Giovan Giacomo di Conforto e frà Nuvolo. Donnaregina non fece eccezione e, se già alla fine del XVI secolo si raccoglievano fondi per costruire una nuova chiesa, agli inizi del XVII, anche in seguito all’aumento del numero delle monache – tutte di nobili origini – e dunque delle capacità economiche del monastero, si diede concreto inizio a un’impresa che si sarebbe legata a doppio filo con la trasformazione del tessuto urbano circostante. La chiesa di Donnaregina nuova si configurò infatti come un episodio architettonico e urbano significativo, e alcuni passaggi di tali trasformazioni sono noti grazie ai documenti d’archivio rinvenuti negli ultimi quarant’anni e al confronto con la cartografia storica.
Nella veduta Dupérac-Lafréry del 1566 (fig. 1) l’insula monastica appare compresa fra la strada maestra detta “Somma Piazza” o “Pozzo Bianco” a sud (via Donnaregina) e via Orticelli a nord (via Settembrini), stretta fra l’originario cardine a ovest (via Duomo) e il vicolo “di Corte Torre” a est (vicolo Donnaregina), in un’area densamente edificata: l’accesso alla chiesa trecentesca, sul lato nord a ridosso delle mura urbane, era preceduto da un cortile che ne nascondeva la vista, e verso sud un blocco di edifici separava il complesso dalla strada maestra e dall’arcivescovado. Di qui il progetto di realizzare una nuova chiesa a sud della prima, in asse rispetto ad essa, ma con orientamento opposto e facciata a sud. Per fare ciò, tra il 1617 e il 1620 alcuni edifici adiacenti furono acquistati e demoliti, mentre l’antica chiesa fu inglobata parzialmente nella nuova e convertita in spazio claustrale, perdendo la funzione ecclesiastica: parte dell’abside gotica fu anzi demolita e invasa dalla struttura del nuovo coro delle monache.
La storia di Donnaregina nuova si articola in due principali fasi costruttive: una seicentesca, che portò al compimento della chiesa in tutte le sue parti, e una settecentesca, che vide un generale rinnovamento degli apparati decorativi. La fabbrica fu iniziata intorno al 1617; secondo una tradizione riportata da numerosi studi anche recenti, il progetto sarebbe stato dell’architetto teatino Giovanni Guarini, ma le ricerche d’archivio hanno smentito tale attribuzione e identificato l’autore in Giovan Giacomo di Conforto (1569 circa-1630), un architetto molto attivo a Napoli nel primo scorcio del Seicento. Significativo fu infatti il suo contributo nei cantieri di Monte di Pietà e S. Paolo Maggiore, suoi furono i progetti per il campanile del Carmine, le chiese di S. Teresa agli Studi, della SS. Trinità delle Monache e dei SS. Apostoli; subentrò a Dosio nella Certosa di San Martino – dove introdusse un giovane Cosimo Fanzago – e diresse i lavori della chiesa de La Sapienza. Di Conforto ebbe un ruolo centrale nelle fabbriche religiose napoletane del primo Barocco, un anello di congiunzione tra l’architettura del Cinquecento e le opere di Fanzago. Risalgono al 1626 i primi pagamenti noti al di Conforto per Donnaregina nuova, l’ultimo invece al 1630 «per causa del suo servizio d’ingegniero nella fabbrica e stucco del Monistero di Donna Regina»; un altro nome ricorre poi nei documenti a partire dal 1626, quello di Giovanni Cola di Franco quale soprastante alla fabbrica, forse capocantiere. La chiesa doveva essere quasi ultimata prima del 1630, a meno delle decorazioni che furono completate entro la fine del secolo: l’edificio era stato benedetto nel 1626, quando era ancora privo di cupola ma aveva una copertura provvisoria, decorata con una tela dipinta da Aniello de Vico. Fu Giovanni Cola Circhio a costruire la cupola nel 1654, Agostino Beltrano la affrescò con il Paradiso l’anno seguente e la chiesa fu consacrata dal cardinale Innico Caracciolo nel 1669. La veduta di Baratta del 1629 fornisce la prima immagine nota della nuova chiesa, già dotata di cupola, mentre non vi è più alcun riferimento all’edificio di Donnaregina vecchia (fig. 2).
La scalinata di Donnaregina nuova è opera settecentesca dell’ingegnere Angelo Barone (1780) che sostituì una precedente scala risalente al 1642, e consiste in un’ampia struttura in piperno con gradini semicircolari e balaustre in marmo. La facciata fu costruita tra la fine del 1625 e la prima metà del 1626 in tufo e piperno, ed è suddivisa verticalmente in tre parti da lesene corinzie – singole alle estremità e doppie al centro – mentre in senso orizzontale vi sono due registri trabeati sovrastati da un timpano. Le basi delle paraste del primo registro si innestano su un basamento in piperno che corre lungo tutta la parete inferiore. Il portale in marmo di Carrara, opera di Bernardino Landini, ha l’architrave ornato da un cherubino ed è inquadrato da colonne corinzie con timpano curvilineo spezzato, al centro del quale si trova un’edicola che avrebbe dovuto accogliere una statua della Madonna con due puttini, mai realizzati. L’edicola ha struttura ad arco a tutto sesto con lesene ioniche ornate da volute e termina anch’essa con un timpano curvilineo spezzato. Ai lati del portale, all’interno di due nicchie semicircolari inquadrate da cornici sporgenti, sono le statue in stucco degli apostoli Andrea e Bartolomeo, di autore ignoto, estremamente importanti in quanto legate alla presenza delle reliquie dei due santi nell’edificio. Il registro superiore è occupato infine da finestre – ad arco ribassato al centro e a tutto sesto ai lati – e la parte centrale è sormontata da un timpano con apertura ad arco ribassato (fig. 3).

La chiesa si sviluppa su un impianto a navata unica ampia e spaziosa, pienamente rispondente alle Intructiones borromeane (fig. 4, fig. 5). Due cappelle minori sono ai lati dell’ingresso, nelle pareti che sostengono la volta del coro delle converse, mentre su ogni lato della navata si aprono tre profonde cappelle rettangolari coperte da volte a vela: quelle a sinistra sono dedicate all’Immacolata, alla Madonna del Rosario e alla Madonna del Carmine, quelle a destra invece a S. Antonio da Padova, alla Madonna Annunziata e a S. Francesco d’Assisi. Le cappelle sono tutte decorate con affreschi, dorature e marmi realizzati complessivamente tra la metà degli anni ’20 e la metà degli anni ’90 del Seicento da un folto gruppo di artisti e marmorai, fra cui Giovan Domenico Vinaccia, Gaetano Sacco, Dionisio Lazzari, Francesco Valentino e Simone Tacca. Le cappelle sono separate da grossi setti murari, dove coppie di paraste corinzie inquadrano nicchie poco scavate dove un tempo erano collocate statue lignee di Santi su basi in marmo. I capitelli delle lesene sono collegati da cherubini e festoni di frutta, mentre il fregio è ornato da girali dorati. L’impronta del di Conforto si osserva nell’articolazione degli elementi architettonici che stabiliscono una rigorosa corrispondenza fra l’alzato e la copertura della volta a botte. La volta, provvista di unghie sferiche in corrispondenza delle finestre, è decorata infatti da specchiature di varie forme: al loro interno cornici in stucco dorato, realizzate nel 1627 da un gruppo di artisti che lavorò anche alle pareti della navata, contengono affreschi firmati da Francesco de Benedictis nel 1654, i cui soggetti furono concordati con la badessa Eleonora Caracciolo. L’intero programma iconografico della chiesa, peraltro, vide le monache coinvolte in prima persona e si orientò alla glorificazione della Vergine, di S. Francesco, dei santi francescani e degli apostoli Andrea e Bartolomeo, questi ultimi due già rappresentati in facciata.
La navata è priva di transetto – probabilmente per ragioni di spazio e per garantire la presenza di ambienti di servizio come il comunichino delle monache e la sacrestia – e si conclude con il presbiterio, le cui pareti sono totalmente rivestite di marmi policromi: i più antichi furono realizzati entro la metà del Seicento da Giacomo Lazzari (parete centrale) e da Bernardino Landini (pareti laterali), e quest’ultimo realizzò anche i rivestimenti marmorei del comunichino. Il vano di fondo del presbiterio è suddiviso in tre settori verticali da lesene ioniche complete di trabeazione e cornicione: nei settori laterali i pannelli a tarsie marmoree con forme di fiori si trovano all’interno di cornici sporgenti, movimentate da una grande conchiglia alla base e da festoni in sommità; nel settore centrale, all’interno di una doppia cornice sovrastata da un fastigio in marmo bianco, è l’Assunzione di Maria, dipinto di Giovanni Filippo Criscuolo collocato originariamente sull’altare maggiore di Donnaregina vecchia (fig. 6). Il rivestimento della parete di fondo assunse l’aspetto attuale nel 1691-92, con l’innesto di marmi preziosi su quelli preesistenti. Più in generale, nel corso del Settecento l’interno della chiesa fu in buona parte alterato dai rivestimenti in marmo e nei primi anni del secolo il presbiterio ebbe la sua sistemazione definitiva. Francesco Solimena, attivo nel monastero quale sovrintendente di vari lavori, donò infatti nel 1701 alle monache un disegno per il nuovo altare maggiore, ricevendo in cambio “tanti argenti di non poca valuta”: i marmorai Giovanni Raguzzino e Giovanni di Filippo svilupparono quel disegno e lo definirono nei particolari, usando marmi pregiati come la breccia di Sicilia e il verde antico. Poco dopo, nel 1705, furono collocati nelle pareti laterali del presbiterio due quadri di Luca Giordano raffiguranti Le nozze di Cana e La moltiplicazione dei pani e dei pesci. Risale poi al 1727 la produzione di un piedistallo in marmo bianco per un pilastro della navata, realizzato “per mostra” (prova) da Ferdinando de Ferdinando su disegno di Solimena: lo stesso de Ferdinando realizzò in seguito altre basi, provvedendo così al rivestimento marmoreo di gran parte delle membrature della chiesa tra il 1748 e il 1764, usando, fra gli altri, marmi commessi, verde antico e alabastro di Corfù.

Il coro delle monache, infine, si trova al piano superiore dietro al presbiterio (fig. 7). Nella sua configurazione originaria era separato da quest’ultimo da una grata in legno, come mostra un dipinto di Domenico Battaglia della metà del XIX secolo, e occupava per circa due terzi l’abside di Donnaregina vecchia. Una complessa operazione di “arretramento” della parete di fondo del coro, compiuta nel corso dei restauri diretti da Gino Chierici per ripristinare l’abside gotica (1928-34), portò a ridurre la profondità del vano di circa sei metri ma permise di preservare il prezioso affresco Il miracolo delle rose di Solimena (1684). Gli altri affreschi coevi presenti sulle pareti laterali e sulla volta, raffiguranti Scene della vita di San Francesco e Santi, furono in parte staccati e spostati. Uno spostamento altrettanto rilevante riguardò il sepolcro della regina Maria d’Ungheria, situato in Donnaregina vecchia: la badessa Eleonora Gonzaga nel 1727 volle sistemarlo nel comunichino delle monache della chiesa nuova, e qui confluirono probabilmente anche altri monumenti funebri e lastre tombali provenienti dalla chiesa angioina. Nel 1681, intanto, si era iniziato a costruire anche un nuovo campanile, a sostituzione del vecchio – probabilmente di origine gotica, connesso alla vecchia chiesa – che versava ormai in grave dissesto: secondo i documenti, il nuovo campanile doveva collocarsi non lontano da Donnaregina nuova, presso l’angolo fra l’antico cardine e il vicoletto Donnaregina. Tuttavia, una ferma opposizione delle monache del vicino monastero di San Giuseppe dei Ruffi generò una lunga disputa e un processo: malgrado i tentativi di trovare una collocazione alternativa per la nuova opera, un decreto della Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari di Roma emesso entro il primo decennio del XVIII secolo impose l’immediata sospensione della costruzione e Donnaregina nuova dovette accontentarsi di un semplice muro campanario.
La costruzione della chiesa favorì nel corso del Seicento l’ampliamento del monastero: i lavori di più ampio respiro, diretti da Giovanni Cola Circhio, permisero di aprire una piazza davanti alla facciata e di isolare la clausura dagli edifici vicini. Tra il 1637 e il 1640 furono acquistati e demoliti due fondaci e varie case nell’area antistante la nuova chiesa – determinando fra l’altro la creazione dell’attuale vicoletto Donnaregina – e altre case confinanti col palazzo arcivescovile; ulteriori demolizioni furono avviate nel 1646 e la piazza, delimitata a nord dalla nuova chiesa, a est dal vico “di Corte Torre”, a sud dal palazzo arcivescovile e ad ovest dalle case esistenti, fu aperta nel 1647. Questo spazio assunse però la forma attuale nel 1650, con la demolizione di alcuni edifici tra il palazzo e la vicina Santa Maria Ancillarum nell’ambito dei lavori di ammodernamento del palazzo arcivescovile per volere del cardinale Ascanio Filomarino. In quegli stessi anni si lavorò alla realizzazione di un nuovo chiostro e di un grande giardino (1641), nell’ambito della espansione di Donnaregina verso ovest: ciò comportò l’inglobamento di un vicolo parallelo all’antico cardine, il cui tracciato si congiungeva con quello che, a sud, arrivava diagonalmente fino all’ingresso della cattedrale e, verso nord, procedeva rettilineo verso via Orticelli, arrestandosi in corrispondenza del chiostro. La pianta del Duca di Noja del 1775 offre una chiara rappresentazione dell’intera area a seguito di queste trasformazioni (fig. 8).

Un anno cruciale nella storia recente della chiesa e del complesso è il 1861, quando l’insula conventuale fu in parte interessata dai lavori di allargamento dell’antico cardine per creare l’attuale via Duomo: il progetto di Luigi Cangiano e Antonio Francesconi comportò la demolizione di numerosi edifici, fra cui parte del chiostro e il giardino di Donnaregina (1861-68). Nel 1861 fu decretata anche la soppressione degli ordini religiosi e le monache furono costrette a trasferirsi a Santa Chiara e Santa Maria Donnalbina, sicché la chiesa nuova passò al Fondo per il Culto, che ne cedette l’uso provvisorio prima all’Arciconfraternita di S. Maria della Visitazione e poi, nel 1871, al Comune di Napoli. L’edificio restò aperto fino al 1972, in seguito fu chiuso e visse una lunga fase di degrado e abbandono, aggravata dalle conseguenze del terremoto del 1980 e da episodi di furto a danno di elementi decorativi e d’arredo. In seguito a parziali interventi di recupero e poi a un completo restauro, nel 2007 la chiesa è stata definitivamente riaperta al pubblico come sede del Museo Diocesano.


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Foto di Mario Ferrara


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Donnaregina trecentesca

Agli albori del Restauro italiano del Novecento. L'intervento di Gino Chierici nella chiesa trecentesca di Donnaregina a Napoli

4 Novembre 2021

Contributo per convenzione Scabec su via Duomo

Responsabile scientifico: prof. Alessandro Castagnaro

Agli albori del Restauro italiano del Novecento. L'intervento di Gino Chierici nella chiesa trecentesca di Donnaregina a Napoli

di Renata Picone

L’insula di Donnaregina occupa una vasta area a nord est di via Duomo, ai margini settentrionali del perimetro della città antica di Napoli. L’evoluzione del complesso, fatto di progressive aggiunte a partire dal XIV secolo, così come evidenziato nei saggi precedenti, subisce una rilevate battuta di arresto con l’ampliamento di via Duomo che porta alla demolizione di parte dell’antico convento e alla marginalizzazione del complesso che prima dell’ampliamento aveva un acceso diretto sul cardine “sventrato”.

Tali trasformazioni segnano profondamente la vita del monastero che già a partire nel Seicento aveva visto la parziale distruzione della chiesa trecentesca con la realizzazione della chiesa di Donnaregina “nuova” progettata da Giovanni Guarini.

La storia recente del complesso monastico inizia nel 1926 con l’intervento del soprintendente ai monumenti della Campania Gino Chierici che restaurando la chiesa trecentesca sancì la separazione tra questa e quella seicentesca. Il restauro di Chierici – un intervento paradigmatico per la storia del restauro architettonico, presentato alla Conferenza internazionale di Atene sul Restauro, nel 1931 – mirò a ripristinare la chiesa medievale nella sua configurazione originaria, persa durante secoli di abbandono e di usi inadeguati, senza eliminare le aggiunte di valore che l’edificio aveva acquisito durante la sua storia[1].

Nel maggio del 1928 Gino Chierici pone mano a quello che sarà, per sua stessa ammissione, il più importante intervento da lui progettato e diretto nel capoluogo campano. L’architetto senese era in quegli anni soprintendente all'arte medievale e moderna della Campania tra il 1924 e il 1935, si svolge in quegli anni, interessanti e fecondi per la storia della tutela, che vedono, sulla scorta di una più matura acquisizione delle teorie di Camilla Boito, il sorgere della necessità di dare oggettività agli interventi di restauro, una volta venute meno le certezze della ricostruzione stilistica di scuola francese.

La chiesa trecentesca di Donnaregina fu concepita, secondo il modello francese, ad aula unica coperta a capriate e conclusa da un'abside pentagonale con volta a crociera costolonata, preceduta da un modulo rettangolare, coperto anch'esso a crociera, i cui costoloni poggiano su mezze colonne intervallate da alte bifore: il tutto inquadrato dall'arco trionfale. L'architetto angioino, data la mancanza di spazio nell'abside o ai fianchi della navata, dispose il coro delle clarisse su un piano ammezzato che si arresta a circa un terzo dell'aula inferiore, suddivisa in tre navate e coperta con volte a crociera impostate su pilastri ottagoni in trachite di Pozzuoli. In questo modo si passa da uno spazio soppalcato, a uno a tutta altezza, dove è possibile scorgere per intero il grande arco maggiore e l'articolata scenografia dell'abside. Alla destra di quest'ultima si apre la cappella Loffredo, completamente affrescata.

Dopo soli sei anni dalla costruzione la chiesa si arricchì del sepolcro marmoreo di Maria d'Ungheria, sua fondatrice, fatto eseguire da Roberto d'Angiò al senese Tino da Camaino e al napoletano Gagliardo Primario.

Agli inizi del Cinquecento un soffitto a cassettoni riccamente intagliato fu posto al di sotto delle mensole di sostegno della capriata lignea, il che comportò la copertura di parte del ciclo superiore degli affreschi delle pareti del coro.

Con l’edificazione della nuova chiesa nel Seicento inizia il lento declino dell'antica chiesa e del monastero che, soppresso nel 1861, viene acquisito dal Comune. Quest'ultimo suddivide gli spazi del piano terra in tanti piccoli ambienti coincidenti con la scansione trasversale dei pilastri ottagoni della navata. Dal 1864 in poi la

chiesa viene utilizzata come caserma, scuola, alloggio per persone bisognose, sede della Corte d'Assise, della Commissione municipale per la conservazione dei monumenti, dell'Accademia Pontaniana e della Borsa del Lavoro: in quest'ultima occasione viene deturpato il ciclo di affreschi del coro con l'affissione di manifesti e targhe.

Il primo a denunciare tale stato di abbandono è Emile Bertaux che nel 1899 dedica una monografia alla chiesa e all'arte senese a Napoli nel XIV secolo, cui segue l'azione sensibilizzatrice della rivista «Napoli nobilissima»[2]; nonostante questi tentativi la chiesa resta in condizioni di totale degrado fino all'aprile del 1926, quando il Chierici la riceve in consegna dal Comune per poter effettuare studi e saggi preliminari.[3]

Già da una prima analisi emerge la necessità di opere oltremodo onerose e il sovrintendente, resosi conto di non poter gravare su fondi pubblici, si mette alla ricerca di un finanziamento privato, trovando nel Banco di Napoli un committente solerte e soprattutto in grado di poter sostenere eventuali variazioni della spesa.  Queste ultime sono da Chierici ritenute inevitabili in un'operazione di restauro: «come prevedere ciòche si deve fare ed il modo o la misura, quando ogni colpo di martello può rivelare una nuova necessità?»[4]. Torna qui il concetto di restauro come «progettazione aperta» che si realizza in cantiere a contatto con la fabbrica in cui sposta gli indirizzi teorici, non sono che norme generali da verificare caso per caso, facendosi guidare dal monumento sul quale si lavora: «Bisogna saperlo interrogare e se non risponde bisogna avere la forza di arrestarsi», evitando ogni completamento per analogia «che può allettare con le brillanti argomentazioni di un ragionamento pseudo scientifico».

La prima operazione condotta a Donnaregina consiste nella diagnosi dei dissesti esistenti, che rivela l'esistenza di cospicui cedimenti fondazionali derivanti dallo scivolamento del terreno di riporto su cui poggiano la parte sinistra dell'abside e quella sud-est della navata. Viene quindi condotto uno scavo armato fino alla quota di 10 metri al di sotto del piano di campagna, dove si trova un terreno più affidabile su cui impostare i nuovi pilastri di sottofondazione composti da laterizi e malta di cemento. Dopo aver ricostruito i contrafforti e lo spigolo lesionato si riaprono ed integrano nelle parti mancanti le bifore superstiti. Effettuando dei saggi nei muri trasversali del piano terreno vi si trovano incorporati una parte dei pilastri ottagoni di sostegno alle volte a crociera. Il Chierici decide allora di demolire i tramezzi costruiti dal Comune pochi anni addietro, ripristinando lo spazio della navata con i pilastri superstiti e quelli mancanti rifatti sul modello degli antichi, con la stessa trachite di Pozzuoli. Inoltre - ancora in contrasto con quanto affermato in premessa a proposito del completamento per analogia - rifà col sussidio delle tracce esistenti le finestrelle ad arco ribassato che servivano a illuminare la parte bassa della chiesa.

Ma il vero nodo concettuale e tecnico dell'intervento è la liberazione dell'abside trecentesca dal coro della contigua chiesa del Guarini: uno spazio rettangolare coperto con volta a padiglione ornato di stucchi dorati e di affreschi del Solimena. Dopo essersi a lungo interrogato, il soprintendente si convince che l'unica soluzione possibile per ripristinare la spazialità dell'abside è quella di ridurre il coro della chiesa barocca che la invadeva per un terzo della lunghezza. Per far ciò occorre trasportare altrove gli affreschi, demolire la volta a padiglione, ricostruirla, in forma ridotta, a crociera ed eliminare, su ciascun lato del coro, una delle tre finestre. Un'ulteriore difficoltà è poi rappresentata dal fatto che sulla parete di fondo dello spazio barocco, proprio quella che si incuneava nell' antica abside, vi era uno dei primi affreschi eseguiti dal Solimena il quale, giovane e inesperto, lo aveva ritoccato e ultimato con la tempera, il che rende - com'è noto - impossibile staccarlo col metodo dello strappo: non si può, quindi, ricorrere allo smontaggio e rimontaggio, ma occorre trasportare l'affresco con l'intera parete. Al di là delle notevoli difficoltà tecniche che questa soluzione presenta per l'epoca, la scelta di Chierici pone una serie di importanti perplessità di ordine teorico legate alla forte alterazione dello spazio seicentesco, che lo porta a chiedere al Consiglio superiore per le antichità e belle arti un parere sulla proposta avanzata e sui criteri da adottare. Il ministero incarica per un sopralluogo Gustavo Giovannoni, massima autorità dell'epoca nel campo del restauro. Non è noto l'esito della visita e se essa ha effettivamente avuto luogo, tuttavia, il progetto di Chierici viene integralmente approvato[5].

La parete affrescata che occorre arretrare è costituita da un tufo di pessima qualità con segni evidenti di schiacciamento e una grande lesione verticale: l'intonaco è in buona parte staccato dal paramento, le cui grandi dimensioni - circa sessanta metri quadri – rendono più difficile l'intervento. La prima operazione condotta consiste nel fissare le pitture con iniezioni adesive a base di caseina e gesso o calce; quindi si procede al fissaggio dei colori - necessario per l'applicazione di un in telaggio di tavole di legno sulla parte affrescata - e al consolidamento del muro, ridotto di spessore di oltre la metà. Viene realizzata una soletta di cemento armato aderente alla faccia posteriore del muro, resa solidale ad esso con ammorsature, e collegata al telaio in cemento che viene costruito lungo la linea periferica del quadro: in questo modo la parete risulta bloccata tra i due piani, uno di legno e l'altro di cemento. Si costruiscono sette muretti sui quali si pongono altrettante coppie di rotaie, che costituiscono i piani di scorrimento dei rulli di acciaio. Su questi si appoggiano sette travi di legno pich-pine di 14 metri di lunghezza, che vengono disposte al di sotto della parete affrescata racchiusa in un'armatura indeformabile di saettoni e croci di Sant' Andrea.

Dopo cinque mesi di lavoro preparatorio, liberato il muro dal resto dell'edificio, con due argani manovrati a mano, in quarantacinque minuti, esso viene spostato dal posto originario su un nuovo muro costruito a sei metri di distanza[6]. Quindi, demolite alcune fabbriche addossate all'esterno della chiesa, compaiono le fondazioni del tratto di abside distrutta, su cui viene impostata la ricostruzione delle pareti e dei contrafforti dell'elemento radiale. Ripristinata in tal modo l'immagine dell'abside trecentesca all'esterno, si passa all'interno, rifacendo i costoloni della volta sulla base delle sagome incise sulla faccia superiore degli abachi dei capitelli. Viene demolita quella parte di solaio costruita per prolungare il piano del coro - il che mette in luce gli archi a doppia ghiera che rappresentano la testata del coro trecentesco verso l'abside - e creata una nuova pavimentazione in coccio pesto, eseguita sulla base delle tracce rinvenute in prossimità dei pilastri e delle pareti. Il Chierici passa poi a interessarsi della cappella Loffredo: qui vengono rimessi in luce gli affreschi che ricoprivano integralmente le pareti interne, ripristinate le aperture sul chiostro e la finestra - una sorta di bifora sormontata da un occhio polilobato - che dà sulla chiesa. Circa l'esatto posizionamento del sepolcro marmoreo di Maria d'Ungheria nella chiesa, sulla base di attenti studi e misurazioni, egli arriva

- confutando la tesi del Bertaux - a fissarlo sul lato sinistro della navata, da dove sarebbe stato visibile anche dal coro superiore, e quindi decide di ricollocarlo in quel sito.

Effettuato l'intervento sulle parti architettoniche il soprintendente passa a coordinare i restauri del sepolcro stesso, del ciclo di affreschi del coro superiore e della cappella Loffredo: essi vengono materialmente eseguiti da tecnici specializzati, ma egli non rinunzia alla regia complessiva delle operazioni, entrando nel merito delle tecniche e dei criteri adottati, rivendicando giustamente a sé il fondamentale ruolo di responsabile e coordinatore dei molteplici aspetti insiti in ogni intervento. La chiesa di Donnaregina viene riaperta al culto nel novembre 1934, dopo sei anni di lavori ininterrotti, al termine dei quali il loro artefice può osservare con soddisfazione: nonostante la rigorosa cautela osservata nei ripristini e la regola scrupolosamente seguita di evitare qualsiasi aggiunta non ampiamente documentata, ed in ogni caso ristretta ad elementi che non richiedevano un'interpretazione stilistica, la chiesa dà l'impressione di una compiutezza quasi perfetta, grazie alla facilità con la quale si possono mentalmente colmare le lacune mercè l'ausilio dei molti frammenti decorativi scoperti e conservati al loro posto[7].

A partire dalla separazione, le due chiese vissero vite parallele, ma soggette a uno stesso destino in occasione della Seconda Guerra mondiale e del terremoto dell’Irpinia del 1980 che in entrambi i casi portarono numerosi danni alle strutture e richiesero importanti interventi di restauro.

A seguito della remissione dai danni bellici, la chiesa trecentesca divenne sede della Scuola di specializzazione in Beni architettonici e del paesaggio nel 1975, che ha garantito, grazie a una sostanziale continuità d’uso, la necessaria manutenzione all’intero complesso.

Bibliografia essenziale

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- A. Venditti, La chiesa di Santa Maria Donnaregina, in Il patrimonio architettonico dell’Ateneo Fridericiano, a cura di A. Fratta, 2 voll., Napoli 2004, I, pp. 173-199.

- Santa Maria Donnaregina, rubrica «Notizie ed osservazioni», in «Napoli nobilissima», n.s., voi. 1, fase. 1, 1920.

- F. Strazzullo, Architetti e ingegneri napoletani dal ‘500 al ‘700, Napoli 1969, p. 275.

 

[1]Noi abbiamo inteso compiere opera onesta e sincera di rivalutazione storica e artistica, lontana così dalla fredda concezione dei conservatori ad oltranza, i quali non ammettono neppure il ripristino di qualche tratto di cornice distrutto o di un paramento corroso, come dai pericolosi tentativi degli estetizzanti, che attraverso deduzioni ed analogie vorrebbero veder compiuti i monumenti in ogni loro parte. G. Chierici, Il restauro della chiesa di Santa Maria Donnaregina in Napoli, Napoli 1934, p.9. Cfr R. Picone, Restauri a Napoli tra le due guerre: l'opera di Gino Chierici. 1924-1935. In: S. Casiello (a cura di). La cultura del restauro. Teorie e fondatori. pp. 315-338, Marsilio Venezia 2005.

[2] Cfr. Santa Maria Donnaregina, rubrica «Notizie ed osservazioni», in «Napoli nobilissima», n.s., voi. 1, fase. 1, 1920.

[3] In realtà le vicende legate ai lavori in Donnaregina iniziano alcuni anni prima: già dal 1921 l'allora soprintendente Venè aveva ricevuto dalla Direzione generale Antichità e Belle Arti assicurazioni circa lo sgombero degli uffici municipali dalla chiesa e tre anni più tardi il Comune aveva approvato un progetto di restauro e consolidamento da sottoporre al Ministero. Tutti questi atti sono però antecedenti alla venuta di Chierici a Napoli e al suo interessamento per la fabbrica. Cfr. L. Galli, Il restauro nell'opera di Gino Chierici, Franco Angeli ed., Milano 1989, pp. 52-53.

[5] Cfr. sulla questione Galli, Il restauro, cit., p. 54, note 10, 11, 12.

[6] L'affresco del centro della volta a padiglione che copriva il coro seicentesco viene collocato in una stanza dell'appartamento della badessa, mentre «i dipinti delle vele della volta, che per la loro superficie concava non era possibile collocare con gli stessi criteri furono messi in una delle due sale a piano terreno destinate alla raccolta degli oggetti provenienti dalla chiesa e dal monastero». Chierici, Il restauro della chiesa di Santa Maria Donnaregina, cit., p. 129.

[7] nell'introduzione al lavoro lavori in Donnaregina sta nel compiacimento dell'autore nell'aver compiuto «opera di rivalutazione storica» del monumento. Dopo essersi prudentemente misurato con la concretezza della fabbrica, Chierici non rinunzia a intervenire su di essa, alla continua ricerca di un equilibrio tra le esigenze di attuare una selezione tra le sue parti - eliminandone alcune e ricostruendone altre - e il rispetto, che pure egli ha, per le testimonianze delle varie epoche e per le lacune, cui attribuisce tra l'altro un valore didattico-esplicativo. Per raggiungere tale equilibrio è necessario avere, come egli stesso sostiene, oltre che «sicure conoscenze tecniche e lunga pratica», una «buona preparazione storica per giudicare prontamente del valore di un indizio, della necessità di una rinuncia».

Museo Gaetano Filangieri

Da Palazzo Como a Museo Filangieri: storia, tutela e restauro di una residenza del Rinascimento nel contesto della nuova via Duomo

Andrea Pane, Università degli Studi di Napoli Federico II

Damiana Treccozzi, Università degli Studi di Napoli Federico II

 

1. Da palazzo rinascimentale a museo

Nel panorama della storia dell’architettura napoletana il palazzo Como costituisce un episodio decisamente singolare, non soltanto per la complessa vicenda delle sue origini, ma anche, e soprattutto, almeno nella cognizione più diffusa a livello popolare, per il singolare destino della sua “trasposizione” ottocentesca.

Edificato in pieno fulgore del regno aragonese, a partire dalla metà del Quattrocento, attraverso modificazioni e accorpamenti di fabbriche preesistenti, esso fu trasformato, con pesanti alterazioni, in complesso conventuale tra la fine del XVI e gli inizi del XVII secolo, finendo in un parziale oblio per alcuni secoli. Fu solo a partire dalla metà dell’Ottocento, e in misura maggiore all’indomani dell’Unità, nel quadro di un rinnovato interesse per l’architettura del Rinascimento, che i resti del palazzo destarono nuovamente l’attenzione di studiosi e letterati, motivati a indagarne le vicende storiche dall’imminente rischio di una loro totale perdita a vantaggio della nuova via Duomo. Ne derivarono numerosi studi, che dall’indagine sulla fabbrica si estesero anche alla sua committenza, come nel caso degli scritti di Bartolomeo Capasso, che fissarono alcuni punti fondamentali per una sua prima ricognizione (Capasso 1888).

Superata la questione della sua conservazione con una scelta che ne salvaguardò almeno i prospetti, il palazzo fu oggetto di qualche cenno anche al di là dei confini partenopei (Venturi 1924), senza tuttavia dar luogo a successive indagini sistematiche. Esso finì dunque per essere ripetutamente citato nella letteratura artistica come testimonianza eloquente della diffusione del gusto toscano a Napoli, accanto a più celebri episodi come il palazzo Gravina, occupando da allora un posto di rilievo in tutte le trattazioni storiografiche sul Rinascimento napoletano. Tuttavia il palazzo Como non fu mai oggetto, per tutto il XX secolo, di un approfondimento monografico, che indagasse i suoi aspetti formali e costruttivi, né le complesse vicende che ne avevano segnato, nel corso dei secoli, le trasformazioni né, tantomeno, quelle relative alla sua parziale conservazione e al successivo restauro ottocentesco.

Solo nel 2019 – per cura di Adriano Ghisetti Giavarina, Fabio Mangone, Andrea Pane, con il contributo di numerosi altri studiosi e il consistente apporto di Damiana Treccozzi – è uscita la prima monografia sul palazzo (Ghisetti Giavarina, Mangone, Pane 2019), che ne ha indagato sistematicamente la storia nel quadro più generale dell’architettura del Rinascimento a Napoli, le sue complesse trasformazioni e soprattutto la sua “trasposizione” ottocentesca motivata dal tracciamento, nel cuore del centro antico di Napoli, della nuova via Duomo.

Sancita a seguito di un ventennale dibattito – che vide contrapposti pareri diversi, ora inclini a sacrificarne la memoria in omaggio alle esigenze del progresso e della viabilità, ora favorevoli alla sua conservazione – la soluzione prescelta per la “trasposizione” del palazzo rappresentò un primo importante riconoscimento del valore delle preesistenze in rapporto alle impellenti esigenze di trasformazione urbana. L’esito finale, frutto certamente di un compromesso, consentì almeno la salvaguardia dei due prospetti più pregevoli del palazzo, quello meridionale e quello orientale, nei quali la testimonianza dell’architettura rinascimentale era più pregnante, insieme allo stretto prospetto settentrionale, mentre soppresse tutto quanto, al suo interno, era il risultato di alterazioni e sovrapposizioni protratte nel corso dei secoli.

In questo involucro murario, rimontato venti metri più indietro del sedime originario per consentire la prosecuzione del tracciato rettilineo della nuova via Duomo, trovò infine posto – per generosa munificenza del principe di Satriano Gaetano Filangieri, che ne diresse anche la sistemazione interna – il Museo Civico a lui intitolato, inaugurato l’8 novembre 1888. Con questo passaggio si dava dunque inizio alla terza stagione del palazzo Como, dopo l’originaria destinazione di residenza nobiliare e la sua successiva conversione a convento di San Severo al Pendino.

Sopravvissuto ai bombardamenti della Seconda guerra mondiale, ma oggetto di alterne vicende nel corso del Novecento, dalle quali derivarono anche reiterate chiusure, il Museo ha riaperto parzialmente i suoi battenti nel 2012 e, dopo un lungo lavoro di restauro e rinnovo, completamente nel 2015.

2. Le origini e l’architettura del palazzo

Le origini di palazzo Como sono strettamente legate all’insediamento a Napoli dell’omonima famiglia – discendente dal mitico fondatore Riccano Como, vicario di Carlo II d’Angiò a Marsiglia – che è attestato dai documenti fin dal 1346. Già nel 1404 un Giovanni Como risulta possessore di una casa nella strada di San Giorgio, posta in «curtilio dictae ecclesiae», ovvero al confine con l’orticello dell’omonima chiesa (Capasso 1888). Ricerche molto recenti sembrano collocare il primo insediamento della famiglia in quello che oggi è identificato come il palazzo Como-Folliero, poi Dentice di Accadia, ubicato di fronte al palazzo Como, sulla cui facciata sopravvive un balcone rinascimentale con stemma della famiglia (Ghisetti giavarina 2019; Mangone 2019). Appartenenti alla «Nobiltà dei mercadanti», i Como si stabiliscono quindi in un’area della città dai precisi connotati sociali, segnata dall’esportazione a Firenze di seta proveniente dalla Calabria e dall’importazione di tessuti serici da Firenze, commercio nel quale la famiglia era attivamente coinvolta (Mangone 2019).

Le fasi costruttive del palazzo Como sono complesse e articolate, perdurando per diversi decenni nella seconda metà del Quattrocento. Nel 1464 Angelo Como ordina l’esecuzione di cinque porte e cinque finestre in piperno per le facciate della sua casa, probabilmente corrispondenti almeno in parte a quelle di forma tardogotica poste sul prospetto meridionale del palazzo. Nove anni dopo, nel 1473, Angelo acquista dalla vicina confraternita di San Severo al Pendino una abitazione per realizzare un ampliamento del palazzo. La vendita è approvata, tra gli altri, da Diomede Carafa, proprietario di un ben noto palazzo, concluso nel 1466, il cui bugnato liscio, ad imitazione dell’opus isodomum, funge forse da modello per quello analogo che caratterizza ancora oggi il piano nobile del palazzo Como. Un ulteriore ampliamento è possibile a partire dal 1488 grazie alla cessione, da parte di Alfonso d’Aragona duca di Calabria, di un giardino con alcune case in rovina, a sua volta acquisito dal duca tre mesi prima dalla famiglia Scannasorice. È Leonardo Como, figlio di Angelo, a essere menzionato più spesso nei documenti di questi anni e i lavori nella sua casa sono attestati anche nelle Effemeridi di Leostello del 1489 (Ghisetti giavarina 2019; Treccozzi 2019c).

Un anno dopo, tuttavia, il 18 agosto 1490, è ancora Angelo a commissionare a tre lapicidi toscani la realizzazione di quattro finestre di «pietra buscia» (una arenaria proveniente da Massa Lubrense, come le analisi petrografiche hanno confermato) sul prospetto orientale a imitazione della finestra marmorea già eseguita e tuttora presente a sinistra del prospetto. Agli stessi lapicidi sono inoltre commissionate sei porte di «pietra azzurra» (denominazione corrente della pietra serena toscana), un grande camino e una finestra sopra la loggia per la sala, due porte e due finestre per le camere. È questa la fase del definitivo assetto rinascimentale di palazzo Como, nella quale viene realizzato anche il bugnato rustico del basamento, ispirato certamente a esempi fiorentini come il palazzo Medici e il palazzo dello Strozzino, ma qui meno riuscito a causa della necessità di applicare il nuovo rivestimento a una muratura già esistente e forse finita a bugnato liscio, da cui i giudizi non lusinghieri espressi a suo tempo da Adolfo Venturi e Roberto Pane (Venturi 1924; Pane R. 1975-77).

L’attento studio sui documenti di questa fase, compiuto recentemente da Adriano Ghisetti Giavarina, consente di avanzare l’attribuzione della configurazione finale di palazzo Como ad Antonio Marchesi da Settignano, allievo di Giuliano da Maiano e continuatore delle opere del maestro dopo la morte di quest’ultimo, avvenuta a Napoli pochi mesi dopo la data del documento prima citato, il 17 ottobre 1490. Lo confermerebbero, secondo le sue ipotesi, diversi altri elementi: 1) la presenza dei tre scalpellini toscani nel cantiere della cavallerizza di Poggioreale, quasi certamente diretta da Antonio Marchesi; 2) la collaborazione tra lo stesso Marchesi e Leonardo Como in diverse imprese di quegli anni, tra le quali il sopralluogo del duca di Calabria alle fortificazioni costiere della Calabria, cui presero parte entrambi; 3) l’analogia del palazzo Como, in particolare del portale, con il palazzo Calderini a Imola, opera del padre di Antonio, Giorgio Marchesi.

3. Vicende storiche e trasformazioni architettoniche dal XVI al XIX secolo

Con la morte di Angelo Como nel 1499 e il progressivo abbandono, da parte dei suoi eredi, della casa gentilizia, si inaugurò per il palazzo Como una nuova stagione di trasformazioni che si sarebbe protratta fino al XIX secolo. Già al 1566 il palazzo non risultava più abitato dai Como che lo avevano prima dato in fitto e poi definitivamente venduto, nel 1587, per 8.000 ducati ai Padri Predicatori della congregazione di Santa Caterina da Siena, stabilitisi nella adiacente chiesa di San Severo nel 1586. Ben presto «tutte le case comprate… servite per ampliazione del Convento» – tra le quali ricadeva anche quella Como – sarebbero state affidate a Giovan Giacomo di Conforto con il compito di accorparle sotto un unico disegno unitario. Così, al termine del XVI secolo, «le memorie del palazzo Como finiscono e cominciano quelle del Convento di San Severo maggiore; memorie povere e monotone, e nelle quali non s’incontrano nomi e fatti d’interesse storico, e tali da raccomandarli all’attenzione dei posteri» (Capasso 1888).

Sebbene la storia del nuovo convento sia durata oltre due secoli, non sembrano oggi sussistere tracce documentarie o iconografiche significative relative alla nuova configurazione architettonica. L’intervento dovette essere certamente complesso, richiedendo diversi anni per essere portato a termine, al punto che al 1629 i lavori erano ancora in corso. Solo nella Mappa topografica della Città di Napoli e de’ suoi contorni edita da Giovanni Carafa duca di Noja (1775) può osservarsi, a quasi centocinquant’anni dall’ultimazione dei lavori di conversione, la disposizione planimetrica della chiesa e dell’annesso convento, al quale si accedeva dal sagrato della chiesa. Proprio nel corpo principale del convento, ad oriente, aveva sede, sin dal 1618, la Congregazione dei Recitanti del Santissimo Rosario che vi sarebbe rimasta fino alla trasposizione ottocentesca del palazzo. Infine, nel cantonale meridionale si era stabilita la farmacia del convento o spezieria di fra Giacinto, cui si accedeva dall’uscio più a sud del prospetto orientale, ricavato con un taglio nel bugnato rustico del basamento (Capasso 1888).

La soppressione napoleonica degli ordini monastici del 1806 avrebbe posto fine anche alla fase religiosa del palazzo Como, che, pur avendo comportato – per effetto della conversione a convento – sostanziali alterazioni, aveva tuttavia consentito di preservarne un uso unitario. Dopo il 1806, invece, la fabbrica avrebbe subito una irrecuperabile frammentazione con la destinazione dell’ultimo livello ad alloggio delle vedove dei militari e l’occupazione della restante parte con i più disparati usi. Nel 1815 una parte del pian terreno, compreso il chiostro e il refettorio, oltre a gran parte del primo piano, furono dati in fitto all’austriaco Antonio Mennel, che vi stabilì una fabbrica di birra; altri ambienti al pian terreno verso il vico San Severo furono dati in uso alla Conciliazione degli arretrati dei creditori di beneficienza, mentre i rimanenti locali, sempre al pian terreno, furono adibiti a deposito. Nel 1818, l’ex convento passò prima sotto l’amministrazione della Commissione esecutrice del Concordato e poi nel 1824, alla Commissione mista amministratrice del patrimonio ecclesiastico regolare. In quello stesso giro di anni il complesso fu concesso anche, nel 1822, alla badessa del Divino Amore, Leonora Santasilio, per fondarvi un nuovo convento, mentre per qualche tempo, furono pure ospitati, dal 1827, i Padri Minori Osservanti della provincia di Principato Citra (Capasso 1888).

La seconda e ultima soppressione degli ordini religiosi del 1863 fu causa di nuovi squilibri. I locali, liberati ancora una volta, furono utilizzati dal Municipio che vi insediò alcuni uffici tra i quali la Questura, la Pretura della sezione Pendino, la Compagnia della Misericordia e una Società evangelica. Questo assetto è ben visibile in una preziosa documentazione del 1864, che in quattro piante mostra i resti del palazzo e del convento adibiti agli usi più disparati (Sarnella 1979; Treccozzi 2019a). Successivamente, nel 1875, con la demolizione della sede del Ritiro dell’Ecce Homo presso il quartiere Porto, questo fu trasferito nei piani terreni della parte postica dell’ex convento – con la conseguente dislocazione degli uffici della Questura – ove rimase per lungo tempo. Intanto, dal 1879, i sotterranei risultavano impiegati come deposito di vario genere, persino di carbone (Capasso 1888).

Così, mentre nel corso di tutta la prima metà dell’Ottocento l’ex convento di San Severo al Pendino aveva visto susseguirsi al suo interno i più disparati usi, con l’avanzare dei lavori della via del Duomo e la minaccia di una sua possibile mutilazione, iniziavano progressivamente a risuonare le speculazioni intellettuali intorno all’antico palazzo Como, e a quanto ancora si conservasse del palazzo rinascimentale.

4. L’apertura di via Duomo e il destino del palazzo

Come già accennato, la singolare vicenda della “traslazione” di palazzo Como è generata dal tracciato in rettifilo della prima arteria aperta nel cuore del centro antico di Napoli: via Duomo, realizzata tra il 1861 e il 1887. Concepita durante il regno di Ferdinando II, questa strada costituisce un esempio emblematico di continuità tra i programmi edilizi di età borbonica anche dopo l’unità d’Italia.

La prima idea di una strada di attraversamento del centro antico, disposta in corrispondenza di uno degli antichi cardines della città, risale addirittura al 1839, quando gli ingegneri Federico Bausan e Luigi Giordano presentano un progetto di nuova strada da San Carlo all’Arena alla Marinella, parallelo all’attuale via Duomo e posto dietro la fabbrica della cattedrale, che non sarà mai realizzato.

Alcuni anni dopo, nel 1852, il sovrano dà incarico a due architetti municipali, Luigi Cangiano e Antonio Francesconi, di elaborare un progetto di una nuova strada verso il Duomo, ottenuta dall’allargamento del cardo antistante la cattedrale che, procedendo da nord a sud, comprendeva il vico San Giuseppe dei Ruffi, la strada dell’Arcivescovado, la strada dei Mannesi, il vico San Giorgio Maggiore e la strada San Severo al Pendino. La definizione in rettilineo di un tale percorso avrebbe generato diverse e gravi conseguenze sulla conservazione di antiche fabbriche, tra le quali l’inevitabile taglio del complesso costituito dalla chiesa di San Severo al Pendino e dal palazzo Como. Appare dunque evidente che il problema specifico del palazzo si pose fin dal principio del tracciamento della nuova strada, comportando una precisa scelta che doveva apparire ineludibile agli occhi dei progettisti, a meno di non abbandonare la rigorosa assialità del rettifilo.

Rimasto sulla carta per diversi anni, anche per le evidenti difficoltà di esproprio, il progetto è ripreso alla vigilia del tracollo del regno borbonico, quando Francesco II conferma gran parte delle disposizioni già stabilite dal padre, ma eleva la sezione stradale da cinquanta a sessanta palmi, sottolineando la priorità del tratto compreso tra San Giuseppe dei Ruffi e via Tribunali. Nessun intervento concreto, tuttavia, è portato avanti sino all’ingresso in città di Garibaldi che, in qualità di Dittatore dell’Italia Meridionale, il 18 settembre 1860 decreta l’urgenza di avviare i lavori della nuova strada, i cui dettagli vengono fissati in un grafico datato 27 dicembre 1860, ritrovato e pubblicato per la prima volta da Andrea Pane nel volume monografico prima citato (Pane A. 2019).

Nonostante la scelta di concentrare l’allargamento dell’antico cardo prevalentemente sul lato orientale, al fine di ridurre gli effetti sui numerosi complessi monastici, come San Giuseppe dei Ruffi e i Girolamini, gli esiti sul tessuto edilizio esistente sono notevoli. Già nel disegno si riconoscono infatti le conseguenze sulle principali chiese e sui palazzi intercettati dalla nuova strada: la chiesa delle Crocelle ai Mannesi è demolita per far posto ad uno slargo e ricostruita in posizione ortogonale rispetto alla preesistente, quella di San Severo al Pendino è ridotta di ben quattro campate, lasciandone in piedi solo due, mentre il palazzo Como è resecato sul fronte postico della parte rinascimentale ma quasi integralmente conservato, benché il prospetto meridionale appaia sacrificato dal previsto allargamento di vico San Severo.

Dopo una lunga gestazione, i lavori per la nuova via Duomo vengono inaugurati con una solenne cerimonia il 24 giugno 1861, a partire da via Foria (Pane A. 2019). Il progresso delle opere avanza tuttavia a rilento: nel 1864 si arriva a San Giuseppe dei Ruffi mentre soltanto il 19 settembre 1868, sette anni dopo l’inizio dei lavori, si inaugura l’intero primo tronco della strada fino al fianco nord del duomo. Alcuni mesi più tardi, il 3 aprile 1869, alla presenza del principe ereditario Umberto, si dà inizio al cantiere dei portici di raccordo tra la nuova strada e la cattedrale, che generanno anche la successiva riprogettazione della facciata, affidata a Errico Alvino.

Seguirà l’apertura del tratto compreso tra il duomo e la via Vicaria vecchia, realizzata tra il 1870 e il 1877, che comporterà il taglio – già previsto in sede di progetto – della chiesa di Santa Maria Porta Coeli, più nota con la denominazione di Crocelle ai Mannesi, rimasta per qualche tempo allo stato di rudere e poi sostituita da una nuova chiesa in forme neogotiche su progetto di Filippo Botta (Pane A. 2019). Al termine di questo periodo, l’attenzione della cittadinanza sarà concentrata sul nodo più critico dell’intero tracciato, ovvero il complesso di monumenti costituiti dalla basilica di San Giorgio Maggiore, dalla chiesa di San Severo al Pendino e dal palazzo Como, tutti interessati da consistenti mutilazioni da parte della nuova strada. Nonostante le attenzioni della Commissione municipale per la conservazione dei monumenti, istituita nel 1874, la prima chiesa sarà privata di un’intera navata e sistemata con un nuovo prospetto su via Duomo, disegnato da Francesconi, mentre quella di San Severo sarà privata del sagrato, della facciata e di ben tre delle cinque campate.

Ben più complessa sarà tuttavia la decisione da prendere nei confronti del palazzo Como, a rischio di scomparire totalmente o di finire ridotto a un semplice lacerto murario privo di relazione con il suo contesto originario, decisione che animerà intensamente il dibattito cittadino tra il 1878 e il 1880.

5. Dalle prime proposte alla traslazione del palazzo, 1863-1884

Il destino infausto del palazzo Como aveva suscitato precoci allarmi già pochi anni dopo l’avvio dei lavori di via Duomo. Fin dal 1863 Luigi Settembrini si era rivolto allo stesso Francesconi, implorandolo di deviare la strada e salvare il palazzo nella sua integrità (Settembrini 1863). Fu soprattutto nel 1879, tuttavia, che l’interesse per la questione iniziò a diffondersi tra gli intellettuali napoletani in tutta la sua vividezza ed urgenza. Proprio in quell’anno, infatti, i lavori della nuova strada, giunti ormai di fronte al palazzo Como, dovettero essere interrotti a causa del disaccordo che ancora regnava sulla decisione da prendersi. Esplose allora la partecipazione dei cittadini al dibattito, divenuto ormai pubblico, come confermano una fitta serie di pubblicazioni di intellettuali che, a vario titolo, si espressero a favore della salvaguardia di quella residenza rinascimentale minacciata di distruzione (d’Aloe 1879, D’Ambra 1879, Lylircus [E. Cerillo] 1879a, Pedone, Martinez 1879, Pedone 1880).

Tra i tanti tecnici e studiosi coinvolti vi fu Alberto Pedone, ingegnere socio del Collegio degli ingegneri e architetti in Napoli, che il 25 aprile 1878 presentò al collegio una «conferenza illustrativa del Palazzo Como», a seguito della quale l’Assemblea si impegnò a fare «voti vivissimi al Municipio di Napoli, che non potendo que’ ricordi essere conservati nella loro integrità, siano artisticamente trasportati sul fronte della nuova via del Duomo» (Atti del Collegio degli Ingegneri ed Architetti in Napoli 1878). Il Municipio fu così invitato, forse per la prima volta, a prendere in considerazione l’idea della “trasposizione” del palazzo Como. Fino ad allora, infatti, la soluzione conservativa da adottarsi per risparmiare il palazzo dalla completa demolizione era stata individuata in quella di sopprimere solamente quella parte della fabbrica che effettivamente impediva la prosecuzione della nuova via del Duomo, lasciando così sul fronte orientale della strada un «avanzo» dello spessore di pochi metri da completare poi con un nuovo prospetto. Tale ipotesi doveva sembrare ancora attuabile quando, secondo il progetto di Cangiano e Francesconi del 1860, la via avrebbe dovuto lievemente resecare il fronte occidentale del palazzo (Pane A. 2019). Essa sarebbe apparsa impraticabile a seguito di una revisione del tracciato viario – da cui sarebbe conseguita la riduzione della parte superstite del palazzo Como a dimensioni talmente esigue da renderlo inutilizzabile, senza considerare la complessità tecnica e il costo di una simile operazione, come denunciato da diversi intellettuali e ingegneri-architetti dell’epoca (Lylircus [E. Cerillo] 1879a).

In seguito alle pubblicazioni di Pedone, molti altri si espressero sulla questione, alimentando quello che divenne un vero e proprio dibattito pubblico. Se si eccettua la singolare posizione di Stanislao d’Aloe che si oppose alla realizzazione della via del Duomo «vera cagione di malanni pe’ cittadini» (d’Aloe 1879), la posizione prevalente risultò essere quella della scomposizione e ricomposizione dei prospetti sul fronte occidentale della via del Duomo. Così, il 25 agosto 1879, la Commissione per la conservazione dei monumenti municipali deliberò di procedere sperimentalmente allo smontaggio del suddetto paramento e, conseguentemente, ad un «saggio di ricostruzione» (Colombo 1900). Si decise di smontare il rivestimento in piperno del prospetto meridionale, previa rimozione dei «rimaneggiamenti dei frati» – tra i quali fu compreso il piano attico di sopraelevazione – e di disporlo identicamente su di un piano appena inclinato, di modo che la Commissione dei monumenti, la Giunta e il Consiglio municipale potessero valutare la fattibilità dell’opera (De Coster 1882). L’esperimento si concluse positivamente, cosicché tra il maggio e il giugno del 1880 fu deliberata all’unanimità la definitiva “traslazione” del palazzo Como – o meglio dei suoi paramenti esterni – sul fronte occidentale della nuova via del Duomo, arretrandolo di quasi venti metri rispetto alla giacitura originaria, nonché l’interposizione tra esso e la chiesa di San Severo al Pendino di un portale di accesso ai residui locali postici dell’ex convento, ancora occupati dal Ritiro dell’Ecce Homo (Colombo 1900).

Intanto, mentre procedeva lo smontaggio dei prospetti orientale e settentrionale, veniva avviata, lungo il perimetro individuato per il nuovo ingombro della fabbrica, la costruzione delle fondazioni dei muri ai quali sarebbero state addossate le antiche bugne del palazzo Como. I prospetti, negli intenti della Commissione municipale, avrebbero dovuto rispettare unicamente le bucature originarie rinascimentali, cancellando le alterazioni successive. Alla fine, però, si decise di propendere per una soluzione intermedia tra quelle estreme di applicazione di una rigorosa correzione geometrica con il mantenimento delle sole finestre quattro-cinquecentesche e quella di riproposizione della fedele ed esatta configurazione precedente la trasposizione.

Tra il 1881 e il 1883 andava così definitivamente configurandosi il “nuovo” palazzo Como, finalmente allineato sul fronte stradale della via del Duomo (De Coster 1882, Cerillo 1888). L’operazione, conclusasi con successo, fu accolta con entusiasmo e lodata con ammirazione dai cittadini, al punto che anche Paolo Boubée, nella rassegna delle maggiori opere della Scuola napoletana di ponti e strade, la menzionò come un intervento complesso, la cui riuscita dimostrava appieno la capacità tecnica dei napoletani e del suo principale artefice, Antonio Francesconi.

Nel frattempo proseguiva il dibattito per l’individuazione della giusta funzione da inserirvi all’interno, che si risolse nell’accettazione, da parte del Municipio, della proposta di Gaetano Filangieri principe di Satriano di allestirvi all’interno un museo civico a sue spese. Così, sotto la direzione di questi, gli architetti de Angelis, Romano e Cerillo furono ben presto incaricati di predisporre un nuovo progetto distributivo per accogliere nel piccolo volume la grande collezione del principe. L’8 novembre 1888 il Museo Civico Gaetano Filangieri fu finalmente inaugurato (Barrella 1998) nel clamore generale e celebrato diffusamente sui periodici di quei giorni.

Nel presente contributo, frutto di un lavoro di ricerca condiviso, Andrea Pane è autore dei paragrafi 1, 2 e 4, mentre Damiana Treccozzi dei paragrafi 3 e 5.

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Foto di Mario Ferrara

Museo dell’Archivio Storico del Banco di Napoli

Il palazzo Ricca, sede della Fondazione e dell’Archivio Storico del Banco di Napoli, e la cappella-oratorio del Monte dei Poveri

di Francesca Capano

Foto di Mario Ferrara

Il palazzo Ricca, sede della Fondazione Banco di Napoli e dell’Archivio Storico del Banco, a cui furono aggiunti la cappella e l’oratorio del Monte dei Poveri nella seconda metà del Seicento, deriva il nome da Gaspare Ricca che nel Cinquecento trasformò la preesistenza nella residenza per la sua famiglia.

L’isolato su cui insiste il palazzo è l’ultima strigas orientale dell’impianto della citta greca, poi romana, sul versante sud della plateia, poi decumano mayor, insiste a ridosso del percorso delle antiche mura urbiche e presenta una larghezza doppia rispetto alla dimensione tipo di un isolato antico napoletano con una deformazione, più precisamente uno spanciamento, sul limite est, come dimostra anche l’analisi della cartografia storica; tale deformazione è da attribuirsi proprio alla posizione periferica [Pane 1970, 278-283].

Nel sedime dell’edificio sono stati ritrovati resti riconosciuti come appartenenti a una domus, scoperta fortuitamente all’inizio degli anni Settanta del secolo scorso [L’Archivio Storico del Banco di Napoli 1972, 16]. L’edificio risale al II secolo; la struttura romana è probabilmente da collegarsi al più grande complesso residenziale, emerso durante i lavori del Risanamento tra le attuali strade di San Nicola dei Caserti, di Pietro Colletta e della Giudecca Vecchia, ricadente quindi nella regio Furcillensis.

Non si hanno notizie della preesistenza medioevale ma è ipotizzabile che l’edificio godesse di una posizione invidiabile per la prossimità con Castel Capuano, fortilizio normanno, residenza e forte svevo, ristrutturato dai sovrani angioini prima e aragonesi poi.

Alla metà del XVI secolo, quando il castello era divenuto sede dei tribunali napoletani per volere di don Pedro de Toledo, il duca Gaspare Ricca acquistò una casa, ristrutturandola nella residenza aristocratica di famiglia. Del palazzo cinquecentesco, continuamente utilizzato e rimaneggiato da appartamenti nobiliari a sede del banco, rimangono la conformazione delle sale e la bella scala di sicura matrice risalente al XVI secolo [Ruotolob 1993, 42], costruita sul fronte orientale del cortile longitudinale sul quale affacciano i ballatoi coperti da volte a crociera. Lo stemma dei Ricca ancora oggi arricchisce l’affaccio della scala sulla corte, posto al centro del ballatoio del piano nobile.

La veduta del 1566 Quale e di quanta importanza e belleza sia la nobile cita di Napole in Italia... incisa da Étienne Du Perac ed edita da Antoine Lafréry mostra un muro continuo di cinta con un edificio a filo strada e una piccola chiesa con campanile, icona che rimanda alla chiesa di San Tommaso a Capuana. Il piccolo edificio religioso, fondato nel XII secolo [Ruotoloa 1993, 42], era adiacente al palazzo cinquecentesco.

Il palazzo – ma forse sarebbe più corretto definire la proprietà Ricca ‘casa palazziata’ – nel 1616 fu venduto al Monte dei Poveri del Santissimo Nome di Dio per ospitare la confraternita [Nappi 1979, 173].

L’istituzione nacque nel 1599 dalla fusione di due compagnie caritatevoli e religiose [Celano 1692, 68]. La più antica (1563) era la Compagnia di Santa Maria del Banco dei Poveri, la cui missione era prestare denaro ai carcerati [Celano, 1692, I, 66]. La prima ubicazione fu nella chiesa dei Santi Apostoli, poi spostata a San Giorgio Maggiore, nella cappella di San Severo Vecchio alla sinistra dell’ingresso porticato [Capasso 1889, 113], ristrutturata nel 1579 e intitolata alle Anime del Purgatorio [Celano, 1692, I, 114]. Le attività caritatevoli erano sempre in aumento, infatti, l’ente ottenne anche una sede nel palazzo dei Tribunali [Celano, 1692, I, 115].

La compagnia del Santissimo Nome di Dio si costituì nel 1583 per compiere opere caritatevoli; fu voluta da Orazio Teodoro su suggerimento del domenicano don Paolino da Lucca. La sede della compagnia infatti era nella chiesa dell’ordine di San Severo Maggiore [Tortora 1883, 59].

Il neonato monte, risultato della fusione delle due istituzioni, scelse come sede principale quella di San Giorgio Maggiore. Le attività caritatevoli erano costantemente in crescita; nel 1608 il monte ampliò il proprio campo divenendo anche banco [De Lellis 1654, 85,86].

Insoddisfacenti oramai le sedi, nel 1616 il monte-banco acquistò la casa di Gaspare Ricca. Furono pagati 10.000 ducati oltre i censi che gravavano sulla proprietà – la cifra totale è stata calcolata in 10.500 ducati – [Nappi 1979, 178]. Tali dati emergono dallo studio dei documenti conservati proprio presso l’Archivio Storico del Banco di Napoli, studiati nel 1979 da Eduardo Nappi; studio ancora indispensabile per analizzare la storia e la ricchezza artistica del palazzo, della piccola chiesa e dell’oratorio, al quale ci si riferisce per questo breve saggio, in particolare per le fonti archivistiche [Nappi 1979, 177-187].

Incaricato della ristrutturazione, necessaria dopo l’acquisto, fu Giovan Giacomo Conforto, o di Conforto, (1569 - 1631) [Strazzullo 1969, 95; Leone 1983] pagato «per buon conto e sue fatiche fatte nell’architettura e disegno del loro palazzo» [Nappi 1979, 174].

Questi primi lavori per adeguare la residenza aristocratica alle nuove necessità funzionali durarono un periodo breve; si suppone quindi che si trattò di lavori di poco conto [Pane 2001, 184].

Nel 1618 furono commissionate quattro statue – San Gennaro, San Severo, San Tommaso d’Aquino, e Sant’Antonio da Padova – a Gerolamo D’Auria per l’oratorio, posto ai piani superiori del palazzo; poi le effigi dei santi furono traslate nella chiesa, dove sono ancora oggi. Nello stesso anno furono poste in facciata sulla Strada de’ Tribunali, gli stemmi marmorei del monte, del re e del viceré [Pane 2001, 189].

Nel 1640 la chiesa di San Giorgio Maggiore e quindi anche la cappella del banco furono distrutti da un incendio. La costruzione, anche se più tarda, della chiesa e del nuovo oratorio sono probabilmente da collegare anche a questo evento, oltre alla scomodità dell’ubicazione della sala di raccoglimento, posizionata in origine all’interno e a un piano superiore del palazzo.

Nel 1669 iniziarono i lavori di costruzione della chiesetta e dell’oratorio posti a conclusione della corte sul lato meridionale [Pane 2001, 189]. La facciata avrebbe occupato il fronte principale dello spazio aperto rettangolare, anche se il disegno dell’impaginato è, come vedremo, del secolo successivo. Dai documenti dell’Archivio del Banco emergono chiaramente le motivazioni che avevano portato alla nuova costruzione, che doveva essere «più cospicuo e ragguardevole, e che stia a prospettiva della strada per haver tutte le prerogative c’hanno le chiese pubbliche, dove ogni giorno di possono celebrare li divini uffici, e far le solite funtioni nelli giorni più devoti [un edificio] con la terra santa per li fratelli che vi si vorranno seppellire» [Nappi 1979, 178].

La piccola chiesa è composta da una navata unica centrale di pianta quadrata, l’altare maggiore, sopraelevato di tre gradini, ha uno sviluppo longitudinale suddiviso in tre campate. La campata centrale accoglie l’altare principale, quelle laterali sono terminate dai passaggi per raggiungere l’oratorio. L’aula unica dell’oratorio è di forma rettangolare allungata, l’altezza è considerevole, sfruttata da un doppio ordine di aperture: lungo i muri perimetrali il primo e nelle lunette della volta il secondo. Al di sotto dell’invaso si trova la cripta di pianta praticamente uguale. I portali che collegano la chiesa e l’oratorio, tipicamente barocchi, accolgono al di sopra dei timpani spezzati due grandi targhe marmoree. Nelle iscrizioni si leggono i dati salienti dell’istituzione: la fondazione, lo statuto, la data della cerimonia della prima pietra posata dall’arcivescovo Innico Caracciolo, la consacrazione dell’altare maggiore a Santa Caterina [Pane 2001, 189-190].

Per il progetto dell’oratorio si fanno i nomi di un nobile congregato Giuseppe Caracciolo – sconosciuto alla letteratura artistica – per il progetto [Celano 1692, 68], di Antonio Caputo, a cui fu pagato il modello, e di Onofrio Tango in qualità di direttore dei lavori [Nappi 1979, 178].

Al 1672 risalgono i pagamenti degli artisti responsabili dell’apparato decorativo; la costruzione terminò nel 1673. Più dettagliatamente nel 1672 furono eseguiti i marmi per l’altare e per la gradinata da Giovanni Mozzetti. Nello stesso anno la costruzione doveva essere terminata poiché Luca Giordano (1634-1705) veniva saldato – 350 ducati – per l’affresco a incannucciata del soffitto, dedicato all’Immacolata; sempre a Giordano l’anno seguente venne commissionata la pala dell’altare maggiore [Nappi 1979, 178]. L’organo fu terminato qualche anno più tardi ad opera di Giovanni Gualberto Ferretti. All’organaio furono pagati 190 ducati nel 1685. La decorazione dell’organo invece fu affidata all’intagliatore Giuseppe di Gennaro. Nel 1726 fu necessario revisionare l’organo. Le tele con i soggetti dell’Assunzione e della Natività furono eseguite da Francesco Solimena (1657-1747) nel 1686 e poste ai lati dell’altare maggiore [Nappi 1979, 178-179].

Un nuovo altare posto all’ingresso fu eseguito dal marmoraro Giuseppe Pacci nel 1724 a sostituzione di quello più antico. Nel 1735 un altro artigiano, Francesco Ragozzino, eseguì le cornici marmoree laterali destinate ad accogliere i quadri di Solimena, ‘apprezzate’ da Domenico Antonio Vaccaro (1678-1745) [Nappi 1979, 181]. Vaccaro eseguì i progetti della pavimentazione e della balaustra [Nappi 1979, 182] che non riuscì a terminare per la sopravvenuta morte. Giovanni Del Gaizo (1715-1796) continuò il lavoro del maestro, tra le figure più rappresentative della prima metà del Settecento napoletano, terminando il pavimento e fornendo i disegni per il presbiterio, l’altare maggiore, il baldacchino, la portella d’ottone e fornendo «assistenza continua fatta per la perfezione di tutte le opere suddette» [Nappi 1979, 182].

Il prospetto della chiesa, che arricchisce con un disegno tardo barocco ma abbastanza severo tutta la corte di cui è l’elemento precipuo, fu eseguito da Gaetano Buonocore a partire dal 1749. Nel 1751 fu posto in opera, sempre con la direzione di Buonocore l’orologio maiolicato di Francesco Barletta – pagato 275 ducati – che termina la composizione del fronte [Nappi 1979, 182, 183]. È ascrivibile a Buonocore anche il disegno degli stucchi decorativi dell’oratorio rispondente al decorativo gusto rococò [Pane 2001, 201].

Nello stesso anno fu necessario restaurare il soffitto di Giordano; il compito ricadde su Antonio della Gamba. Per la sacrestia furono acquistati due crocifissi lignei dallo scultore Gennaro Franzese. Nel marzo del 1767 i documenti ma anche la letteratura storico-artistica riportano il nome di Gaetano Barba (1730-1806) come architetto del banco [Celano 1856, II, 369; Jacazzi 1995, 107-109] e quindi supervisore di tutte le opere, assistito dall’ingegnere Filippo Fasulo. Si decise su consiglio evidentemente di Barba di vendere l’altare originale e di sostituirlo con uno più moderno, secondo il disegno attribuibile a Barba, eseguito dai marmorari Giacomo Masotti e Gaetano Bello, che terminarono anche il pavimento (1768) [Nappi 1979, 182, 183]. I puttini dell’altare furono eseguiti da Paolo Persico.

Tornando agli uffici e agli archivi, che occupavano l’ex-palazzo Ricca, negli anni Trenta del XVIII secolo erano divenuti inadeguati a causa della costante crescita del carico di lavoro del banco. Si rese necessario un piano di adeguamento, a tale scopo furono interpellati noti professionisti e artisti: Gaetano Romano, Giuseppe Stendardo, Domenico Antonio Vaccaro e Giovan Battista Nauclerio (1666-1739). Tra le proposte si decise di mettere in pratica quella di Stendardo, al quale fu richiesto un progetto più contenuto, probabilmente per mantenere i costi bassi. Questi lavori, diretti da Alessandro Manni, durarono vari anni.

Tra il 1734 e il 1736 fu costruita la scala secondaria da Ferdinando Sanfelice (1675-1748) di grande valore artistico e architettonico. Al grande architetto, noto anche per le sue ardite scale, furono pagati 130 ducati e gli fu richiesto anche un modello [Nappi 1979, 181]. Attraversando la corte e passando nel cortile minore a ovest della chiesa e dell’oratorio, fu costruita la scala che doveva collegare varie preesistenze, risolvendo il problema delle quote differenti. Giulio Pane fornisce una chiara ed esauriente descrizione del progetto sanfeliciano «egli immagina perciò una scala a ingressi sfalsati, le cui rampe si appoggiano allo stesso muro di spina centrale, ma attingono separatamente i due corpi di fabbrica, sicché percorrendo una delle rampe non s’incontri mai l’altra, che le cammina a fianco, pur consentendo una certa reciproca introspezione tra i due percorsi. L’ingegnosa compenetrazione, ottenuta svolgendo le due coclee una nell’altra, si sviluppa attorno al muro di spina, per raggiungere l’ultimo pianerottolo dove esso è traforato da un’ampia finestratura mistilinea, che offre trasparenza alla luce ed all’aria, mentre tra le due rampe ciò è garantito da un grande occhio che si apre sul ballatoio intermedio, sicché gioco teatrale e convenienza funzionale e strutturale si fondono insieme in un vero e proprio labirinto verticale, assai suggestivo. Delineata con grande semplicità nella sua ornamentazione particolare – fasce di stucco segnano appena gli archi d’imposta delle volte a crociera rampanti – la scala si affaccia in un piccolo spazio verde, di fronte alla parete laterale della chiesa della Confraternita, offrendo l’immagine di una inattesa macchina da festa» [Pane 2001, 192-195].

Vaccaro lavorò fino al 1745, anno della sua morte, non solo nell’oratorio ma anche al palazzo, dove fu autore di interventi di piccola entità come dipinti alle pareti nelle sale e dorature di porte. Fu incaricato di progettare la «fabbrica che a suo tempo dovrà farsi nel nostro Monte sopra la parrocchia di S. Tommaso» [Nappi 1979, 181, 182]. I lavori furono continuati da Del Gaizo ingegnere del banco sicuramente almeno fino al 1749. Non si ha, infatti, alcuna evidenza che Vaccaro, incaricato di questo progetto di ingrandimento, vi abbia effettivamente lavorato, poiché come già detto, sarebbe morto di lì a poco, ancora impegnato nel cantiere del banco.

Alla fine degli anni Quaranta del Settecento furono eseguiti molti ammodernamenti che hanno contribuito a dare al palazzo l’aspetto odierno. In particolare le sale dell’udienza, oggi sale studio, furono decorate dal pittore Nicola Trabucco, che restaurò anche cinque antiche tele di Belisario Corenzio poi spostate al Monte di Pietà.

Nel 1769 si manifestarono nell’edificio evidenti lesioni, che indussero il banco a interpellare vari ingegneri-architetti: Giuseppe Astarita (1707-1775), Pascale Manzo, Carlo Zoccoli, Bartolomeo Vecchione. Dalle perizie emerse unanime la causa, un cedimento fondale da ascriversi alla vicinanza delle sostruzioni a un ramo dell’acquedotto del Carmignano, e la soluzione, la necessità di consolidare tutto il palazzo sul versante di via Tribunali [Nappi 1979, 185]. Barba come tecnico responsabile del banco eseguì il progetto [Nappi 1979, 185; Jacazzi 1995, 110]. Fu l’occasione per una ristrutturazione e in particolare per un nuovo disegno di facciata, caratterizzata da una impronta classicista, in grado di richiamare anche la solidità richiesta ad un edificio la cui funzione era anche quella di banco.

Terminate le lavorazioni più consistenti del nuovo fronte, Bello pose in opera le decorazioni marmoree nel 1771. Gli stucchi del balcone centrale furono eseguiti da Gerardo Solofrano, o Solifrano. A questi stessi anni risalgono altri dipinti della Sala delle Udienze e anche di altri ambienti di rappresentanza di cui fu incaricato Giuseppe Funaro, detto il mancino, responsabile delle quadrature architettoniche, e il decoratore Gennaro Aveta, che eseguì le pitture ad olio per alcuni finestroni. Il medaglione centrale del soffitto e le figure degli angoli della Sala delle Udienze furono eseguiti dal più noto Giacinto Diano (1731-1803) [Nappi 1979, 185-187]. Merita una nota la composizione di tutto il soffitto incentrata sul Trionfo di Maria di Diano, una complessa quadratura architettonica che utilizza sapientemente la prospettiva illusionistica. Una balconata dipinta si affaccia nella sala, ritmata da nicchie con statue monocrome e ricchi vasi di fiori. Al di sopra sono rappresentati un tamburo e una finta cupola e in posizione centrale il trionfo. Gli affreschi terminarono nel 1775.

Nel 1778 fu acquistato l’adiacente palazzo Cuomo, venduto dagli eredi di don Pietro Cuomo sempre per soddisfare le esigenze di crescita del banco. Il palazzo che si affacciava su via San Nicola dei Caserti presenta un fronte semplice, lineare e decoroso, caratterizzato dalle ritmate aperture rettangolari, semplicemente riquadrate a fascia, chiuse da pesanti inferriate, proprio per ricordare la conversione in banco.

Durante il Decennio francese nel 1808 il Banco dei Poveri fu soppresso. Ferdinando IV tornato sul trono napoletano come Ferdinando I stabilì (1819) che l’edificio fosse trasformato in Archivio Storico degli otto banchi pubblici napoletani, che confluirono nel Banco di Napoli [L’Archivio Storico del Banco di Napoli 1972, 13]. La chiesa e l’oratorio invece rimasero alla confraternita del Monte dei Poveri.

Bibliografia essenziale:

C. Celano, Notizie del bello e dell’antico e del curioso della citta di Napoli…, Napoli, Giacomo Raillard, I, 1692.

C. Celano, Notizie del bello e dell’antico e del curioso della citta di Napoli raccolte dal can. Carlo Celano con aggiunzioni per cura del cav. Giovanni Battista Chiarini, a cura di G.B. Chiarini, Napoli, Stamperia Floriana, 1856-1860.

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B. Capasso, La Vicaria Vecchia, in «Archivio storico per le province napoletane», XIV, 1889.

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L’Archivio Storico del Banco di Napoli: una fonte preziosa per la storia economica sociale e artistica del Mezzogiorno d’Italia, a cura dell’Archivio Storico del Banco di Napoli, Napoli, Banco di Napoli, 1972.

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Atlante di Napoli. La forma del centro storico in scala 1:2000 nell’ortofotopiano e nella carta numerica, a cura di Soprintendenza generale agli interventi post-sismici in Campania e Basilicata Compagnia generale ripreseaeree Tecnic Consulting Engineers, Venezia, marsilio, 1992.

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G. Pane, Gli Archivi del Banco, la Chiesa e l’Oratorio del Monte dei Poveri, in Dieci anni dell’Istituto Banco di Napoli, Quarto, Sama, 2001, pp. 177-211.

I. Ferraro, Napoli: atlante della città storica. Centro antico, Napoli, Oikos edizioni, 2017.

Immagini

1. Particolare dell’isolato del Monte di Pietà nella veduta di Napoli di Alessandro Baratta (1627), nella mappa di Napoli di Giovanni Carafa duca di Noja (1775), nella planimetria del quartiere Vicaria di Luigi Marchese (1813), nella planimetria di Napoli di Federico Schiavoni (tav. 13, 1877).

2. Particolare dell’isolato di Palazzo Ricca nella veduta di Napoli di Étienne Dupérac e Antoine Lafréry (1566).

3. La scala cinquecentesca oggi.

4. Il rilievo della chiesa-oratorio del Monte dei Poveri [Ferraro 2017, 745].

5. Il prospetto della chiesa-oratorio del Monte dei Poveri oggi.

6. Il prospetto dell’ex-palazzo Ricca sede dell’Archivio e della Fondazione Banco di Napoli dal portico di passaggio tra la corte e il cortile secondario.

7. Il prospetto della scala di Ferdinando Sanfelice nel cortile secondario dell’Archivio e della Fondazione Banco di Napoli.

8. Il rilievo dei prospetti dell’Archivio e della Fondazione Banco di Napoli e della chiesa di San Tommaso a Capuana su via dei Tribunali oggi [Ferraro 2017, 740].

9. La consistenza del complesso edilizio del Monte dei Poveri alla fine del Settecento nell’isolato in cui insiste [Atlante di Napoli 1992].

10. Isolato dell’Archivio e della Fondazione Banco di Napoli e della chiesa-oratorio del Monte dei Poveri da Google.

Museo Madre

Madre. Museo d’Arte Contemporanea Donnaregina

Alessandro Castagnaro, Alberto Terminio (Dipartimento di Architettura, Università degli Studi di Napoli “Federico II”)

Evoluzione dell’area e dei fabbricati successivamente interessati dal progetto del Museo Madre

L’edificio che ospita il Museo d’Arte Contemporanea Donnaregina (Madre) occupa circa la metà della stretta insula su cui insiste, compresa tra due stenopoi dell’antico tracciato viario di Neapolis, le attuali vie Donnaregina e Loffredi, e, in senso est-ovest, tra via Settembrini e vico Donnaregina. Si tratta di un’area posta a oriente di via Duomo, in adiacenza all’insula doppia di Donnaregina, nel versante a nord della plateia superiore.

Le ricostruzioni degli storici Giulio Beloch e Bartolommeo Capasso, nonché quelle dell’archeologo Mario Napoli, a meno di alcune piccole differenze di tracciato, mettono in evidenza la prossimità di quest’insula singola con il confine settentrionale della città greco-romana, come testimoniano i tratti di murazione emersi. Tali rilievi sono confermati anche da recenti indagini archeologiche, grazie alle quali è possibile osservare l’andamento delle mura che, in corrispondenza di quest’area, passavano da vico Campanile ai Santi Apostoli giungendo a via Loffredi, dove proseguivano per un piccolo tratto verso nord per poi risvoltare su via Settembrini e proseguire in direzione ovest.

Tuttavia, le molteplici e complesse trasformazioni che l’area ha subito nel corso dei secoli rendono difficile la ricostruzione di tutte le stratificazioni presenti. La testimonianza più antica relativamente a quest’insula risale agli inizi del IX secolo, un periodo particolarmente significativo per la storia della città, contraddistinto dalla crescente autonomia da Bisanzio. In particolare, il riferimento è alla costruzione di un monastero dedicato ai Santi Cyrici e Juliecte che il duca di Napoli Antimo, appartenente alla famiglia di Teofilatto, fece erigere nell’811. Tale testimonianza è segnalata dallo storico napoletano Capasso nella Pianta di Napoli del Secolo XI pubblicata nel 1892, nella quale la città ducale, evidenziata in rosa, appare sovrapposta a quella ottocentesca. Sul versante opposto dell’insula, un’altra testimonianza di origini medievali è la chiesa di Santa Maria Ancillarum, che chiude la testata sud prospiciente il Largo di Donnaregina.

Venendo all’edificio che ospita il Madre, attraverso dei raffronti cartografici è possibile comprendere una parte delle sue trasformazioni nell’arco di circa cinque secoli. Nella veduta di Napoli incisa da Étienne Dupérac e stampata a Roma nel 1566 da Antoine Lafréry si nota la configurazione a corte dell’edificio in corrispondenza dell’area di nostro interesse, ovvero la testata nord dell’insula – quella prospiciente la strada dell’Orticello (oggi via Settembrini). Tale configurazione è maggiormente visibile nella veduta di Alessandro Baratta del 1629, nella quale, com’è stato notato, l’edificio di dimensioni significative nasconde il giardino – probabilmente appartenuto alla famiglia Brancia – che si nota chiaramente nelle successive cartografie della città, almeno fino alla metà del XIX secolo. Infatti, nella Mappa Topografica Della Città Di Napoli E De’ Suoi Contorni di Giovanni Carafa duca di Noja – realizzata in 35 fogli e completata nel 1775, dopo la sua morte – la disposizione a verde della stessa porzione nord occupa circa un quarto dell’intera insula e mostra delle piccole costruzioni al contorno, mentre verso sud è rappresentato un edificio che descrive una corte aperta verso il giardino. La stessa situazione permane nella Pianta della città di Napoli di Luigi Marchese del 1804 e nelle piante incise nel Reale Officio Topografico della guerra nel corso della prima metà dell’Ottocento, fino al 1853.

Soltanto a partire dalla seconda metà dell’Ottocento emerge una configurazione approssimabile a quella odierna, come si evince dalla pianta del Reale Officio Topografico del 1861 e dalla Pianta Schiavoni, realizzata in 24 fogli tra il 1872 e il 1880. Qui, infatti, si legge chiaramente il grande edificio del Monte di Pietà del Banco di Napoli caratterizzato da una corte centrale allungata e da un doppio accesso: l’uno su via Settembrini, l’altro su un cortile che si apre sul lato opposto dell’edificio in adiacenza a vico Donnaregina, all’altezza della chiesa trecentesca. Si determina in questo modo quella forma trapezoidale che ancora oggi contraddistingue il palazzo, dettata dall’andamento degli assi viari. Pertanto, sulla base delle osservazioni cartografiche sin qui esposte, è possibile dedurre che la realizzazione di questo edificio si colloca tra il 1853 e il 1861, quando venne ampliato e dotato dell’ingresso principale su via Settembrini – che comportò probabilmente la sistemazione della facciata. Nella stessa occasione furono realizzati l’androne a pianta ottagonale e i due corpi scala laterali, presenti ancora oggi. In particolare, è possibile interpretare l’androne come quell’elemento che consente di risolvere la particolare conformazione geometrica dell’edificio cui si è già fatto riferimento, agendo da perno tra l’asse d’ingresso da via Settembrini e quello della corte.

La travagliata storia del palazzo prosegue tra modifiche e alterazioni, specie nel secondo dopoguerra e successivamente al terremoto del 1980, quando si resero necessari interventi di rinforzo strutturale.

L’ultimo atto di questa vicenda riguarda un’alluvione che si abbatté sulla città nel 2001, investendo alcuni edifici di via Settembrini, tra cui il palazzo del Madre. In seguito a questo evento, l’immobile venne abbandonato. Ma sarà proprio a partire da quello stato di abbandono che si generò la spinta per una nuova vita dell’edificio.

Progetto di restauro e rifunzionalizzazione in polo museale

Dopo anni di abbandono, l’edificio fu acquistato dalla Regione Campania – al tempo sotto la guida della giunta Bassolino – che decise la sua riconversione in museo d’arte contemporanea, per poi cederlo al Banco S. Paolo Imi S.p.A. che commissionerà i lavori.

La configurazione attuale dell’edificio è il risultato di un progetto di restauro e rifunzionalizzazione elaborato dal 2003 al 2005 dall’architetto portoghese Álvaro Siza Vieira in collaborazione con lo Studio DAZ-Dumontet Antonini Zaske architetti associati di Napoli. I lavori furono portati a compimento nel 2006.

Quella del museo Madre rappresenta la prima esperienza progettuale concreta realizzata a Napoli dall’architetto portoghese, cui seguirà l’affidamento del progetto per la fermata di piazza Municipio della Metro linea 1. Ciò nonostante, il suo legame con la città partenopea ha delle radici più profonde, coltivate nell’arco di almeno due decenni addietro, quando fu chiamato nel 1986 a elaborare un progetto per il quartiere Pendino, con interventi rivolti principalmente all’area del porto marittimo, e, nello stesso anno, uno studio urbanistico per Monteruscello e i Campi Flegrei. Questa serie di esperienze, unitamente alle molteplici visite, gettarono le premesse per uno stretto legame di Siza con Napoli, coronato dal conferimento della laurea honoris causa presso l’ateneo federiciano nel 2004. Queste le parole di apertura in occasione dell’evento: «Due città in Italia mi emozionano in modo particolare, ogni volta che le visito, anche dopo molte visite: Venezia e Napoli. Certo ne esistono altre di enorme bellezza, ma è in queste che tutto quello che vedo e sento raggiunge la nitidezza dorata di ciò che si vede nei sogni; qua e là provo la sensazione insolita di stare in un sogno». In quel momento, la fama di Siza a livello mondiale è unanimemente riconosciuta, come attestano i diversi premi di livello internazionale, tra cui il Pritzker Prize nel 1992 e la Royal Gold Medal conferitagli dal Royal Institute of British Architects nel 2009.

Tra i più autorevoli eredi della tradizione moderna europea – secondo una definizione di Leonardo Benevolo –, sin dai suoi primi studi sull’architettura popolare portoghese condotti al fianco del maestro Fernando Tàvora, Siza cominciò a maturare quella particolare sensibilità per i caratteri specifici dei luoghi che rappresenterà una costante nell’arco di tutta la sua lunga carriera professionale. E sarà proprio questa propensione verso l’ascolto dei valori materiali e immateriali dei territori che gli consentirà di operare, come nel caso napoletano, in contesti stratificati mediando tra il rispetto delle preesistenze e della memoria storica e una spinta innovativa perseguita attraverso l’utilizzo di un vocabolario formale originale. Come afferma Benevolo, sarà proprio la «nuova e stimolante combinazione di fedeltà al patrimonio locale e alla disciplina intellettuale moderna» a determinare la sua fortuna all’estero.

Ritornando al palazzo in esame, quando Siza fu chiamato a Napoli presentava ancora la sua impostazione ottocentesca, riscontrabile sia nella composizione di facciata, sia nell’organizzazione volumetrica e spaziale, la cui chiarezza era determinata dalla presenza della corte rettangolare, dai rapporti verticali, dalla successione delle sale interne, nonché dalla distribuzione simmetrica della pianta rispetto all’asse longitudinale a partire dall’androne. Quanto al primo aspetto, quello esteriore, lo stesso trattamento era riservato non soltanto ai quattro fronti esterni, ma anche a quelli interni, prospicienti il grande invaso rettangolare. Un carattere di maggiore monumentalità era conferito al prospetto principale, quello su via Settembrini, dove ancora oggi è posto l’ingresso al museo. L’edificio si eleva su tre piani. La facciata principale consta di cinque campate e si articola in una tipica composizione tripartita composta da una fascia basamentale, da un corpo centrale che include due piani e da una fascia di coronamento corrispondente all’ultimo piano, sulla quale si attesta una terrazza praticabile. La fascia basamentale è contraddistinta da un trattamento in finto bugnato e da un portale riquadrato tra due lesene e il balcone del piano nobile. Per risolvere il dislivello tra i due punti estremi della facciata, il trattamento a bugne non parte da terra, ma si attesta su un paramento in piperno che termina sul piano d’imposta delle due lesene, inglobandone i rispettivi piedistalli. Il corpo intermedio è scandito da lesene a doppia altezza e da due ordini di aperture, che in corrispondenza del piano nobile assumono una forma centinata. Al di sopra del cornicione del corpo intermedio, un ultimo ordine di finestre rettangolari scandisce l’ultimo piano.  

Pertanto, il progetto elaborato da Siza e dallo studio DAZ si è incentrato soprattutto sulla strategia di rifunzionalizzazione e sul ripristino della chiarezza spaziale del palazzo, intervenendo attraverso delle demolizioni in presenza di alcune aggiunte che ne alteravano l’impianto di base, come il volume che si ergeva all’interno della corte. Quanto al programma funzionale, oltre alle più consuete funzioni collocate in ambienti museali, sono stati integrati servizi che conferiscono al progetto un respiro internazionale, fondato anche sulla vasta esperienza professionale che l’architetto portoghese poteva   vantare alle soglie del Duemila: si pensi al museo galiziano di arte moderna realizzato a Santiago de Compostela, al progetto per la fondazione Serralves a Oporto, a quello del museo di Helsinki, al progetto per il museo J. Paul Getty “Esquisse” a Malibu e alla fondazione Cargaleiro di Lisbona. Si tratta, in quasi tutti i casi, di intervento nei quali il rapporto con le preesistenze rientra tra i principali dati di progetto. Tornando al programma del Madre, esso prevedeva, al primo piano, la collezione permanente, le aule didattiche, il ristorante e la biblioteca; al secondo, la collezione storica e la libreria; al terzo, le esposizioni temporanee e l’amministrazione. Infine, sia la corte rettangolare che il terrazzo di copertura rientrano negli spazi espositivi del museo, l’una essendo destinata ad accogliere istallazioni temporanee, l’altro calcato dalla scultura del cavallo stilizzato realizzata in blocchi di tufo da Mimmo Paladino.

Nonostante l’organizzazione planimetrica ottocentesca abbia reso impossibile la creazione di grandi sale espositive, l’architetto ha interpretato questa caratteristica come un’apparente assenza di flessibilità, costituendo invece un vincolo positivo per l’artista che si cimenta nell’elaborazione dell’allestimento. Il trattamento delle superfici interne segue la semplicità e la chiarezza dell’intero intervento, essendo completamente intonacate di bianco. La scelta, quasi obbligata negli ambienti espositivi destinati ad ospitare installazioni libere – che spesso utilizzano i muri a mo’ di tela, come negli spazi affidati a Francesco Clemente e Mimmo Paladino –, è comunque in linea con la cifra stilistica di Siza, che vede il bianco come colore ricorrente anche per il trattamento delle superfici esterne.

Quanto al rapporto con le preesistenze, oltre a quanto già osservato in merito al rispetto per l’impianto di base dell’edificio e per alcuni elementi architettonici emersi durante i lavori, come il portale in piperno – di probabile datazione seicentesca – mantenuto nella facciata posteriore del palazzo, ciò che è interessante notare è la ricerca di relazioni di natura percettiva rispetto al contesto circostante, che sostanziano quella particolare attenzione per i valori immateriali cui abbiamo fatto riferimento in precedenza. Come afferma l’architetto portoghese: «La città è uno spazio di relazioni che devono essere trasferite anche all’interno dell’edificio». In tal senso agiscono le aperture ricavate nel muro perimetrale della corte posteriore del palazzo, che favoriscono la visibilità della trecentesca chiesa di Donnaregina e una maggiore permeabilità con il tessuto urbano adiacente, così come la più ampia panoramicità di cui si può godere dal terrazzo, capaci di offrire sia un’inconsueta vista sul centro antico della città, sia un più scenografico affaccio verso il Vesuvio. 

Bibliografia sintetica

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G. Alisio, A. Izzo, R. Amirante, Progetti per Napoli. Ventidue idee per una città, Guida editori, Napoli 1987.

G. Pane, V. Valerio, La città di Napoli tra vedutismo e cartografia. Piante e vedute a stampa dal XV al XIX secolo, Grimaldi & C. Editori, Napoli 1988.

I. Ferraro, Napoli. Atlante della Città Storica. Centro Antico, Clean, Napoli 2002, pp. 461-470.

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M. Santangelo (a cura di), Alvaro Siza e Napoli. Affinità di Gabriele Basilico e Mimmo Jodice, Electa Napoli, 2004.

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L. Benevolo, L’architettura del nuovo millennio, Laterza, Roma-Bari 2008.

B. Gravagnuolo, Napoli dal Novecento al futuro. Architettura, design e urbanistica, Electa Napoli, 2008.

Luigi Picone, Napoli, la città antica, Massa editore, Napoli 2009.

AA.VV., Il Teatro di Neapolis. Scavo e recupero urbano, Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”, Napoli 2010.

O. Scotto di Vettimo, Madre. Museo d’arte contemporanea Donnaregina, arte’m, Napoli 2017.

Foto di Mario Ferrara

Metropolitana di Via Duomo

La Metropolitana dell’Arte nel contesto urbano di Napoli

di Alessandro Castagnaro, Roberta Ruggiero 

Foto di Mario Ferrara

Il 6 agosto 2021, dopo circa vent’anni di intensi lavori, è stata inaugurata la stazione Duomo, una delle più discusse tra le stazioni del Metrò dell’Arte di Napoli. La sua interessante posizione in piazza Nicola Amore, nell’intersezione tra via Duomo e Corso Umberto I, oltre ad aver rappresentato l’occasione di nuove ed interessanti scoperte archeologiche che collaborano ad una ricostruzione filologica della città greco-romana, rappresenta un significativo collegamento infrastrutturale con la “via dei Musei”, via Duomo appunto.

La neonata stazione si inserisce in quel più vasto ed innovativo progetto della linea 1 della Metropolitana di Napoli. In realtà, incrementare e migliorare la mobilità cittadina e, al tempo stesso, contribuire alla riqualificazione urbana intervenendo sulle piazze e sui tessuti edilizi limitrofi alle stazioni, non è di certo un’idea nuova come dimostrano le diverse esperienze europee. «Si pensi ai giganteschi fiori metallici che spuntarono dal sottosuolo di Parigi, ideati da Hector Guimard per indicare alla folla ed ai flâneurs le stazioni ipogee del Métro, o alle 38 stazioni della Untergrundbahn di Vienna progettate in soli sei anni (tra il 1894 e il 1901) da Otto Wagner come emblemi della Moderne Architektur»[1] o, infine, al più recente intervento di prolungamento della Jubilee Line di Londra.

Sebbene, quindi, in grande ritardo rispetto ad altri centri europei, il progetto delle “Stazioni dell’Arte” dimostra di perseguire i loro stessi obiettivi. Infatti, come ha osservato Benedetto Gravagnuolo: «Travalicando la dimensione sotterranea, il progetto si prolunga non a caso verso l’esterno nel ridisegno delle piazze e degli scenari urbani. […] Il linguaggio muta di volta in volta in relazione al variare degli interventi disseminati in luoghi eterogenei, che spaziano dalla monumentalità delle piazze storiche al labirinto senza identità dei quartieri periferici»[2]. Quanto sottolineato dal citato autore è particolarmente evidente nelle nuove stazioni metropolitane. Basti pensare, ad esempio, ai progetti per Salvator Rosa, Dante, Toledo, Municipio, Garibaldi e, infine, quello della stazione Duomo, oggetto dei nostri studi ed emblematico esempio di coesione tra comparto urbano, architettura, arte e archeologia.

Ma, quello della Metropolitana di Napoli, è un progetto molto più vasto di complessa pianificazione urbanistica in cui il sistema della mobilità «si trasforma in una infrastruttura fondamentale per la riqualificazione dei nuclei storici e dell’espansione recente della periferia, per la valorizzazione dei nuovi parchi territoriali, per il restauro del centro storico e per l’armatura di nuovi insediamenti nelle aree di trasformazione urbana»[3]. L’importanza che l’impresa ha assunto negli anni per il ridisegno della città, quindi, è stata tale non solo da contribuire al nuovo assetto di alcuni suoi punti nevralgici, dalla periferia al centro storico, ma finanche da influenzare i progetti di varianti al Piano Regolatore Generale che, coadiuvato dal Piano Comunale dei Trasporti e dal Piano della rete stradale, perseguiva, tra gli altri, l’obiettivo di alleggerire il traffico del centro storico per restituire lo stesso ai cittadini.

Inoltre, se l’impostazione progettuale originaria prediligeva un approccio ingegneristico, con il crescere del valore artistico dell’intero piano, con il coinvolgimento del centro storico, testimonianza delle civiltà più antiche, nonché l’inclusione di piazze e monumenti rappresentativi di Napoli, l’amministrazione ha deciso per un cambiamento di rotta. «Ogni stazione rappresenta un progetto d’autore ideato ad hoc in relazione a quel dato luogo. In tal senso, che la vecchia formula di stampo funzionalista della stazione anonima (da prendi-il-biglietto-e-scappa) ha ceduto il passo ad una dichiarata ricerca dell’alta qualità»[4]. Le stazioni della metropolitana, quindi, non sono più semplici e funzionali spazi di passaggio, tecnicamente ben concepiti, ma luoghi che, connettendosi con il tessuto urbano limitrofo, assumono valore culturale, architettonico e storico. Così, laddove l’opera ingegneristica incontra la storia, e le testimonianze, di una città millenaria come Napoli, nasce un vero e proprio processo di archeologia urbana la cui attenzione è spostata, quasi interamente, sulla valorizzazione dei luoghi e della loro memoria storica. In particolare, gli scavi intrapresi in prossimità dell’antico impianto greco-romano della città, come era prevedibile, hanno riportato alla luce importanti reperti archeologici di inestimabile valore, si pensi alle navi romane rinvenute in piazza Municipio o al cosiddetto Tempio corinzio di piazza Nicola Amore, testimonianza delle più antiche civiltà. Così, la metropolitana dell’arte ha offerto un’importante occasione di revisione degli antichi confini dell’impianto di origini greco romane, che sono stati quindi ridisegnati, nonché di scoperta e arricchimento in generale della storia della città, traendo essa stessa vantaggio. I progetti di queste stazioni, già di notevole livello architettonico in quanto frutto del lavoro di illustri architetti di fama internazionale, come ad esempio Alvaro Siza Viera, Eduardo Souto de Moura, Dominique Perrault, Gae Aulenti, Alessandro Mendini, Massimiliano Fuksas, per citarne solo alcuni, hanno indubbiamente tratto ulteriore valore da questi reperti archeologici ospitandoli e dando così origine a veri e propri “musei di transito”. In effetti, oltre l’archeologia che, beninteso, già basterebbe a giustificare l’appellativo di “stazioni dell’Arte”, la nuova metropolitana è pervasa da un elevato valore artistico grazie alla presenza di opere, per lo più contemporanee, istallate in modo permanente sia all’interno che all’esterno delle stazioni, accompagnando così il viaggiatore in un itinerario fatto, allo stesso tempo, di velocità, almeno presunta, e staticità. «Nel transito lo spettatore consuma il fuggevole, quel tempo necessario per spostarsi da un punto all’altro del percorso. Nella sosta egli sviluppa il piacere estetico di un incontro con l’arte e una sorpresa per lo sguardo. Entrambe le dimensioni fondano un vero e proprio museo obbligatorio»[5].

Contesto storico-urbano

Quanto affermato fin qui trova perfettamente riscontro nella neo-inaugurata stazione Duomo della metropolitana di Napoli, pervasa com’è di storia, archeologia e arte, e fondamentale collegamento con alcuni dei musei più importanti del centro storico di Napoli, dislocati tra via Duomo e via dei Tribunali.

La neonata stazione, infatti, come già accennato, si inserisce in un significativo snodo stradale della città che, nei secoli, ha subito una serie di trasformazioni che gli hanno dato un aspetto molto differente da quello originario. Ad eccezione di via Duomo che, seppure in dimensioni ridotte rispetto a quelle odierne, è rintracciabile già nell’antico tracciato greco-romano, l’intero assetto dell’area in cui sorge la stazione “Duomo” della metropolitana risale alla seconda metà dell’Ottocento, vale a dire a quella importante opera di Risanamento avviata in seguito alla disastrosa epidemia di colera del 1884. Tale evento colpì l’intera città di Napoli ma le aree più colpite furono senza dubbio i quartieri bassi (nella fattispecie le sezioni Porto, Pendino, Mercato e Vicaria) che, versando già in condizioni igienico-sanitarie ed economiche altamente degradate, offrirono terreno fertile per la diffusione della malattia. Questi quartieri, infatti, erano posti in un’area depressa della città ai piedi dell’antico centro greco-romano dove, la presenza di una falda d’acqua sotto il livello del mare in contatto con un antico sistema cloacale, rendeva le abitazioni praticamente invivibili. Per lungo tempo discussi, tali presupposti portarono l’amministrazione locale ad intervenire solo nella seconda metà dell’Ottocento spinta dalla volontà di risolvere dei problemi di carattere igienico, sociale nonché urbanistico. Infatti, oltre alle malsane condizioni igienico-sanitarie, «inconciliabili coi tempi “nuovi” e col prestigio dell’unità nazionale»[6], i quartieri bassi, inserendosi tra il centro direzionale e la stazione ferroviaria, rappresentavano un intralcio per il traffico ed il commercio cittadino.

Per far fronte agli innumerevoli disservizi dell’area, quindi, la sua sistemazione fu oggetto di due importanti concorsi datati 1861 e 1871, i cui progetti vincitori non furono mai realizzati ma gettarono le basi per il futuro Piano di Risanamento ed Ampliamento della città di Napoli, redatto da Adolfo Giambarba, ingegnere capo del Comune, e Gaetano Bruno, ingegnere alle fognature del Comune di Napoli, e approvato nel 1885.

Modello di riferimento fu senza dubbio la Parigi di Haussmann che, in qualità di rappresentante dell’ideale urbanistico di quegli anni, ispirò tutti gli interventi pensati per il Risanamento di Napoli, fin dai primi progetti del 1861. Incaricato dal neoeletto imperatore Napoleone III, il prefetto Haussmann mise in atto un progetto di nuova urbanizzazione di Parigi che tutt’oggi ne costituisce l’ossatura del tessuto urbano. Tale progetto, coinvolgendo sia il centro che i quartieri esterni, restituì un’immagine nuova e moderna della città che, caratterizzata da una rete di boulevards e avenues, da grandi piazze e da un’articolazione che esaltasse gli imponenti monumenti, divenne appunto un modello da emulare in tutta Europa.

Quanto al Corso Umberto I, quindi, sulla scorta dei grandi boulevards francesi, questo appare per la prima volta nel progetto che l’architetto Enrico Alvino presentò al concorso del 1861 con il quale si auspicava la realizzazione di una nuova strada che portasse da Toledo alla stazione centrale. «Esso prevedeva una strada in «rettifilo» che, partendo da via Medina, all’angolo della chiesa della Pietà dei Turchini, terminava in uno dei due angoli della piazza antistante la stazione; simmetricamente, sull’altro angolo della piazza si innestava il prolungamento della strada S. Giovanni a Carbonara. Cosicché, davanti alla stazione si sarebbe realizzato un tipico schema radiale, formato dalle due strade suddette, dal corso Garibaldi, parallelo alla facciata dell’edificio ferroviario e di una quarta via, penetrante nel vivo del centro greco-romano. Il rettifilo, così come richiesto dal bando, attraversava i tre quartieri malsani e, senza sbucare a Toledo, strada ritenuta già congestionata dal traffico, dava accesso ad un centro, quello di via Medina, ricco di interessi commerciali, turistici e rappresentativi, nonché vicino al porto e alle dogane»[7]. Seppure non realizzato in quell’occasione, il progetto di Alvino diede ugualmente una forte ispirazione per la successiva realizzazione della nuova strada.

La Legge per il Risanamento della città di Napoli fu varata il 15 gennaio 1885, sulla scorta, come già accennato, del progetto redatto da Giambarba e Bruno. Tale progetto fu approvato in via definitiva il 25 luglio dello stesso anno, completato dall’estensione di tutti i provvedimenti precedentemente approvati per le sole aree centrali anche alle aree di espansione.

«In sostanza, per quanto concerne i lavori nei quartieri bassi, il progetto Giambarba-Bruno, sulla scorta di quelli redatti nel ’61 e del ’71, prevedeva la bonifica per colmata, rialzando convenientemente il livello del suolo, dei quartieri Porto, Pendino e Mercato; nel diradamento della massa edilizia esistente in queste sezioni; nella costruzione del Rettifilo dalla stazione fino ad una piazza (che sarà poi quella della Borsa) con diramazioni verso piazza Medina e il quartiere S. Giuseppe; nella apertura di altre strade parallele e trasversali all’arteria principale, a monte e a valle di essa, atte a formare una vasta lottizzazione per l’insediamento di nuovi fabbricati»[8].

Così, a seguito di un importante sventramento dei quartieri bassi, nel quale migliaia di persone persero la propria casa, furono demolite o mutilate importanti opere d’arte come il complesso di Sant’Agostino Alla Zecca, e di un consistente intervento di bonifica per colmata, che compensò la presente depressione del terreno in quell’area, fu realizzato il Rettifilo, attuale Corso Umberto I, sopraelevando il preesistente livello stradale di circa quattro metri. La via, come da progetto di Alvino, collegava la stazione centrale all’attuale piazza Bovio dove, una biforcazione, conduceva a via Medina e a piazza Municipio. Circa alla metà, l’andamento del Corso veniva interrotto da un’altra piazza, originariamente nota come piazza Agostino Depretis e solo in seguito dedicata all’allora sindaco Nicola Amore, promotore del Risanamento. Tale piazza è conosciuta a Napoli anche come piazza quattro palazzi, dagli edifici che racchiudono l’invaso spaziale della piazza di analogo disegno e prospetti. Proprio in onore del sindaco Amore, nel 1904, al centro della piazza fu installata ed inaugurata una statua che lo raffigurava ma che, nel 1938, per consentire a Hitler di percorrere, a seguito della grande parata della Regia Marina, liberamente e senza ostacoli il Rettifilo, fu spostata in piazza Vittoria e mai più ricollocata.[9]

Oltre alla strada principale, si costruirono otto strade ortogonali al Rettifilo che permettevano il collegamento dello stesso con via Marina da un lato e con i decumani dall’altro. Perpendicolarmente al nuovo Corso, in corrispondenza della piazza Nicola Amore, era via Duomo, oggetto di lavori di ampliamento precedenti al Risanamento. Via Duomo, infatti, un tempo dalla sezione stradale molto limitata e oggi il più grande tra i cardini cittadini, raggiunge le odierne dimensioni a partire dal 1852, quando, rendendosi necessario un collegamento più diretto tra via Foria e via Marina, Ferdinando II di Borbone approvò il progetto di Luigi Cangiano ed Antonio Francesconi i cui lavori furono avviati solo nel 1861. «In questa data il primitivo tracciato della via fu ampliato e riconosciuta la necessità di espropriare per 60 palmi ai due lati della strada per erigervi nuovi edifici per civili abitazioni. Il primo tronco da Foria al Duomo […] veniva aperto solo nel ’73; […] per realizzare l’ultimo tratto di via Duomo da piazza Nicola Amore alla marina fu necessario attendere il 1890 e far rientrare le relative opere nel piano di Risanamento dell’intera zona dei quartieri bassi»[10].

Nata dalla necessità di fornire un collegamento nord-sud più diretto e accessibile, la nuova via Duomo doveva essere un esempio e dare il via ad una serie di interventi di bonifica; il protrarsi dei lavori, causato tra l’altro da difficili operazioni di esproprio ed indennizzi, la portò, invece, a diventare parte del più grande progetto di Risanamento.[11]

Il progetto della stazione “Duomo”

Oggi, in quegli stessi luoghi che furono protagonisti del Risanamento ottocentesco, sorge quindi la più giovane delle stazioni della metropolitana di Napoli, la stazione Duomo. La sua realizzazione è stata affidata all’architetto romano Massimiliano Fuksas il quale, insieme alla moglie Doriana, progetta un’architettura che, come le altre “stazioni dell’Arte”, ha l’intento di coniugare la fruizione quotidiana della metropolitana, come luogo di transito, con la staticità del museo. Infatti, il ritrovamento di numerosi reperti archeologici tra cui il basamento di un tempio romano risalente al I secolo d.C. e una pista da corsa del Ginnasio, ha spinto il progettista a pensare un percorso alla scoperta archeologica di queste antiche rovine che diventa un’occasione di salvaguardia, tutela e valorizzazione. «Questa straordinaria ed inattesa esperienza può essere vissuta percorrendo la prima rampa di scale che, dalla quota della piazza, prima di raggiungere il piano mezzanino della stazione ci porta a quota + 4,15, ovvero, la quota del nuovo piano espositivo del tempio. L’utente troverà all’interno un luogo suggestivo ed unico caratterizzato dalla presenza dei reperti delle strutture archeologiche restaurate del tempio: unico protagonista dello spazio architettonico, esso risulterà “inondato” di luce naturale proveniente dalla soprastante cupola»[12].

La stazione è collocata in piazza Nicola Amore che, incrociando via Duomo e Corso Umberto I, rappresenta, come precedentemente descritto, fin dall’Ottocento un punto nevralgico nell’assetto urbanistico del centro storico della città. Proprio la sua posizione la rende una sorta di moderna “porta di accesso” alla parte più antica del centro storico, avvicinando i viaggiatori all’area di maggior interesse storico e artistico di Napoli e, al tempo stesso, migliorando i collegamenti con i vicini quartieri Forcella, Pendino, Porto e Mercato.

Per una descrizione più dettagliata della stazione, ci serviamo delle parole dello stesso Massimiliano Fuksas attraverso alcuni estratti della relazione di accompagnamento al progetto.

Il progetto urbano

La lieve curva che avvolge l’impianto della copertura di vetro del tempio modifica l’asse urbano del corso creando un nuovo disegno urbano che coinvolge anche gli arredi riqualificando le aree limitrofe fino alla piazzetta Filangieri. L’area di Piazza Nicola Amore, attualmente attraversata da strade carrabili, mantenendo le quote attuali, viene chiusa al traffico nella zona superiore, lato Duomo. Si crea così una nuova piazza per la sosta, il tempo libero e di accesso agli spazi della stazione sottostante. Insieme al nuovo disegno della piazza, viene proposto la ricalibratura dell’asse di corso Umberto con corsie carrabili centrali e con ampi marciapiedi laterali alberati e forniti di stalli per la sosta degli autobus e per lo scarico e carico merci. Il nuovo disegno urbanistico consentirà un miglioramento della percorribilità carrabile e pedonale generando una piacevole e funzionale passeggiata lungo l’asse storico della città.

La piazza

La piazza è caratterizzata dall’inserimento di una bolla di cristallo trasparente, che racchiude e protegge la ricostruzione del tempio e di altri reperti archeologici, rinvenuti durante le operazioni di scavo della metropolitana. Visto che il tempio è stato rinvenuto in posizione decentrata rispetto alla geometria perfettamente circolare della piazza, anche la bolla è stata adagiata nella medesima collocazione, comportando un’inevitabile deformazione sull’asse viario di Corso Umberto I. In conformità alle prescrizioni riportate all’interno dei pareri della Soprintendenza, la piazza è stata completamente rivisitata rispetto al progetto precedente, al fine di sottolineare la circolarità dello spazio nonostante l’inserimento della bolla e la deformazione della strada carrabile. La nuova piazza, inoltre, si pone l’obiettivo di ricreare un ambiente urbano di socializzazione, come accade nelle altre piazze storiche della città, nonostante il passaggio dei veicoli. […]

Il disegno prevede, a partire dalla bolla, una sequenza di fasce ellittiche concentriche alternate che si estendono anche sulla strada carrabile fino agli attraversamenti pedonali, esaltando la centralità e l’importanza del museo archeologico e ricostituendo la circolarità della piazza. Per questioni di continuità con il circostante ambito urbano, lo spazio sarà rivestito completamente in pietra lavica (incluse le griglie di areazione della stazione della metropolitana, appositamente disegnate per dare omogeneità alla piazza). Le fasce maggiori saranno costituite da blocchetti di pietra lavica, disposte a raggiera, garantendo sicurezza e continuità di aderenza del traffico veicolare; le fasce minori, invece, saranno costituite da blocchi in pietrarsa lavorate “a puntillo” tecnica che permette alla pietra di garantire aderenza e supportare anche un traffico veicolare di tipo pesante. L’effetto finale sarà molto omogeneo, interrotto solo dai necessari salti di quota presenti tra la strada e l’area pedonale.

La copertura

La grande bolla di cristallo (prevista in progetto e non ancora realizzata, ndr) racchiude sulla piazza i reperti archeologici ritrovati durante il corso degli scavi. L’inserimento architettonico della copertura vetrata crea nell’asse urbano di corso Umberto un rallentamento, un elemento di “calma spaziale”, un’“attenzione percettiva” sullo spazio architettonico urbano della piazza e su quello museale del tempio. La cupola geodetica definisce una forma architettonica ellittica a “bolla” con un’altezza massima in chiave di ml 4,80 rispetto alla quota d’imposta della piazza. La struttura in acciaio e vetro stratificato antisfondamento extrachiaro consentirà una leggibilità e continuità visiva dall’esterno verso l’interno e viceversa conferendo leggerezza e una smaterializzazione del volume al centro della piazza.

Il piano mezzanino

Il piano di accesso vero e proprio dei viaggiatori è posto al mezzanino di stazione a quota -0,20: si entra nello spazio privilegiato e legato alla mobilità e al viaggio urbano. In questo ambiente pur conservando l’omogeneità materica del “corten” dei rivestimenti, si cambia l’esperienza percettiva, le superfici dei rivestimenti si arricchiscono di motivi geometrici esagonali retro illuminanti: il risultato è un grande spazio scenografico e contemporaneo di grande fascino che accoglie e segue il viaggiatore lungo il percorso di discesa verso le discenderie ed ai livelli sottostanti la stazione.

La stazione Duomo e i rinvenimenti archeologici

I reperti archeologici rinvenuti durante gli scavi della stazione Duomo risalgono presumibilmente al 2 d.C. e rappresentano un’importante testimonianza della cultura ellenica napoletana. A quella data, infatti, risale l’istituzione a Napoli dei Giochi Isolimpici sull’esempio di quelli che si svolgevano al santuario di Olimpia in Grecia, da cui prendono il nome. Nati con l’intento di onorare l’imperatore Augusto che tanto si era prodigato per la città a seguito di un terremoto, i giochi si svolgevano ogni cinque anni e, seguendo lo stesso programma di quelli greci, prevedevano gare ippiche, atletiche e musicali. Il tempio e il Santuario, ad esso connesso, emersi dagli scavi in piazza Nicola Amore sono proprio i luoghi in cui questi giochi si svolgevano, come testimonia un’iscrizione ritrovata nell’antica città di Olimpia. Tale iscrizione, oltre a fornirci i dettagli del programma dei giochi, ci informa delle cerimonie religiose che si svolgevano in quelle occasioni e, fra queste, ci racconta di una processione che conduceva ad un tempio dedicato al culto dell’imperatore, identificabile proprio con il tempio emerso dai recenti scavi. «Esso è il fulcro di un più ampio organismo edilizio che sorge sul litorale all’esterno dell’antico limite della fortificazione greca. Della fase più antica del tempio, del primo quarto del I secolo d.C., resta la decorazione architettonica marmorea rinvenuta in crollo ed il pavimento a mosaico inglobato in un grande podio in laterizi pertinente ad un radicale rifacimento della metà del II secolo d.C. Nello stesso periodo l’edificio sacro è circondato da un ambulacro che lo separa da uno spazio aperto, forse destinato agli allenamenti degli atleti, bordato sul versante opposto da un portico colonnato impiantato nel II secolo a.C. […]. In età tardo flavia sulla parete di fondo del portico sono applicate lastre di marmo iscritte in greco […]»[13].

Appare chiaro come dei reperti di così tanto valore storico abbiano inevitabilmente interferito, in negativo quanto forse soprattutto in positivo, sul progetto finale per la stazione Duomo. Infatti, sebbene i tempi di cantiere si siano oltremodo prolungati a seguito del necessario intervento della Soprintendenza, è altrettanto vero che il progetto finale si è arricchito di testimonianze di inestimabile valore archeologico e storico che contribuiscono allo spettacolare effetto finale. Al tempo stesso, dal punto di vista urbanistico, il ritrovamento del complesso dei Giochi Isolimpici ha comportato una serie di variazioni al progetto originario che hanno senz’altro contribuito anch’esse al prolungamento dei tempi di consegna. Infatti, la presenza del tempio in posizione decentrata rispetto a piazza Nicola Amore, come spiega lo stesso Fuksas, ha portato ad un ridisegno dell’intero snodo via Duomo-corso Umberto-pizza Nicola Amore. Se la piazza, grazie all’artificio della «sequenza di fasce ellittiche concentriche», mantiene una certa circolarità, le due strade, via Duomo e Corso Umberto I, hanno in parte perso la linearità tanto agognata con il Risanamento che le voleva assi ininterrotti di collegamento nord-sud e est-ovest del centro storico della città. Il nuovo assetto della piazza e la presenza della grande “bolla” di vetro a copertura dei reperti archeologici, la cui costruzione è ancora in dubbio per mancanza di fondi, rappresentano una rottura nella continuità delle due arterie che, seppur mantenendo la loro funzione di collegamento, vedono modificato il loro originario disegno perfettamente geometrico.

Questo nucleo così importante del centro storico, quindi, è protagonista ancora una volta di una serie di interventi urbanistici che, così come avvenne nell’Ottocento, lo portano ad assumere un nuovo aspetto. Infatti, se il Risanamento, con l’obiettivo di riqualificare l’intera area dei quartieri bassi, include nel suo progetto la realizzazione e l’ampliamento rispettivamente del Rettifilo e di via Duomo per migliorare i collegamenti della zona, la nuova stazione Duomo, aggiungendo una nuova fermata alla linea metropolitana, facilita lo spostamento verso il centro della città includendo anch’essa il riassetto urbano dell’area limitrofa. In sostanza, a più di cento anni di distanza, si assiste ad un cambiamento urbano simile negli intenti a quello ottocentesco ma che, chiaramente attraverso l’utilizzo di mezzi e tecniche differenti, incide inevitabilmente sulle preesistenze. Una stazione che ha acceso un fervido dibattito in città a vantaggio della salvaguardia del Rettifilo, asse significativo nella lettura delle trasformazioni urbane della città ottocentesca.

La stazione di Fuksas nasce senza dubbio per creare un collegamento diretto con quella che abbiamo definito la “via dei musei” napoletana ma, in corso d’opera, è divenuta inaspettatamente essa stessa museo a cielo aperto modificando sì il nucleo piazza Nicola Amore-via Duomo-Corso Umberto ma, al tempo stesso, restituendo non solo agli studiosi ma anche ai cittadini un “pezzo” di storia.

 

[1] B. Gravagnuolo, L’architettura delle stazioni in «Rassegna ANIAI» n. 1, 2011, p. 4.

[2] B. Gravagnuolo, op. cit., pp. 5-6.

[3] E. Camerlingo, Le stazioni come occasione di riqualificazione urbana in La metropolitana di Napoli, nuovi spazi per la mobilità e la cultura, Electa, Napoli 2000, p. 34.

[4] B. Gravagnuolo, op. cit., p. 6.

[5] A. Bonito Oliva, Il museo obbligatorio in «Rassegna ANIAI» n. 1, 2011, p. 19.

[6] R. De Fusco, Architettura ed Urbanistica dalla seconda metà dell’Ottocento ad oggi in Storia di Napoli, vol. X, Società Editrice Storia di Napoli, Napoli 1971, p. 291.

[7] R. De Fusco, op. cit., p. 291.

[8] R. De Fusco, op. cit., p. 295.

[9] A. Castagnaro, Stazione Duomo. Nicola Amore, Matilde Serao e Fuksas in G. D’Agostino, U. M. Olivieri, M. Rovinello (a cura di), Napoli a bordo di una metro sulle tracce della città, E.S.I., Napoli 2020.

[10] R. De Fusco, op. cit., p. 286.

[11] Per ulteriori approfondimenti sugli interventi urbani ottocenteschi a Napoli, cfr. G. Alisio, Napoli e il risanamento: recupero di una struttura urbana, ESI, Napoli 1980; F. Mangone, Centro storico, Marina e Quartieri spagnoli. Progetti e ipotesi di ristrutturazione della Napoli storica, 1860-1937, Grimaldi & C., Napoli 2010.

[12] Il progetto della Stazione Duomo. Dalla relazione di Massimiliano Fuksas in «Rassegna ANIAI» n. 3, 2013, p. 11.

[13] D. Giampaola, Archeologia e progetto in «Rassegna ANIAI» n. 3, 2013, pp. 15-16.

Biblioteca e Complesso Monumentale dei Girolamini

Biblioteca e quadreria dei Girolamini

Gemma Belli

Fabio Mangone

Foto di Mario Ferrara

Il complesso dei Girolamini, dichiarato nel 1866 “monumento nazionale”, dal 2019 divenuto museo autonomo, si estende su un’insula doppia del centro antico, e comprende la chiesa dedicata alla Natività di Maria, la sagrestia, l’oratorio, due chiostri, la Quadreria e la Biblioteca.

La costruzione sorse in seguito all’arrivo a Napoli, nel 1586, dei padri oratoriani Antonio Talpa, Francesco Maria Tarugi e Giovenale Ancina, importanti seguaci di Filippo Neri, accogliendo l’invito dell’arcivescovo Annibale di Capua e gli incoraggiamenti dei padri teatini di Napoli. Particolarmente incisivo per la storia della fabbrica risultò il ruolo di Talpa dotato di solide cognizioni di architettura.

Dapprima ospitati presso l’Oratorio dei Bianchi agli Incurabili, intorno al 1587, grazie all’aiuto dell’arcivescovo e di alcune famiglie patrizie napoletane, i filippini acquistarono per la somma di 5.500 ducati il palazzo del principe Seripando, in quella che, a ragione, ritenevano la parte più nobile della città. All’interno della primitiva fabbrica acquisita, costruirono in prima battuta una piccola chiesa a tre navate ubicata di fronte al Duomo, mentre negli anni successivi, attraverso una ben congegnata strategia, occuparono, mediante acquisti, donazioni e azioni legali, altri spazi corrispondenti al perimetro della attuale insula monastica.
Dalla maggiore disponibilità di spazi e di fondi nasceva la volontà di un progetto architettonico più ambizioso. A lungo la storiografia aveva fatto anche il nome del fiorentino Dionisio Nencioni di Bartolomeo, per un eventuale primo progetto del 1590, ma i più recenti studi di Gianluca Forgione, fondati su nuova e maggiore documentazione, permettono di stabilire che fu Giovanni Antonio Dosio, pure fiorentino, a svolgere qui il ruolo di progettista, mentre Nencioni assunse l’incarico di soprintendente di fabbrica. Quando Dosio giunse a Napoli nel 1590, probabilmente su invito del viceré Juan de Zúñiga Avellaneda y Bazán, sesto conte di Miranda, molto vicino a questa congregazione, poteva già contare sulla stima di Talpa, con cui si era incontrato nel decennio precedente sul cantiere della Chiesa Nuova a Roma: nelle lettere inviate a Roma, su dettatura di Tarugi a Talpa, la presenza di Dosio viene ritenuta quasi un segno della Provvidenza. Addirittura, i padri vollero ospitare l’architetto nella loro casa, nel timore che altri ne potessero accaparrare i servigi.

D’altronde gli Oratoriani, non apprezzando l’ambiente dell’architettura napoletana, desideravano una chiesa marcatamente “fiorentina”, in omaggio anche ai natali di San Filippo Neri. Non per caso i primi modelli cui guardarono furono la chiesa di San Giovanni dei fiorentini a Roma, nonché le brunelleschiane Santo Spirito e San Lorenzo a Firenze, nella deliberata consapevolezza peraltro che queste ultime rimandavano all’impianto delle antiche basiliche cristiane, dense di significati religiosi tornati di attualità.

D’altra parte, a quest’ambito si riferivano non solo progettista, soprintendente, e alcuni artefici, come lo scultore e marmoraro Iacopo Lazzari, ma anche i materiali stessi: per concessione di Ferdinando I de’ Medici la pietra di granito per le colonne fu estratta gratuitamente dall’Isola del Giglio.

Dalle Memorie historiche di Giovanni Marciano si apprende che il 15 agosto del 1592 il Viceré e la Viceregina intervennero alla posa della prima pietra della chiesa, e che il giorno successivo ebbero modo di esaminare il relativo modello ligneo illustrato dal progettista Dosio. L’impianto scelto era a croce latina, con tre navate scandite da 12 colonne di granito, ciascuna dedicata ad un apostolo, e per il procedere del cantiere il ruolo del competente Nencioni fu rilevante. Nel febbraio 1619, la chiesa era costruita, a meno di cupola – più avanti eseguita con direzione di Dioniso Lazzari - e facciata, ma la consacrazione avviene soltanto nel 1658. Ancora dopo tale data Dioniso Lazzari lavorava all’interno della chiesa, per la ricca decorazione marmorea delle sei cappelle in cornu Evangelii, e all’esterno alla realizzazione della facciata. Tuttavia, la attuale, sulla piazza dei Girolamini, è l’esito di una ristrutturazione operata con la direzione di Ferdinando Fuga nella seconda metà del Settecento, conservando nella parte inferiore elementi significativi della configurazione seicentesca, documentata da un’incisione nella Guida di Pompeo Sarnelli.

Nell’ambito del cantiere settecentesco, vanno quanto meno segnalati gli interventi di Arcengelo Guglielmelli che progettò la bellissima sagrestia e la grande sala oggi intitolata a Giovan Battista Vico. L’intero complesso sarà poi ultimato nel 1780 con la facciata su via Duomo di Ferdinando Fuga. Lungo quest’ultima i due portali conducono, a sinistra alla chiesa e alla cappella dell’Assunta, con decorazioni dipinte da Giuseppe Funaro, e a destra al chiostro della “porteria”. Realizzato tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento, pure su progetto toscaneggiante di Dosio, questo presenta pianta quadrata, archi a tutto sesto su colonne in marmo bardiglio di epoca romana e ambulacri con volte a vela. Il chiostro è dominato dal settecentesco torrino dell’orologio con un altorilievo raffigurante la Madonna della Vallicella sorretta da angeli; la struttura, ben inserita nel contesto di gusto toscano, si rese necessaria, dopo il completamento della chiesa e della sagrestia, per armonizzare l’ambiente originario con le più recenti architetture retrostanti di altezza diversa. La stretta somiglianza delle colonne del chiostro con quella della Flagellazione dipinta da Caravaggio per la chiesa di San Domenico Maggiore ha fatto pensare che il chiostro sia stato il luogo scelto dal maestro lombardo per dipingere dal vero il quadro che oggi si trova al Museo di Capodimonte. Segue il chiostro maggiore, “degli aranci”, edificato entro la prima metà del XVII secolo a opera di Nencioni e Dionisio Lazzari, su pianta quadrangolare con archi monumentali (otto sul lato corto e nove su quello lungo) intervallati da lesene e capitelli, con motivo a ghirlanda e mascheroni, a incorniciare l’aranceto posto a una quota più bassa. Da uno degli angoli parte poi lo scalone per l’accesso alla Biblioteca e alla Quadreria.

In generale, il valore culturale e il pregio del complesso dei Girolamini non risiedono soltanto nelle pur pregevoli architetture che lo costituiscono, quanto nel ricco patrimonio artistico, librario e nel significativo nucleo archeologico che ne sono parte integrante, costituiti per irripetibili circostanze storiche che hanno comportato significativi lasciti, acquisti, donazioni, che hanno arricchito tanto la chiesa quanto il complesso conventuale. Di fatto, il sontuoso interno della chiesa, nel corso del tempo, si arricchì di importanti opere per un verso ascrivibili ad artisti forestieri, soprattutto di formazione romana ed emiliana, e per l’altro ad importanti napoletani e meridionali. La ricchezza riflette anche la varietà delle occasioni attraverso cui tale opere pervennero, non sempre per diretta committenza oratoriana. Alcuni capolavori del barocco romano sono ascrivibili al mecenatismo di Anna Colonna Barberino; di questi sussiste nella cappella omonima (la prima cappella in cornu Epistulæ rispetto all’ingresso della chiesa) il Sant’Alessio di Pietro da Cortona, saldato al pittore nel maggio del 1638, mentre gli Angeli reliquiari di Alessandro Algardi, donati nel maggio del 1639 furono trafugati a metà del secolo scorso. La presenza, invece, nella chiesa come nella “quadreria” del convento, di quadri di Guido Reni, tra cui San Francesco nella omonima cappella, è legata all’eredità (1722) del sarto d’origine pugliese Domenico Lercaro. Alla medesima eredità, e a una complessa vicenda di “sostituzione”, si lega anche San Girolamo e l’angelo del Giudizio, nella cappella di tale nome, che tuttavia giunse a Napoli soltanto tra il 1646 e il 1648.

Degni di nota anche gli affreschi sulla controfacciata, tra cui si segnala, il celebre La Cacciata dei mercanti dal Tempio (1684) di Luca Giordano, presente in chiesa anche con celebrate pale, nelle omonime cappelle, sul tema rispettivamente Incontro dei Santi Carlo e Filippo, posto nella terza cappella a cornu Evangelii, e Santa Maria Maddalena de’ Pazzi con il Crocifisso, situato invece nella quinta a cornu Epistulæ.

Tra i preziosi nuclei patrimoniali, al di là della chiesa, vanno segnalati la ricca quadreria, in origine collocata nella sagrestia, e la eccezionale biblioteca. Formatasi ad inizio Seicento la pinacoteca era originariamente collocata nella sagrestia, e organizzata per essere aperta al pubblico: per qualità e ampiezza della collezione, divenne tappa obbligata per quanti visitavano la città e le sue emergenze. Una prima, ampia descrizione è nella Guida del Celano che testimonia che a tale data gran parte della collezione era stata già raccolta.

Il punto di partenza della pinacoteca doveva essere costituito dal lascito dei dipinti del sartore Lercaro, che obbligava i padri a tenerli esposti “al loro choro della loro chiesa tutti unitamente o vero nella sacristia Maggiore e voglio che non si possano né vendere né alienare, né donare né permutare, né ancor prestare in modo alcuno”. L’inventario dei suoi beni, di recente ritrovato da Forgione, testimonia che i dipinti lasciati ai Girolamini furono ben cinquantasette, tali da costituire il nucleo più antico e prestigioso della quadreria oratoriana. Se a tale nucleo vanno ascritte oltre alle opere di Reni anche alcuni lavori di Fabrizio Santafede, Giovan Bernardino Azzolino e Jusepe de Ribera, bisogna ritenere che in primis tale raccolta rifletteva il gusto di un collezionista borghese piuttosto che di una committenza religiosa. In ogni caso la attuale raccolta si segnala per opere di grande interesse, in cui si distinguono ambiti e scuole: all’ambiente romano vanno ascritte la Crocifissione del Sermoneta, l’Adorazione dei Magi di Federico Zuccari, San Paolo rapito al terzo cielo e San Sebastiano del cavalier d’Arpino, Madonna col bambino del Pomarancio, Il Giudizio di Salomone e La tentazione di San Francesco di Francesco Allegrini; mentre all’ambito dell’Italia centrale, con presenze umbre, toscane e emiliane, diverse opere significative tra cui emergono la Sacra Famiglia del Sordo di Urbino, la Madonna con bambino di Francesco Vanni, la Madonna con bambino di Elisabetta Sirani, e soprattutto due autentici capolavori di Guido Reni, quali la Fuga in Egitto ed Incontro di Gesù e San Giovanni Battista. Non manca naturalmente un’ampia e pregevole antologia della pittura napoletana e meridionale di età moderna, nella quale si situano bozzetti di Francesco Solimena e di Lodovico Mazzanti, e opere significative tra cui: Adorazione dei Magi di Andrea da Salerno; Santa Caterina d’Alessandria e Maddalena di Agostino Tesauro; Natività di Giovan Filippo Criscuolo; Lavanda del Bambino e Cristo con i figli di Zebedeo di Fabrizio Santafede; Battesimo di Gesù, Cristo porta croce e Martirio di San Bartolomeo di Battistello Caracciolo; Cristo legato e Quattro apostoli di Jusepe Ribera; Sant’Onofrio di Matthias Stomer; Adorazione dei Pastori e Sacrificio di Isacco di Andrea Vaccaro; Cristo flagellato di Cesare Francanzano; Adorazione dei pastori e Sacrificio di Isacco di Andrea Vaccaro, Madonna col bambino di Sebastiano Conca. Oltre ai dipinti, la raccolta comprende scultura (tra cui una di Giuseppe Sammartino), e vari oggetti d’arte, tra cui un pregiato crocifisso medievale, e vari paramenti sacri sei-settecenteschi.

Non meno significativo risulta l’insieme della Biblioteca: oltre che per la bellezza degli ambienti, tra cui quattro sale settecentesche, è celebre per la rarità degli oltre 60.000 volumi custoditi. La sala grande, dedicata al filosofo napoletano Giambattista Vico, fu realizzata tra il 1727 e il 1736. Vi si accede dall’originaria porta lignea di Gennaro Pacifico, inquadrata da un portale in marmo eseguito da Francesco Pagano. All’interno, le pareti sono rivestite da una magnifica scaffalatura, composta da 46 scansie in noce beneventano su due livelli, di cui l’inferiore progettato da Arcangelo Guglielmelli e il superiore da Muzio Anaclerio. Al di sopra, una teoria di medaglioni, raffiguranti i più celebri padri filippini, precede il soffitto ligneo dove risalta una maestosa tela con il trionfo della fede sulla scienza, mentre nelle lunette laterali compaiono le figure allegoriche di arti e scienze, realizzate Francesco Malerba e Cristoforo Russo su disegno di Carlo Schisano.

La Biblioteca statale oratoriana annessa al Monumento nazionale dei Girolamini di Napoli era ed è una biblioteca specializzata in Teologia cristiana, Filosofia, Chiesa cristiana in Europa, Storia della Chiesa, Musica sacra e Storia generale dell'Europa. Una sua antica peculiarità risiedeva nella circostanza che, contrariamente agli usi generalizzati degli ordini monastici che non ammettevano il pubblico nelle loro biblioteche, l'Istituto fu aperto al pubblico dal 1586. La Biblioteca, tra le più ricche del Mezzogiorno, e la più antica tra quelle napoletane, nel Settecento fu frequentata da importanti intellettuali, fra cui Giambattista Vico. Proprio su suggerimento di questi, nel 1727 i padri oratoriani acquistarono dagli eredi la eccezionale Biblioteca dell’avvocato e collezionista Giuseppe Valletta che comprendeva una ricca raccolta di testi giuridici, filosofici, religiosi e letterali del Seicento e del Settecento napoletano. Con i volumi della Biblioteca vallettana, per la somma complessiva di 14.000 scudi i padri oratoriani acquisirono diciassette epigrafi provenienti dalla collezione del giurista, anche quarantacinque vasi antichi. Di questi ultimi ne sussistono soltanto 14.

In seguito, furono acquisite anche altre importanti biblioteche, tra cui quelle appartenute a Carlo Troya, a Agostino, Gervasio e Antonio Bellucci. Nel patrimonio di pregiati codici miniati risultano di notevole interesse tanto alcuni trecenteschi, come la Commedia di Dante, la Teseida di Boccaccio, le Tragedie di Seneca, quanto altri quattrocenteschi, come una Cosmographia di Tolomeo, un Officium Beatae Mariae, miniato da artista ferrarese, le Epistulae et Panegyricos di Plinio.

 

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San Severo al Pendino

Chiesa di San Severo al Pendino

 

di Massimo Visone

La chiesa di San Severo al Pendino è collocata sul versante meridionale di via Duomo ed è stata oggetto di diverse trasformazioni, sia di carattere architettonico che urbanistico. La conformazione attuale è frutto di un progetto di Giovan Giacomo di Conforto – uno degli esponenti di spicco dell’architettura della Controriforma – e dell’intervento postunitario di allargamento della sezione stradale prima e di risanamento dei quartieri bassi poi. In questa sede cercheremo di ricostruire la storia di questo edificio: dall’antica chiesa di Santa Maria a Selice a quella moderna dedicata a uno dei santi patroni di Napoli, dalla soppressione degli ordini nel 1809 alla destinazione museale del sito nella città contemporanea.

Premessa

A Napoli, l’intensa urbanizzazione, l’alterazione dell’assetto territoriale, una diversa mobilità e la variazione dei riferimenti culturali hanno mutato la comune percezione dello spazio urbano, ma, soprattutto, hanno tradito una confidenza fisica con la sua orografia, le cui tracce spesso sopravvivono solo in alcuni segni che hanno resistito al corso naturale della storia, quali la toponomastica, o singolari elementi materiali, che solo un approccio di tipo archeologico ci consente di comprendere. Una puntuale decodifica della morfologia del suolo e delle architetture può aiutare la comprensione delle dinamiche insediative, delle qualità ambientali e delle amenità del sito. Ciò è vero innanzitutto per quei luoghi collocati in aree di margine della città antica, sui promontori, lungo i crinali o a ridosso delle mura, come nel nostro caso. L’evoluzione urbana ha visto questi terreni scoscesi sistemati prima ad aree agricole, poi a giardini, infine frammentati o venduti, trasformando mura, fabbriche, terrazzamenti e terrapieni in fortificazioni, palazzi, chiese, conventi, cortili, chiostri e giardini di grande impatto vedutistico.

Il rinnovato interesse verso il centro storico di Napoli, le correnti politiche che investono su alcuni sistemi culturali, i più recenti studi su Palazzo Como e sulle opere del risanamento, l’opportunità di riflettere su un bene artistico e architettonico hanno spinto la ricerca a rendere intellegibile l’odierna chiesa di San Severo al Pendino, l’immediato contesto e il territorio circostante nel suo sviluppo storico, urbano e architettonico.

Santa Maria a Selice (844-1448)

Nel 1623, Cesare d’Engenio Caracciolo informa che una prima cappella intitolata a Santa Maria a Selice con annesso ospedale per i “poveri infermi” fu edificata in questo sito nell’844 a opera di Pietro Caracciolo, abate della vicina basilica di San Giorgio maggiore, costruita tra la fine del IV e il principio del V secolo e a cui la storia della nostra chiesa sarà a lungo intrecciata.

Nel 1444, in una bolla di Eugenio IV si legge che la fabbrica è in giuspatronato agli Acciapaccia: un’antica famiglia napoletana aggregata dal 1420 al Seggio di Portanova. Nel 1445 Nicola, Renzo e Ladislao Acciapaccia ottengono dall’arcivescovo il consenso per affidare l’edificio al chierico Francesco Latro. Nel 1448 il complesso versa in stato di rovina e la famiglia concede la proprietà ai napoletani, che dedicano la chiesa a san Severo.

Nulla sappiamo sulla conformazione della prima cappella e del relativo ospedale d’età altomedievale, ma è possibile tentare di ricostruirne il contesto. Santa Maria a Selice sorgeva a mezzogiorno della città, nella contrada che le dava il nome, sita a ridosso del primo tracciato della città greco-romana, su di un pianoro caratterizzato da una linea di demarcazione naturale ben definita. I collegamenti tra la città a monte e i quartieri a valle erano possibili attraverso una serie di ‘penninate’. In tal senso, la consultazione della Pianta del Comune di Napoli (1872-1880) è un utile strumento per analizzare l’orografia del sito prima del risanamento, grazie alla puntuale indicazione delle quote stradali.

Sul fronte meridionale, questo confine naturale si dispiega da via Sedile di Porto, orientativamente dal convento di Santa Maria la Nova, fino al monastero dei Santi Severino e Sossio, qui ripiega verso l’interno a formare un’ansa fino a San Giorgio maggiore. Si configura così un profilo irregolare che partecipa alla fortificazione di Napoli.

Il tessuto conserva il tracciato compatto e irregolare della città medievale cresciuta sulle mura meridionali, al di là delle quali si apriva a valle l’espansione dell’area portuale e commerciale, presso cui era la Sellaria, una delle strade moderne più belle e oggetto di un significativo intervento di riqualificazione a opera di Alfonso I d’Aragona iniziato nel 1456. A monte si erano insediati alcuni complessi monastici, mentre tutt’intorno si era stratificata un’edilizia civile di significativo interesse, tra queste si realizzano gradonate di attraversamento scavate in lunghi cavoni, come il pendino Santa Barbara, o appoggiate alla falesia di tufo, come quella antistante il complesso dei Santi Severino e Sossio, oggi malcelati allo sguardo contemporaneo.

In questa sede piace pensare che la nostra cappella potesse aprirsi sul sagrato antistante la chiesa di San Giorgio maggiore; questa si ergeva su di un podio preceduto da un ampio portico, che dominava il terrazzamento sito proprio a ridosso del salto di quota, mentre l’ospedale annesso a Santa Maria a Selice doveva trovarsi plausibilmente a monte.

San Severo al Pendino (1448-1809)

Nel 1448, rovinata Santa Maria a Selice, la famiglia Acciapaccia cede il complesso ai napoletani. Da questo momento, la cappella, viene retta da un’estaurita della chiesa di San Giorgio, cioè un’istituzione a scopo di beneficenza dipendente da laici e, grazie alle elemosine di alcuni devoti, è riedificata e dedicata a san Severo, vescovo di Napoli (357-400), fondatore della vicina chiesa di San Giorgio maggiore e santo patrono secondario della città. A questi, secondo la leggenda devozionale, è legato il primo dei miracoli della liquefazione del sangue di san Gennaro, così come è invece vero che per un periodo le celebrazioni furono svolte presso la basilica paleocristiana. Possiamo pertanto dire che la storia del culto di San Gennaro coinvolge anche questa tratto meridionale della strada.

Nel fervore assistenziale alimentato dalle istanze della Controriforma nacquero e si moltiplicarono a Napoli numerose istituzioni pie collegate alla formazione di congregazioni, scuole e ospedali a sostegno dei poveri. In continuità con i complessi religiosi nascevano o si riutilizzavano fabbriche finanziate da un crescente flusso di donazioni e di lasciti alimentati dall’assunto della salvezza dell’anima attraverso le opere caritatevoli.

In questo contesto nascono i banchi pubblici napoletani e San Severo fu coinvolta in questo fenomeno. Il 28 maggio 1583, infatti, qui si formò la compagnia del Santissimo Nome di Dio, composta da ventinove gentiluomini sotto la guida di fra Paolino da Lucca – a cui il vicario generale aveva concesso il complesso insieme ad altri domenicani nel 1575 – e per opera di Orazio Teodoro, un’opera pia per assolvere alla carità cristiana.

La prossimità all’antica basilica, presso cui era ospitato il più noto Monte de’ poveri, portò a una prima unione nel 1588 e alla nascita della Compagnia del Nome di Dio, del Monte de’ poveri e poi alla definitiva fusione nel 1599, conservando nel titolo la memoria delle rispettive origini (Monte dei Poveri del Sacro Nome di Dio).

Grazie alle attività di carità e alle iniziative di privati, come le elemosine del marchese d’Umbriatico della famiglia Bisballo, l’architetto Giovan Giacomo Conforto fu incaricato del rifacimento della chiesa, mentre nel 1587 fu acquisito il vicino palazzo Como adibito a convento sempre sotto la direzione di Conforto. L’attività di Giovan Giacomo Conforto è documentata tra il 1599 e il 1620; nel 1604 la chiesa è stata terminata, poi proseguono i lavori nel vicino convento.

C’è chi ha ipotizzato che gli interventi di ampliamento dell’edificio preesistente avessero potuto riguardare soprattutto la zona verso l’altare maggiore, sulla quale fu impostata la nuova cupola. “Potrebbero invece risalire al periodo rinascimentale le arcate in piperno che delimitano le cappelle laterali, a sesto pieno e sormontate da un’alta trabeazione, scandita da triglifi e ornata sulla parte superiore da una piccola cornice a ovoli. Risalenti al XV-XVI secolo appaiono anche i battenti lignei del portone principale, decorati da motivi geometrici”.

Si tratta di una chiesa disegnata nel pieno rispetto delle regole della Chiesa della Controriforma. Consiste di un impianto a croce latina inscritta in un rettangolo e con cupola e coperto con volta a botte, con undici cappelle, essendo la seconda a destra della navata occupata dalla porta minore, di cui due nella crociera; di prospetto è l’altare maggiore, alle cui spalle è sistemato il coro in un’ampia scarsella. A un’attenta analisi comparativa del partito decorativo sopradescritto, possiamo facilmente accostare il motivo di San Severo a quello utilizzato sul portale del Monte di Pietà, opera coeva di Giovan Battista Cavagna, presso cui aveva lavorato anche Conforto. Seppure si tratti di pilastri fasciati in pietra misti, la presenza del triglifo in testa al capitello e sulla chiave di volta dell’arco attesta una certa ascendenza linguistica di stampo manierista tra i due architetti, entrambi impegnati con cantieri legati a opere pie. Altrettanto ricorrente è la variazione di questo tema in altre chiese che si realizzano a Napoli a cavallo tra XVI e XVII secolo.

La chiesa risulta perfettamente funzionante nel 1692, ma era stata in parte rimaneggiata dopo i danni del terremoto del 1688 e contraddistinta da una scala esterna a doppia rampa con balaustra a volute in piperno, raffigurata in una delle litografie a colori di Raffaele D’Ambra (1899).

Giuseppe Sigismondo è l’ultimo autore che nella sua guida ci descrive la chiesa prima del decreto di soppressione. “Il Cappellone dalla parte della Epistola è dedicato alla B. Vergine del Rosario con un bel quadro. I marmi che vi si veggono colle statue, colonne, e’l bassorilievo che serve innanzi Altare sono del deposito di Gio[vanni] Alfonso Bisballo Marchese di Umbriativo figlio del Conte Ferdinando, e di Diana Caracciolo, che militò sotto Carlo V, e Filippo Secondo, qual deposito era dietro il maggiore Altare del Coro; ma nel tremuoto del 1688, avendo patito di molto la Chiesa, bisognò toglierla il deposito: i marmi furono adattati per ornamento di questa Cappella, ed il tumulo colla statua giacente del Marchese fu situato nel lato della Espistola sul vano che introduce alla nave delle Cappelle.

Nella Sagrestia possono osservarsi sei opere in cera della celebre Caterina de Julianis, cioè un Cimiterio, una Madonna col Bambino in braccio, altra col Bambino in atto di dormie, un Ecce Homo a mezza figura, una S. Rosa di Lima, ed un S. Domenico che disputa cogli Eretici” [Sigismondo 1788, 105-106]. Gli oggetti d’arte che l’arredavano sono in parte presenti, in parte conservati in varie sedi e altri ancora non identificati.

Si segnala all’esterno, sul fianco destro della chiesa, al n. 13° di piazzetta Paparelle al Pendino un piccolo portale ornato da un tondo scolpito con la raffigurazione del busto del santo vescovo titolare.

La soppressione

Con la soppressione dell’ordine dei frati minori osservanti, nell’agosto del 1809, il complesso ebbe funzione di carattere civile, fino al 1845, con il ritorno dei religiosi.

Il 18 settembre 1860 Giuseppe Garibaldi firma il decreto con il quale si dà il via alla realizzazione di progetti in massima parte risalenti al periodo borbonico, come il taglio nel centro storico per l’allargamento dell’odierna via Duomo fino a via San Biagio dei Librai. Il prolungamento dell’intervento nel tratto meridionale, che consente alla nuova strada l’attraversamento di tutto il centro storico, avverrà con il più noto intervento del risanamento con la legge speciale per Napoli del 1885.

La chiesa fu coinvolta nella rettifica del versante occidentale della strada e venne privata delle prime due cappelle e della facciata barocca, sostituita con una in stile neorinascimentale. Dell’antico ambiente circostante sopravvivono infatti solo i due palazzi fronteggianti la chiesa.

Nel 1879, invece, furono avviati i lavori per l’apertura del tratto meridionale di via Duomo che comportarono il completo stravolgimento di questa parte della città: fu innalzata la quota stradale, soppressa la scalinata di accesso alla chiesa, amputate le chiese di San Giorgio Maggiore e di San Severo, rispettivamente della navata destra e del campanile pensile la prima e della parte anteriore la seconda; venne inoltre demolito il complesso conventuale.

Nel Novecento ha subito diversi riusi, come la trasformazione in rifugio antiaereo nella Seconda guerra mondiale.

Il ruolo museale

Nel 1999, in occasione del Maggio dei Monumenti, la chiesa di San Severo al Pendino riapre al pubblico dopo cinquant’anni di chiusura. I lavori di restauro e di consolidamento, iniziati alla fine degli anni Settanta e curati dalla Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici di Napoli e provincia, hanno restituito alla città uno spazio espositivo all’interno del percorso di via Duomo. L’edificio così recuperato ha acquistato in maniera progressiva un posto nell’asset delle attività culturali promosse dal Comune nel nucleo antico del centro storico, proprio negli anni in cui si avviava la rinascita della vocazione turistica di Napoli.

Oggi è una delle cinque sedi che il Comune di Napoli mette a servizio della città per sale espositive e spazi per meeting, insieme al Palazzo Arti Napoli (Pan), Castel dell’Ovo, la sala Gemito al secondo piano della galleria Principe di Napoli e la sala Campanella a piazza del Gesù.

Bibliografia

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G. Sigismondo, Descrizione della città di Napoli e suoi borghi, Presso i fratelli Terres, Napoli 1788, II, pp. 105-106

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G.A. Galante, Guida sacra della città di Napoli, a cura di N. Spinosa, Napoli 1985, p. 159, con Note alla Giornata settima di I. Maietta, p. 172

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G. Alisio, A. Buccaro, Napoli Millenovecento. Dai catasti del XIX secolo ad oggi. La città, il suburbio, le presenze architettoniche, Electa Napoli, Napoli 1999.

V. Scancamarra, La Collegiata di S. Severo nella Basilica e nella Chiesa di S. Giorgio Maggiore in Napoli. Aspetti storici - rilevanze collaterali, s.n.t. [ma Laurenziana, Napoli], 2010

Da Palazzo Como a Museo Filangieri. Storia, tutela e restauro di una residenza del Rinascimento a Napoli, a cura di A. Ghisetti Giavarina, F. Mangone, A. Pane, Grimaldi & C., Napoli 2019

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Rendiamo noti, inoltre, i dati di contatto del Responsabile della Protezione Dati: dott. Eduardo Ascione, tel. 0817962413, e-mail dpo@regione.campania.it.

 

3. FINALITÀ E BASE GIURIDICA DEL TRATTAMENTO

Art.13, par.1, lett. ce art.14, par.1, lett. c del Regolamento (UE) 2016/679

I dati personali sono trattati dalla Regione nell'esecuzione dei propri compiti di interesse pubblico o comunque connessi all'esercizio dei propri pubblici poteri, ivi incluse la gestione e tutela del patrimonio culturale e le connesse attività di comunicazione.

I dati personali da Voi forniti sono trattati unicamente per finalità strettamente connesse e necessarie alla fruizione del portale e dei servizi eventualmente richiesti, ovvero per finalità funzionali allo svolgimento di ricerche, analisi e statistiche, invio di materiale informativo e di aggiornamenti su iniziative e programmi dell'Amministrazione regionale.

Qualora il Titolare intenda trattare ulteriormente i dati personali per una finalità diversa da quella per cui essi sono stati raccolti, prima di tale ulteriore trattamento fornisce all'interessato informazioni in merito a tale diversa finalità e ogni ulteriore informazione pertinente.

 

4. TIPI DI DATI TRATTATI E FINALITÀ DEL TRATTAMENTO

Dati di navigazione

I sistemi informatici e le procedure software preposte al funzionamento del portale regionale acquisiscono, nel corso del loro normale esercizio, alcuni dati personali la cui trasmissione è implicita nell'uso dei protocolli di comunicazione di Internet.

Si tratta di informazioni che non sono raccolte per essere associate a interessati identificati, ma che per loro stessa natura potrebbero, attraverso elaborazioni ed associazioni con dati detenuti da terzi, permettere di identificare gli utenti. In questa categoria di dati rientrano gli indirizzi IP o i nomi a dominio dei computer utilizzati dagli utenti che si connettono al sito, gli indirizzi in notazione URI (Uniform Resource ldentifier) delle risorse richieste, l'orario della richiesta, il metodo utilizzato nel sottoporre la richiesta al server, la dimensione del file ottenuto in risposta, il codice numerico indicante lo stato della risposta data dal server (buon fine, errore, ecc.) ed altri parametri relativi al sistema operativo e all'ambiente informatico dell'utente. Questi dati vengono utilizzati al solo fine di ricavare informazioni statistiche anonime sull'uso del portale e per controllarne il corretto funzionamento e vengono cancellati immediatamente dopo l'elaborazione. I dati potrebbero essere utilizzati per l'accertamento di responsabilità in caso di ipotetici reati informatici ai danni del portale.

 

Dati comunicati dall'utente

L'.invio facoltativo, esplicito e volontario di messaggi agli indirizzi di contatto della Regione Campania presenti sul portale, i messaggi privati inviati dagli utenti ai profili/pagine istituzionali sui social media (laddove questa possibilità sia prevista), nonché la compilazione e l'inoltro dei moduli presenti sul portale regionale, comportano l'acquisizione dei dati di contatto del mittente, necessari a rispondere, nonché di tutti i dati personali inclusi nelle comunicazioni.

Specifiche informative verranno pubblicate nelle pagine dedicate del portale regionale per l'erogazione di determinati servizi.

 

Cookie

Questo Sito utilizza cookie tecnici, rispetto ai quali, ai sensi dell'art. 122 del Codice in materia di protezione dei dati personali e del Provvedimento del Garante dell'8 maggio 2014, non è richiesto alcun consenso da parte dell'interessato. Non viene fatto uso di cookie per la profilazione degli utenti, né vengono impiegati altri metodi di tracciamento. Viene invece fatto uso di cookie tecnici in modo strettamente limitato a quanto necessario per la navigazione sicura ed efficiente dei siti. Ulteriori informazioni sulla Cookie Policy sono consultabili nella apposita pagina.

 

5. LUOGO, MODALITÀ E DESTINATARI DEL TRATTAMENTO

I dati personali sono trattati presso la sede del Titolare o dei Responsabili con strumenti automatizzati per il tempo strettamente necessario a conseguire gli scopi per cui sono stati raccolti, nel rispetto delle regole di riservatezza e di sicurezza previste dalla normativa vigente.

Specifiche misure di sicurezza tecniche e organizzative sono adottate per tutelare le informazioni dall'alterazione, dalla distruzione, dalla perdita, dal furto o dall'utilizzo improprio o illegittimo. I trattamenti connessi ai servizi del portale web sono curati solo da personale tecnico autorizzato e istruito al trattamento, oppure dai Responsabili designati dal Titolare ai sensi dell'art. 28 del Regolamento.

Nessun dato derivante dai servizi web del portale viene diffuso. I dati personali forniti dagli utenti che inoltrano richieste di informazioni e suggerimenti sono utilizzati al solo fine di eseguire il servizio o la prestazione richiesta e sono eventualmente comunicati ad altro personale autorizzato al trattamento all'interno della Regione Campania o ad altri soggetti pubblici o privati nel solo caso in cui ciò sia imposto dagli obblighi di legge o strettamente necessario per fornire le informazioni da Voi richieste.

 

6. PERIODO DI CONSERVAZIONE DEI DATI

Art.13, par.2, lett. a) e art.14, par.1, lett. a) del Regolamento (UE) 2016/679

Nel rispetto dei principi di liceità, limitazione delle finalità e minimizzazione dei dati, ai sensi dell'art. 5 Regolamento (UE) 2016/679, i dati personali saranno conservati per tutta la durata delle attività finalizzate alla realizzazione dei compiti istituzionali dell'Ecosistema Digitale per la Cultura della Regione Campania.

I dati personali potranno essere conservati per periodi più lunghi per essere trattati esclusivamente a fini di archiviazione nel pubblico interesse, di ricerca scientifica o storica o a fini statistici, conformemente all'articolo 89, paragrafo 1, del Regolamento (UE) 2016/679.

Sono fatti salvi i casi in cui si dovessero far valere in giudizio questioni afferenti le attività di competenza dell'Ufficio, nel qual caso i dati personali dell'Interessato, esclusivamente quelli necessari per tali finalità, saranno trattati per il tempo indispensabile al loro perseguimento.

 

7. DIRITTI DEGLI INTERESSATI

Art.13, par.2, lett.b e art.14, par.2, lett.c del Regolamento (UE) 2016/679 e della DGR n. 466 del 17/07/2018

Le comunichiamo che potrà esercitare i diritti di cui al Regolamento (UE) 2016/679, di seguito analiticamente descritti.

 

Diritto di accesso ex art. 15

Ha diritto di ottenere, dal Titolare del trattamento, la conferma dell'esistenza o meno di un trattamento di dati personali relativo ai Suoi dati, di conoscerne il contenuto e l'origine, verificarne l'esattezza ed in tal caso, di ottenere l'accesso ai suddetti dati. In ogni caso ha diritto di ricevere una copia dei dati personali oggetto di trattamento.

 

Diritto di rettifica ex art. 16

Ha diritto di ottenere, dal Titolare del trattamento, l'integrazione, l'aggiornamento nonché la rettifica dei Suoi dati personali senza ingiustificato ritardo.

 

Diritto alla cancellazione ex art. 17

Ha diritto di ottenere, dal Titolare del trattamento, la cancellazione dei dati personali che La riguardano, senza ingiustificato ritardo, nei casi in cui ricorra una delle ipotesi previste dall'art. 17 (dati personali non più necessari rispetto alle finalità per cui sono stati raccolti o trattati, revoca del consenso ed insussistenza di altro fondamento giuridico per il trattamento, dati personali trattati illecitamente, esercizio del diritto di opposizione, ecc.).

 

Diritto di limitazione del trattamento ex art. 18

Ha diritto di ottenere, dal Titolare, la limitazione del trattamento dei dati personali nei casi espressamente previsti dal Regolamento, ovvero quando: contesta l'esattezza dei dati, il trattamento è illecito e chiede che ne sia meramente limitato l'utilizzo, i dati sono necessari per l'accertamento, l'esercizio o la difesa di un diritto in sede giudiziaria o si è opposto al trattamento per motivi legittimi. Se il trattamento è limitato, i dati personali saranno trattati solo con il Suo esplicito consenso. Il Titolare è tenuto ad informarla prima che la limitazione sia revocata.

 

Diritto alla portabilità dei dati ex art. 20

Qualora il trattamento sia effettuato con mezzi automatizzati, ha garantito il diritto alla portabilità dei dati personali che la riguardano, qualora il trattamento si basi sul consenso o su un contratto, nonché la trasmissione diretta degli stessi ad altro titolare di trattamento, ove tecnicamente fattibile.

 

Diritto di opposizione ex art. 21

Ha diritto di opporsi in qualsiasi momento, per motivi connessi alla sua situazione particolare, al trattamento di dati personali che lo riguardano. Verrà, comunque, effettuato dal Titolare del trattamento un bilanciamento tra i Suoi interessi ed i motivi legittimi cogenti per procedere al trattamento (tra cui, ad esempio, accertamento, esercizio e difesa di un diritto in sede giudiziaria, ecc.).

 

Diritto di reclamo ex art. 77

Gli interessati che ritengono che il trattamento dei dati personali a loro riferiti effettuato attraverso questo sito avvenga in violazione di quanto previsto dal Regolamento hanno il diritto di proporre reclamo al Garante per la protezione dei dati personali, o di adire le opportune sedi giudiziarie (art. 79 del Regolamento). Ulteriori informazioni in ordine ai Suoi diritti sulla protezione dei dati personali sono reperibili sul sito web del Garante all'indirizzo https://www.garanteprivacy.it.