Museo Gaetano Filangieri

Da Palazzo Como a Museo Filangieri: storia, tutela e restauro di una residenza del Rinascimento nel contesto della nuova via Duomo

Andrea Pane, Università degli Studi di Napoli Federico II

Damiana Treccozzi, Università degli Studi di Napoli Federico II

 

1. Da palazzo rinascimentale a museo

Nel panorama della storia dell’architettura napoletana il palazzo Como costituisce un episodio decisamente singolare, non soltanto per la complessa vicenda delle sue origini, ma anche, e soprattutto, almeno nella cognizione più diffusa a livello popolare, per il singolare destino della sua “trasposizione” ottocentesca.

Edificato in pieno fulgore del regno aragonese, a partire dalla metà del Quattrocento, attraverso modificazioni e accorpamenti di fabbriche preesistenti, esso fu trasformato, con pesanti alterazioni, in complesso conventuale tra la fine del XVI e gli inizi del XVII secolo, finendo in un parziale oblio per alcuni secoli. Fu solo a partire dalla metà dell’Ottocento, e in misura maggiore all’indomani dell’Unità, nel quadro di un rinnovato interesse per l’architettura del Rinascimento, che i resti del palazzo destarono nuovamente l’attenzione di studiosi e letterati, motivati a indagarne le vicende storiche dall’imminente rischio di una loro totale perdita a vantaggio della nuova via Duomo. Ne derivarono numerosi studi, che dall’indagine sulla fabbrica si estesero anche alla sua committenza, come nel caso degli scritti di Bartolomeo Capasso, che fissarono alcuni punti fondamentali per una sua prima ricognizione (Capasso 1888).

Superata la questione della sua conservazione con una scelta che ne salvaguardò almeno i prospetti, il palazzo fu oggetto di qualche cenno anche al di là dei confini partenopei (Venturi 1924), senza tuttavia dar luogo a successive indagini sistematiche. Esso finì dunque per essere ripetutamente citato nella letteratura artistica come testimonianza eloquente della diffusione del gusto toscano a Napoli, accanto a più celebri episodi come il palazzo Gravina, occupando da allora un posto di rilievo in tutte le trattazioni storiografiche sul Rinascimento napoletano. Tuttavia il palazzo Como non fu mai oggetto, per tutto il XX secolo, di un approfondimento monografico, che indagasse i suoi aspetti formali e costruttivi, né le complesse vicende che ne avevano segnato, nel corso dei secoli, le trasformazioni né, tantomeno, quelle relative alla sua parziale conservazione e al successivo restauro ottocentesco.

Solo nel 2019 – per cura di Adriano Ghisetti Giavarina, Fabio Mangone, Andrea Pane, con il contributo di numerosi altri studiosi e il consistente apporto di Damiana Treccozzi – è uscita la prima monografia sul palazzo (Ghisetti Giavarina, Mangone, Pane 2019), che ne ha indagato sistematicamente la storia nel quadro più generale dell’architettura del Rinascimento a Napoli, le sue complesse trasformazioni e soprattutto la sua “trasposizione” ottocentesca motivata dal tracciamento, nel cuore del centro antico di Napoli, della nuova via Duomo.

Sancita a seguito di un ventennale dibattito – che vide contrapposti pareri diversi, ora inclini a sacrificarne la memoria in omaggio alle esigenze del progresso e della viabilità, ora favorevoli alla sua conservazione – la soluzione prescelta per la “trasposizione” del palazzo rappresentò un primo importante riconoscimento del valore delle preesistenze in rapporto alle impellenti esigenze di trasformazione urbana. L’esito finale, frutto certamente di un compromesso, consentì almeno la salvaguardia dei due prospetti più pregevoli del palazzo, quello meridionale e quello orientale, nei quali la testimonianza dell’architettura rinascimentale era più pregnante, insieme allo stretto prospetto settentrionale, mentre soppresse tutto quanto, al suo interno, era il risultato di alterazioni e sovrapposizioni protratte nel corso dei secoli.

In questo involucro murario, rimontato venti metri più indietro del sedime originario per consentire la prosecuzione del tracciato rettilineo della nuova via Duomo, trovò infine posto – per generosa munificenza del principe di Satriano Gaetano Filangieri, che ne diresse anche la sistemazione interna – il Museo Civico a lui intitolato, inaugurato l’8 novembre 1888. Con questo passaggio si dava dunque inizio alla terza stagione del palazzo Como, dopo l’originaria destinazione di residenza nobiliare e la sua successiva conversione a convento di San Severo al Pendino.

Sopravvissuto ai bombardamenti della Seconda guerra mondiale, ma oggetto di alterne vicende nel corso del Novecento, dalle quali derivarono anche reiterate chiusure, il Museo ha riaperto parzialmente i suoi battenti nel 2012 e, dopo un lungo lavoro di restauro e rinnovo, completamente nel 2015.

2. Le origini e l’architettura del palazzo

Le origini di palazzo Como sono strettamente legate all’insediamento a Napoli dell’omonima famiglia – discendente dal mitico fondatore Riccano Como, vicario di Carlo II d’Angiò a Marsiglia – che è attestato dai documenti fin dal 1346. Già nel 1404 un Giovanni Como risulta possessore di una casa nella strada di San Giorgio, posta in «curtilio dictae ecclesiae», ovvero al confine con l’orticello dell’omonima chiesa (Capasso 1888). Ricerche molto recenti sembrano collocare il primo insediamento della famiglia in quello che oggi è identificato come il palazzo Como-Folliero, poi Dentice di Accadia, ubicato di fronte al palazzo Como, sulla cui facciata sopravvive un balcone rinascimentale con stemma della famiglia (Ghisetti giavarina 2019; Mangone 2019). Appartenenti alla «Nobiltà dei mercadanti», i Como si stabiliscono quindi in un’area della città dai precisi connotati sociali, segnata dall’esportazione a Firenze di seta proveniente dalla Calabria e dall’importazione di tessuti serici da Firenze, commercio nel quale la famiglia era attivamente coinvolta (Mangone 2019).

Le fasi costruttive del palazzo Como sono complesse e articolate, perdurando per diversi decenni nella seconda metà del Quattrocento. Nel 1464 Angelo Como ordina l’esecuzione di cinque porte e cinque finestre in piperno per le facciate della sua casa, probabilmente corrispondenti almeno in parte a quelle di forma tardogotica poste sul prospetto meridionale del palazzo. Nove anni dopo, nel 1473, Angelo acquista dalla vicina confraternita di San Severo al Pendino una abitazione per realizzare un ampliamento del palazzo. La vendita è approvata, tra gli altri, da Diomede Carafa, proprietario di un ben noto palazzo, concluso nel 1466, il cui bugnato liscio, ad imitazione dell’opus isodomum, funge forse da modello per quello analogo che caratterizza ancora oggi il piano nobile del palazzo Como. Un ulteriore ampliamento è possibile a partire dal 1488 grazie alla cessione, da parte di Alfonso d’Aragona duca di Calabria, di un giardino con alcune case in rovina, a sua volta acquisito dal duca tre mesi prima dalla famiglia Scannasorice. È Leonardo Como, figlio di Angelo, a essere menzionato più spesso nei documenti di questi anni e i lavori nella sua casa sono attestati anche nelle Effemeridi di Leostello del 1489 (Ghisetti giavarina 2019; Treccozzi 2019c).

Un anno dopo, tuttavia, il 18 agosto 1490, è ancora Angelo a commissionare a tre lapicidi toscani la realizzazione di quattro finestre di «pietra buscia» (una arenaria proveniente da Massa Lubrense, come le analisi petrografiche hanno confermato) sul prospetto orientale a imitazione della finestra marmorea già eseguita e tuttora presente a sinistra del prospetto. Agli stessi lapicidi sono inoltre commissionate sei porte di «pietra azzurra» (denominazione corrente della pietra serena toscana), un grande camino e una finestra sopra la loggia per la sala, due porte e due finestre per le camere. È questa la fase del definitivo assetto rinascimentale di palazzo Como, nella quale viene realizzato anche il bugnato rustico del basamento, ispirato certamente a esempi fiorentini come il palazzo Medici e il palazzo dello Strozzino, ma qui meno riuscito a causa della necessità di applicare il nuovo rivestimento a una muratura già esistente e forse finita a bugnato liscio, da cui i giudizi non lusinghieri espressi a suo tempo da Adolfo Venturi e Roberto Pane (Venturi 1924; Pane R. 1975-77).

L’attento studio sui documenti di questa fase, compiuto recentemente da Adriano Ghisetti Giavarina, consente di avanzare l’attribuzione della configurazione finale di palazzo Como ad Antonio Marchesi da Settignano, allievo di Giuliano da Maiano e continuatore delle opere del maestro dopo la morte di quest’ultimo, avvenuta a Napoli pochi mesi dopo la data del documento prima citato, il 17 ottobre 1490. Lo confermerebbero, secondo le sue ipotesi, diversi altri elementi: 1) la presenza dei tre scalpellini toscani nel cantiere della cavallerizza di Poggioreale, quasi certamente diretta da Antonio Marchesi; 2) la collaborazione tra lo stesso Marchesi e Leonardo Como in diverse imprese di quegli anni, tra le quali il sopralluogo del duca di Calabria alle fortificazioni costiere della Calabria, cui presero parte entrambi; 3) l’analogia del palazzo Como, in particolare del portale, con il palazzo Calderini a Imola, opera del padre di Antonio, Giorgio Marchesi.

3. Vicende storiche e trasformazioni architettoniche dal XVI al XIX secolo

Con la morte di Angelo Como nel 1499 e il progressivo abbandono, da parte dei suoi eredi, della casa gentilizia, si inaugurò per il palazzo Como una nuova stagione di trasformazioni che si sarebbe protratta fino al XIX secolo. Già al 1566 il palazzo non risultava più abitato dai Como che lo avevano prima dato in fitto e poi definitivamente venduto, nel 1587, per 8.000 ducati ai Padri Predicatori della congregazione di Santa Caterina da Siena, stabilitisi nella adiacente chiesa di San Severo nel 1586. Ben presto «tutte le case comprate… servite per ampliazione del Convento» – tra le quali ricadeva anche quella Como – sarebbero state affidate a Giovan Giacomo di Conforto con il compito di accorparle sotto un unico disegno unitario. Così, al termine del XVI secolo, «le memorie del palazzo Como finiscono e cominciano quelle del Convento di San Severo maggiore; memorie povere e monotone, e nelle quali non s’incontrano nomi e fatti d’interesse storico, e tali da raccomandarli all’attenzione dei posteri» (Capasso 1888).

Sebbene la storia del nuovo convento sia durata oltre due secoli, non sembrano oggi sussistere tracce documentarie o iconografiche significative relative alla nuova configurazione architettonica. L’intervento dovette essere certamente complesso, richiedendo diversi anni per essere portato a termine, al punto che al 1629 i lavori erano ancora in corso. Solo nella Mappa topografica della Città di Napoli e de’ suoi contorni edita da Giovanni Carafa duca di Noja (1775) può osservarsi, a quasi centocinquant’anni dall’ultimazione dei lavori di conversione, la disposizione planimetrica della chiesa e dell’annesso convento, al quale si accedeva dal sagrato della chiesa. Proprio nel corpo principale del convento, ad oriente, aveva sede, sin dal 1618, la Congregazione dei Recitanti del Santissimo Rosario che vi sarebbe rimasta fino alla trasposizione ottocentesca del palazzo. Infine, nel cantonale meridionale si era stabilita la farmacia del convento o spezieria di fra Giacinto, cui si accedeva dall’uscio più a sud del prospetto orientale, ricavato con un taglio nel bugnato rustico del basamento (Capasso 1888).

La soppressione napoleonica degli ordini monastici del 1806 avrebbe posto fine anche alla fase religiosa del palazzo Como, che, pur avendo comportato – per effetto della conversione a convento – sostanziali alterazioni, aveva tuttavia consentito di preservarne un uso unitario. Dopo il 1806, invece, la fabbrica avrebbe subito una irrecuperabile frammentazione con la destinazione dell’ultimo livello ad alloggio delle vedove dei militari e l’occupazione della restante parte con i più disparati usi. Nel 1815 una parte del pian terreno, compreso il chiostro e il refettorio, oltre a gran parte del primo piano, furono dati in fitto all’austriaco Antonio Mennel, che vi stabilì una fabbrica di birra; altri ambienti al pian terreno verso il vico San Severo furono dati in uso alla Conciliazione degli arretrati dei creditori di beneficienza, mentre i rimanenti locali, sempre al pian terreno, furono adibiti a deposito. Nel 1818, l’ex convento passò prima sotto l’amministrazione della Commissione esecutrice del Concordato e poi nel 1824, alla Commissione mista amministratrice del patrimonio ecclesiastico regolare. In quello stesso giro di anni il complesso fu concesso anche, nel 1822, alla badessa del Divino Amore, Leonora Santasilio, per fondarvi un nuovo convento, mentre per qualche tempo, furono pure ospitati, dal 1827, i Padri Minori Osservanti della provincia di Principato Citra (Capasso 1888).

La seconda e ultima soppressione degli ordini religiosi del 1863 fu causa di nuovi squilibri. I locali, liberati ancora una volta, furono utilizzati dal Municipio che vi insediò alcuni uffici tra i quali la Questura, la Pretura della sezione Pendino, la Compagnia della Misericordia e una Società evangelica. Questo assetto è ben visibile in una preziosa documentazione del 1864, che in quattro piante mostra i resti del palazzo e del convento adibiti agli usi più disparati (Sarnella 1979; Treccozzi 2019a). Successivamente, nel 1875, con la demolizione della sede del Ritiro dell’Ecce Homo presso il quartiere Porto, questo fu trasferito nei piani terreni della parte postica dell’ex convento – con la conseguente dislocazione degli uffici della Questura – ove rimase per lungo tempo. Intanto, dal 1879, i sotterranei risultavano impiegati come deposito di vario genere, persino di carbone (Capasso 1888).

Così, mentre nel corso di tutta la prima metà dell’Ottocento l’ex convento di San Severo al Pendino aveva visto susseguirsi al suo interno i più disparati usi, con l’avanzare dei lavori della via del Duomo e la minaccia di una sua possibile mutilazione, iniziavano progressivamente a risuonare le speculazioni intellettuali intorno all’antico palazzo Como, e a quanto ancora si conservasse del palazzo rinascimentale.

4. L’apertura di via Duomo e il destino del palazzo

Come già accennato, la singolare vicenda della “traslazione” di palazzo Como è generata dal tracciato in rettifilo della prima arteria aperta nel cuore del centro antico di Napoli: via Duomo, realizzata tra il 1861 e il 1887. Concepita durante il regno di Ferdinando II, questa strada costituisce un esempio emblematico di continuità tra i programmi edilizi di età borbonica anche dopo l’unità d’Italia.

La prima idea di una strada di attraversamento del centro antico, disposta in corrispondenza di uno degli antichi cardines della città, risale addirittura al 1839, quando gli ingegneri Federico Bausan e Luigi Giordano presentano un progetto di nuova strada da San Carlo all’Arena alla Marinella, parallelo all’attuale via Duomo e posto dietro la fabbrica della cattedrale, che non sarà mai realizzato.

Alcuni anni dopo, nel 1852, il sovrano dà incarico a due architetti municipali, Luigi Cangiano e Antonio Francesconi, di elaborare un progetto di una nuova strada verso il Duomo, ottenuta dall’allargamento del cardo antistante la cattedrale che, procedendo da nord a sud, comprendeva il vico San Giuseppe dei Ruffi, la strada dell’Arcivescovado, la strada dei Mannesi, il vico San Giorgio Maggiore e la strada San Severo al Pendino. La definizione in rettilineo di un tale percorso avrebbe generato diverse e gravi conseguenze sulla conservazione di antiche fabbriche, tra le quali l’inevitabile taglio del complesso costituito dalla chiesa di San Severo al Pendino e dal palazzo Como. Appare dunque evidente che il problema specifico del palazzo si pose fin dal principio del tracciamento della nuova strada, comportando una precisa scelta che doveva apparire ineludibile agli occhi dei progettisti, a meno di non abbandonare la rigorosa assialità del rettifilo.

Rimasto sulla carta per diversi anni, anche per le evidenti difficoltà di esproprio, il progetto è ripreso alla vigilia del tracollo del regno borbonico, quando Francesco II conferma gran parte delle disposizioni già stabilite dal padre, ma eleva la sezione stradale da cinquanta a sessanta palmi, sottolineando la priorità del tratto compreso tra San Giuseppe dei Ruffi e via Tribunali. Nessun intervento concreto, tuttavia, è portato avanti sino all’ingresso in città di Garibaldi che, in qualità di Dittatore dell’Italia Meridionale, il 18 settembre 1860 decreta l’urgenza di avviare i lavori della nuova strada, i cui dettagli vengono fissati in un grafico datato 27 dicembre 1860, ritrovato e pubblicato per la prima volta da Andrea Pane nel volume monografico prima citato (Pane A. 2019).

Nonostante la scelta di concentrare l’allargamento dell’antico cardo prevalentemente sul lato orientale, al fine di ridurre gli effetti sui numerosi complessi monastici, come San Giuseppe dei Ruffi e i Girolamini, gli esiti sul tessuto edilizio esistente sono notevoli. Già nel disegno si riconoscono infatti le conseguenze sulle principali chiese e sui palazzi intercettati dalla nuova strada: la chiesa delle Crocelle ai Mannesi è demolita per far posto ad uno slargo e ricostruita in posizione ortogonale rispetto alla preesistente, quella di San Severo al Pendino è ridotta di ben quattro campate, lasciandone in piedi solo due, mentre il palazzo Como è resecato sul fronte postico della parte rinascimentale ma quasi integralmente conservato, benché il prospetto meridionale appaia sacrificato dal previsto allargamento di vico San Severo.

Dopo una lunga gestazione, i lavori per la nuova via Duomo vengono inaugurati con una solenne cerimonia il 24 giugno 1861, a partire da via Foria (Pane A. 2019). Il progresso delle opere avanza tuttavia a rilento: nel 1864 si arriva a San Giuseppe dei Ruffi mentre soltanto il 19 settembre 1868, sette anni dopo l’inizio dei lavori, si inaugura l’intero primo tronco della strada fino al fianco nord del duomo. Alcuni mesi più tardi, il 3 aprile 1869, alla presenza del principe ereditario Umberto, si dà inizio al cantiere dei portici di raccordo tra la nuova strada e la cattedrale, che generanno anche la successiva riprogettazione della facciata, affidata a Errico Alvino.

Seguirà l’apertura del tratto compreso tra il duomo e la via Vicaria vecchia, realizzata tra il 1870 e il 1877, che comporterà il taglio – già previsto in sede di progetto – della chiesa di Santa Maria Porta Coeli, più nota con la denominazione di Crocelle ai Mannesi, rimasta per qualche tempo allo stato di rudere e poi sostituita da una nuova chiesa in forme neogotiche su progetto di Filippo Botta (Pane A. 2019). Al termine di questo periodo, l’attenzione della cittadinanza sarà concentrata sul nodo più critico dell’intero tracciato, ovvero il complesso di monumenti costituiti dalla basilica di San Giorgio Maggiore, dalla chiesa di San Severo al Pendino e dal palazzo Como, tutti interessati da consistenti mutilazioni da parte della nuova strada. Nonostante le attenzioni della Commissione municipale per la conservazione dei monumenti, istituita nel 1874, la prima chiesa sarà privata di un’intera navata e sistemata con un nuovo prospetto su via Duomo, disegnato da Francesconi, mentre quella di San Severo sarà privata del sagrato, della facciata e di ben tre delle cinque campate.

Ben più complessa sarà tuttavia la decisione da prendere nei confronti del palazzo Como, a rischio di scomparire totalmente o di finire ridotto a un semplice lacerto murario privo di relazione con il suo contesto originario, decisione che animerà intensamente il dibattito cittadino tra il 1878 e il 1880.

5. Dalle prime proposte alla traslazione del palazzo, 1863-1884

Il destino infausto del palazzo Como aveva suscitato precoci allarmi già pochi anni dopo l’avvio dei lavori di via Duomo. Fin dal 1863 Luigi Settembrini si era rivolto allo stesso Francesconi, implorandolo di deviare la strada e salvare il palazzo nella sua integrità (Settembrini 1863). Fu soprattutto nel 1879, tuttavia, che l’interesse per la questione iniziò a diffondersi tra gli intellettuali napoletani in tutta la sua vividezza ed urgenza. Proprio in quell’anno, infatti, i lavori della nuova strada, giunti ormai di fronte al palazzo Como, dovettero essere interrotti a causa del disaccordo che ancora regnava sulla decisione da prendersi. Esplose allora la partecipazione dei cittadini al dibattito, divenuto ormai pubblico, come confermano una fitta serie di pubblicazioni di intellettuali che, a vario titolo, si espressero a favore della salvaguardia di quella residenza rinascimentale minacciata di distruzione (d’Aloe 1879, D’Ambra 1879, Lylircus [E. Cerillo] 1879a, Pedone, Martinez 1879, Pedone 1880).

Tra i tanti tecnici e studiosi coinvolti vi fu Alberto Pedone, ingegnere socio del Collegio degli ingegneri e architetti in Napoli, che il 25 aprile 1878 presentò al collegio una «conferenza illustrativa del Palazzo Como», a seguito della quale l’Assemblea si impegnò a fare «voti vivissimi al Municipio di Napoli, che non potendo que’ ricordi essere conservati nella loro integrità, siano artisticamente trasportati sul fronte della nuova via del Duomo» (Atti del Collegio degli Ingegneri ed Architetti in Napoli 1878). Il Municipio fu così invitato, forse per la prima volta, a prendere in considerazione l’idea della “trasposizione” del palazzo Como. Fino ad allora, infatti, la soluzione conservativa da adottarsi per risparmiare il palazzo dalla completa demolizione era stata individuata in quella di sopprimere solamente quella parte della fabbrica che effettivamente impediva la prosecuzione della nuova via del Duomo, lasciando così sul fronte orientale della strada un «avanzo» dello spessore di pochi metri da completare poi con un nuovo prospetto. Tale ipotesi doveva sembrare ancora attuabile quando, secondo il progetto di Cangiano e Francesconi del 1860, la via avrebbe dovuto lievemente resecare il fronte occidentale del palazzo (Pane A. 2019). Essa sarebbe apparsa impraticabile a seguito di una revisione del tracciato viario – da cui sarebbe conseguita la riduzione della parte superstite del palazzo Como a dimensioni talmente esigue da renderlo inutilizzabile, senza considerare la complessità tecnica e il costo di una simile operazione, come denunciato da diversi intellettuali e ingegneri-architetti dell’epoca (Lylircus [E. Cerillo] 1879a).

In seguito alle pubblicazioni di Pedone, molti altri si espressero sulla questione, alimentando quello che divenne un vero e proprio dibattito pubblico. Se si eccettua la singolare posizione di Stanislao d’Aloe che si oppose alla realizzazione della via del Duomo «vera cagione di malanni pe’ cittadini» (d’Aloe 1879), la posizione prevalente risultò essere quella della scomposizione e ricomposizione dei prospetti sul fronte occidentale della via del Duomo. Così, il 25 agosto 1879, la Commissione per la conservazione dei monumenti municipali deliberò di procedere sperimentalmente allo smontaggio del suddetto paramento e, conseguentemente, ad un «saggio di ricostruzione» (Colombo 1900). Si decise di smontare il rivestimento in piperno del prospetto meridionale, previa rimozione dei «rimaneggiamenti dei frati» – tra i quali fu compreso il piano attico di sopraelevazione – e di disporlo identicamente su di un piano appena inclinato, di modo che la Commissione dei monumenti, la Giunta e il Consiglio municipale potessero valutare la fattibilità dell’opera (De Coster 1882). L’esperimento si concluse positivamente, cosicché tra il maggio e il giugno del 1880 fu deliberata all’unanimità la definitiva “traslazione” del palazzo Como – o meglio dei suoi paramenti esterni – sul fronte occidentale della nuova via del Duomo, arretrandolo di quasi venti metri rispetto alla giacitura originaria, nonché l’interposizione tra esso e la chiesa di San Severo al Pendino di un portale di accesso ai residui locali postici dell’ex convento, ancora occupati dal Ritiro dell’Ecce Homo (Colombo 1900).

Intanto, mentre procedeva lo smontaggio dei prospetti orientale e settentrionale, veniva avviata, lungo il perimetro individuato per il nuovo ingombro della fabbrica, la costruzione delle fondazioni dei muri ai quali sarebbero state addossate le antiche bugne del palazzo Como. I prospetti, negli intenti della Commissione municipale, avrebbero dovuto rispettare unicamente le bucature originarie rinascimentali, cancellando le alterazioni successive. Alla fine, però, si decise di propendere per una soluzione intermedia tra quelle estreme di applicazione di una rigorosa correzione geometrica con il mantenimento delle sole finestre quattro-cinquecentesche e quella di riproposizione della fedele ed esatta configurazione precedente la trasposizione.

Tra il 1881 e il 1883 andava così definitivamente configurandosi il “nuovo” palazzo Como, finalmente allineato sul fronte stradale della via del Duomo (De Coster 1882, Cerillo 1888). L’operazione, conclusasi con successo, fu accolta con entusiasmo e lodata con ammirazione dai cittadini, al punto che anche Paolo Boubée, nella rassegna delle maggiori opere della Scuola napoletana di ponti e strade, la menzionò come un intervento complesso, la cui riuscita dimostrava appieno la capacità tecnica dei napoletani e del suo principale artefice, Antonio Francesconi.

Nel frattempo proseguiva il dibattito per l’individuazione della giusta funzione da inserirvi all’interno, che si risolse nell’accettazione, da parte del Municipio, della proposta di Gaetano Filangieri principe di Satriano di allestirvi all’interno un museo civico a sue spese. Così, sotto la direzione di questi, gli architetti de Angelis, Romano e Cerillo furono ben presto incaricati di predisporre un nuovo progetto distributivo per accogliere nel piccolo volume la grande collezione del principe. L’8 novembre 1888 il Museo Civico Gaetano Filangieri fu finalmente inaugurato (Barrella 1998) nel clamore generale e celebrato diffusamente sui periodici di quei giorni.

Nel presente contributo, frutto di un lavoro di ricerca condiviso, Andrea Pane è autore dei paragrafi 1, 2 e 4, mentre Damiana Treccozzi dei paragrafi 3 e 5.

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Settembrini 1863

L. Settembrini, Il Palazzo Como, in «Rivista napoletana», 10 e 20 agosto 1863, Stamperia dell’Iride, Napoli 1863.

Strazzullo 1959

F. Strazzullo, Via Duomo, in Saggi storici sul Duomo di Napoli, Istituto Editoriale del Mezzogiorno, Napoli 1959, pp. 75-82.

Strazzullo 1995

F. Strazzullo, Documenti sulla costruzione di palazzo Como, in «Rendiconti dell’Accademia di Archeologia Lettere e Belle Arti», LXV, 1995, pp. 95-116.

Treccozzi 2019a

D. Treccozzi, Da residenza a convento: vicende storiche e trasformazioni architettoniche di palazzo Como dal XVI al XIX secolo, in A. Ghisetti Giavarina, F. Mangone, A. Pane (a cura di), Da Palazzo Como a Museo Filangieri. Storia, tutela e restauro di una residenza del Rinascimento a Napoli, Grimaldi, Napoli 2019, pp. 97-115.

Treccozzi 2019b

D. Treccozzi, Il destino del palazzo tra demolizione e ricostruzione: dalle prime proposte all’intervento definitivo, 1863-1884, in A. Ghisetti Giavarina, F. Mangone, A. Pane (a cura di), Da Palazzo Como a Museo Filangieri. Storia, tutela e restauro di una residenza del Rinascimento a Napoli, Grimaldi, Napoli 2019, pp. 201-235.

Treccozzi 2019c

D. Treccozzi, Regesto cronologico della fabbrica e delle sue trasformazioni, in A. Ghisetti Giavarina, F. Mangone, A. Pane (a cura di), Da Palazzo Como a Museo Filangieri. Storia, tutela e restauro di una residenza del Rinascimento a Napoli, Grimaldi, Napoli 2019, pp. 329-351.

Venturi 1924

A. Venturi, Storia dell’arte italiana. VIII. L’architettura del Quattrocento, II parte, Hoepli, Milano 1924.

Foto di Mario Ferrara