Donnaregina Vecchia

Santa Maria Donnaregina Vecchia

di Paola Vitolo

 

Posto sul limite settentrionale della città greca, il complesso di Santa Maria Donnaregina sorge a ridosso delle antiche mura e poco distante dall’area dell’insula episcopalis. La struttura è il risultato dei progressivi ampliamenti del primitivo insediamento, la cui origine risale all’Alto Medioevo, e che allo stato attuale risulta articolato nei compositi ambienti del monastero e in due chiese: la trecentesca Santa Maria Donnaregina vecchia (sede della scuola di specializzazione in Beni architettonici e del paesaggio dell’Università degli studi Federico II) e la seicentesca Santa Maria Donnaregina nuova (oggi Museo diocesano) costruita in asse con il precedente edificio, ma con opposto orientamento, per ospitare una più numerosa comunità di monache e per venire incontro alle mutate esigenze di gusto e di organizzazione liturgica post-tridentina.   

   La prima fondazione va indentificata con il «chiostro delle vergini» di cui si trova menzione nelle fonti, ed esistente già intorno al VI o al VII secolo, poi intitolato San Pietro ad Montes di Donna Regina, con riferimento ad un toponimo del quale non è nota l’origine, ma forse riconducibile al nome di una famiglia o di una nobildonna che doveva aver avuto la proprietà di quei terreni. La comunità, dapprima “basiliana” poi benedettina, adottò entro la metà del Duecento la regola francescana. Le strutture del monastero, gravemente danneggiate da un terremoto nel 1293, furono ricostruite con il patrocinio della regina Maria d’Ungheria (1247-1323), moglie di Carlo I d’Angiò (1266-1285), che finanziò prima il rifacimento del dormitorio e poi la riedificazione della chiesa, i cui lavori si ritengono conclusi nel corso del secondo decennio del Trecento. Due date, in particolare, sono indicative delle ultime fasi del cantiere. Nel 1316 papa Giovanni XXII emise alcune indulgenze a coloro che avessero visitato la chiesa in occasione delle principali festività liturgiche. Nel 1318 il numero dei frati preposti alla cura del monastero passò da quattro a sei, evidentemente per far fronte ad alla crescita della comunità religiosa: le evidenze materiali (la tamponatura di due finestre lunghe, rispettivamente sui lati est ed ovest della navata) suggeriscono che in corso d’opera il coro delle clarisse fu allungato verso l’abside di una campata per fare posto ad una struttura più grande di quella originariamente prevista.

   Come ha osservato Caroline Bruzelius, Donnaregina rappresenta un raro caso di chiese costruite ex-novo per suore di clausura, alle quali erano generalmente destinati edifici preesistenti, riadattati. L’iniziativa si inserisce in un clima di intenso fervore edilizio che, a partire dagli ultimi anni del Duecento, trasformò Napoli ˗ capitale del Regno di Sicilia sotto la casa angioina - in una “città cantiere”, con l’edificazione di nuove aree verso sud-ovest e con la profonda trasformazione del centro antico della città, dove furono costruiti o ampliati numerosi edifici religiosi e le residenze per i membri della corte. Le nuove imprese, con i propri valori formali e la magnificenza dei cicli decorativi, rappresentarono per la dinastia importanti forme di autorappresentazione, intrise di contenuti altamente simbolici del prestigio regale della stirpe. Donnaregina, una delle prime fondazioni patrocinate dalla casa angioina a Napoli, si presenta, in tal senso, come una sintesi perfetta delle esigenze devozionali dell’ordine e di quelle di celebrazione familiare della corte.

   La chiesa, oggi quasi nascosta nel fitto tessuto urbano, è un edificio ampio ed armonioso, a navata unica terminante in un’abside a pianta poligonale voltata a semiombrello, illuminata da alte finestre a lancetta e preceduta da una campata rettangolare di uguale altezza. La caratteristica più originale dell’edificio è la presenza di un vasto coro soprelevato che, a partire dalla controfacciata, si estende sostenuto da otto pilastri ottagoni per circa due terzi dell’ambiente. Si tratta di una soluzione molto rara in Italia per quest’epoca, che veniva incontro in maniera funzionale alle esigenze di invisibilità della clausura promulgate da Bonifacio VIII nella bolla Periculoso (1298). Precedenti duecenteschi si registrano in Italia centrale, ma per essi è stata ipotizzata una funzione residenziale e non cultuale, mentre l’unico caso analogo in Campania, quello della chiesa di Santa Maria Iacobi a Nola, è più tardo, e anzi fu certamente ispirato proprio dall’esempio napoletano. La critica ha recentemente individuato in questa singolare scelta icnografica la precisa volontà da parte della sovrana Maria d’Ungheria di riprodurre un modello in voga nell’Europa centro-orientale (area germanica, Polonia, Boemia ed Ungheria) quale elemento di identificazione della fondazione napoletana con la sua tradizione familiare e culturale.

   L’estesa decorazione dipinta, opera di una composita bottega di cultura romano-cavalliniana, forma parte integrante della struttura, ne sottolinea e ne modella le ampie superfici, accompagnando la scansione degli ambienti e la loro destinazione. La difficile leggibilità delle pitture è dovuta ad un incendio che già in antico (1391) distrusse il tetto della chiesa “cuocendo” di fatto i colori: risulta di conseguenza assai complessa anche la valutazione degli specifici valori di stile che ha suggerito nel tempo diverse ipotesi circa l’attribuzione dell’impresa.

    Il ciclo, seppure articolato per nuclei in relazione ai diversi tipi di pubblico ospitati nei vari ambienti, è unitario nella logica dell’insieme. Gli episodi della vita di Cristo e le Storie di Santa Elisabetta d’Ungheria, di Santa Caterina d’Alessandra, Sant’Agnese sulle pareti alte della navata, vengono incontro alle esigenze cultuali della comunità delle clarisse, che potevano trovare supporto alla preghiera negli estesi tituli posti a corredo di ciascuna scena. L’insistenza sui temi di santità e regalità femminili delle pitture assecondano anche le preferenze devozionali della regina e ne richiamano la prestigiosa tradizione familiare: in particolare, la presenza di sant’Elisabetta è un omaggio alla committente, che ne era una diretta discendente; i modelli rappresentati da sant’Agnese e da santa Caterina d’Alessandria, entrambe giovani, colte e di estrazione aristocratica, dovevano essere di ispirazione per le clarisse, che provenivano dalle famiglie nobili della città.

   Un’imponente esibizione degli stemmi dinastici angioini ed ungheresi scandisce le volte a crociera della tribuna soprelevata e le vele dell’abside: rispettivamente l’area destinata ai laici e quella soprastante l’altare. Lo spazio antistante il presbiterio è scandito da imponenti coppie di personaggi dell’Antico e del Nuovo Testamento affiancati a palme. La gloria di angeli sulle pareti dell’arcone trionfale, il Giudizio finale in controfacciata e la soprastante Vergine dell’Apocalisse (oggi coperta dal soffitto ligneo cinquecentesco, opera dall’intagliatore bergamasco Pietro Belverte, che coprì anche i registri alti del ciclo dipinto della tribuna) si possono interpretare come i temi unificanti dell’intero programma decorativo, nel quale si trovava inserito anche il sepolcro della regina, oggi visibile – dopo vari smontaggi e spostamenti – sul lato orientale della navata, ma probabilmente in origine dietro l’altare maggiore. La magnifica tomba, opera dello scultore senese Tino di Camaino, è coronata da baldacchino, con il sepolcro retto virtù cariatidi e scandito sulla lastra frontale dalle immagini della numerosa prole maschile della regina, tra cui si annoverano due re, Carlo Martello e Roberto, e un santo, Ludovico vescovo di Tolosa.

Il tema di dedicazione della chiesa, accompagnato da un omaggio alla regalità della committente, si vedeva un tempo in facciata, come riferisce una cronaca settecentesca letta da Èmile Bertaux: un affresco nella lunetta del portale di accesso, oggi perduto, raffigurava la Madonna Assunta affiancata da san Pietro e un Albero di Jesse, che alludeva al tema dell’appartenenza ad una stirpe regale.

   Sul lato ovest della navata si apre la cappella sepolcrale della famiglia Loffredo, coeva alla fase trecentesca dei lavori e interamente affrescata, sul cui ingresso è ancora in parte visibile un raro dipinto dell’Apocalisse.

   Con la soppressione nel 1861 e il trasferimento delle monache in altri conventi cittadini, la chiesa vecchia e i locali del convento furono ceduti al Comune di Napoli che li destinò a varie funzioni. La chiesa, in particolare, fu suddivisa nella parte bassa in vari piccoli ambienti che ospitarono la Commissione Municipale per la Conservazione dei Monumenti e l’Academia Pontaniana (1889-1896), mentre la parte alta fu oggetto dei primi interventi di restauro (1877-78) attirando così l’interesse degli studiosi (come Camillo Minieri Riccio ed Émile Bertaux) che dedicarono all’edificio i primi studi specialistici. L’inizio di un processo di valorizzazione e riscoperta della chiesa si ebbero tuttavia solo con il restauro curato tra il 1928 e il 1934 da Gino Chierici, che fece rimuovere le superfetazioni moderne, curando anche la ricostruzione di alcune porzioni dell’edificio, come l’abside, che era stato parzialmente manomesso durante l’edificazione della chiesa di Donnaregina Nuova.

  

 

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